Cold case svedese, le motivazioni della sentenza inchiodano Aldobrandi: «E’ certamente lui l’assassino»

Prove schiaccianti e testimonianze fondamentali: in 128 pagine la Corte d’Assise ha chiuso il cerchio di una triste vicenda durata trent’anni
Imperia. «Salvatore Aldobrandi ha certamente ucciso Sargonia e, probabilmente, l’omicidio è avvenuto – secondo quanto evidenziato dallo specialista nella ricostruzione delle scene del crimine – con l’utilizzo di un corpo contundente o di un’arma bianca; o anche con un colpo a mano nuda. Tanto può desumersi dalla valutazione effettuata sulla traccia ematica posta sulla parete in prossimità della tenda di casa di Aldobrandi, ritenuta, per la morfologia ellittica e la direzionalità, senza dubbio una traccia da impatto/proiezione e, nella specie, uno schizzo, ossia una traccia ematica risultante da goccia di sangue in volo originata da un’applicazione di una forza esterna a del sangue liquido».
Non ha dubbi la Corte di Assise di Imperia, presieduta dal giudice Carlo Alberto Indellicati (con a latere la collega Eleonora Billeri): Salvatore Aldobrandi, pizzaiolo di 73 anni, originario di San Sosti (Cosenza), da anni residente a Sanremo, è colpevole «oltre ogni ragionevole dubbio», di aver ucciso Sargonia Dankha, 21 anni, di origini irachene, naturalizzata svedese, sparita nel nulla nel primo pomeriggio del 13 novembre del 1995 a Linköping.
Nelle 128 pagine delle motivazioni, depositate oggi, i giudici hanno ricostruito quanto accaduto a Sargonia: una verità che la famiglia della giovane aspettava da 30 anni. Per l’omicidio, in primo grado, Aldobrandi è stato condannato alla pena dell’ergastolo.
«Che l’uccisione di Sargonia sia stata causata dall’uso di un coltello o da un violento colpo diversamente e mortalmente assestato, non essendo stato trovato il corpo della ragazza evidentemente non potrà mai più essere accertato – specifica la Corte d’Assise -. Certo è che la ferita causata da un morso – si rimanda alle dichiarazioni in udienza di Malin Helgesson – presente sulla mano destra di Aldobrandi, unita all’attitudine – riferita dalla Vitsby – di Aldorbandi di effettuare la “presa a strangolo” (ossia la stretta del collo con un braccio) potrebbe portare a ritenere che, dopo l’ultimo confronto tra Sargonia e Samuel, questi, accecato dall’ira, possa averla strangolata con un braccio, subendo anche un morso sulla mano da parte della ragazza impaurita e disperata».
In ogni caso, comunque, si legge nelle motivazioni «l’azione dell’omicida avrebbe causato “lo schizzo” di sangue poi repertato sulla tenda di casa Aldobrandi, anche questo con certezza scientifica risultato riconducibile a Sargonia».
Una volta uccisa la giovane donna, Aldobrandi «probabilmente sconvolto», scrivono i giudici, «si preoccupa di far sparire il corpo e deve farlo in fretta. Così solo può giustificarsi la ricerca affannosa dell’auto per “trasportare qualcosa” – si rimanda alle citate dichiarazioni di Mijkovic -; la richiesta di prestito dell’auto alla Vitsby; la preoccupazione manifestata circa la conoscenza da parte di altri del prestito dell’auto; la presenza nell’auto della Vitsby (per percezione diretta da parte del padre di quest’ultima) di più di una persona (probabilmente oltre alla povera Sargonia ci sarà stato qualcuno che avrà aiutato Samuel a sistemare il corpo in macchina); i chilometri effettuati con la macchina; il fango sulle ruote e sul paraurti; e per ultimo, il risultato dell’analisi delle tracce di sangue presenti sulla vettura».
Purtroppo per la famiglia, che di Sargonia ormai vorrebbe solo vedersi restituire i resti sui quali piangere, è impossibile sapere dove sia stato nascosto il corpo. Con l’auto imprestata Aldobrandi «aiutato da qualcuno», scrivono i giudici, ha portato via le spoglie «chissà dove per poi esser fatte scomparire».
Una storia drammatica, quella della giovane donna, che ha avuto una verità giudiziaria grazie alla madre e al fratello minore, che non si sono arresi mai, nemmeno davanti alla mancanza di un corpo: motivo per il quale, senza testimoni diretti del delitto, in Svezia Aldobrandi non è mai potuto essere processato per omicidio. I familiari hanno contattato lo studio legale dell’avvocato Francesco Rubino, del foro di Milano, che assieme all’avvocato Marta Vignati hanno lavorato per far riaprire il caso, coinvolgendo la procura di Imperia essendo Aldobrandi residente a Sanremo. Qui, ad occuparsi del caso sono stati i pm Paola Marrali e Matteo Gobbi, che hanno ricostruito con tenacia ogni tassello della vicenda, riuscendo a sostenere con coraggio e determinazione una tesi accusatoria tutt’altro che semplice da provare a così tanti anni dai fatti.
«In tema di omicidio doloso – sottolineano i giudici -, Il mancato ritrovamento del cadavere non impedisce la formazione della prova né incide sul principio di responsabilità e, tuttavia, l’evento morte può essere provato mediante indizi gravi, precisi e concordanti, nonché tenendo conto del comportamento post factum dell’imputato».
«La vicenda oggi in esame, raccontata dalle – spesso drammatiche – testimonianze dei testi escussi e delineatasi grazie ai risultati delle attività investigative svolte – a più riprese – dagli inquirenti svedesi sin dal novembre del 1995, parla di una giovanissima vita svanita, di un sogno d’amore ucciso sul nascere; è la sintesi di come il senso di dominio e di possesso può travolgere e distruggere per sempre un sorriso, annientare speranze e prospettive, uccidere senza una vera, logica, ragione aspettative e progetti, lasciando tra le macerie solo il dolore perenne di una famiglia che per trent’anni ha cercato – ininterrottamente ed infaticabilmente – la verità», esordiscono i giudici. «E’ la storia di una ragazza di appena 20 anni, percepita e definita da tutti come una persona “felice, piena di vita, una persona con cui era facile aprirsi. una bella persona.. molto amichevole, carina”, cui non è stato concesso di attraversare quel percorso intriso di esperienze ed emozioni, delusioni e gioie che solo gli anni da vivere possono garantire», aggiungono.
Ma è anche la storia, purtroppo, «di un omicidio efferato, brutale ed incomprensibile, quello perpetrato dall’odierno imputato che, non pago della mostruosità del suo gesto, ha architettato anche la maniera – ancora oggi sconosciuta a tutti, tranne che a lui – di disfarsi del corpo esanime di Sargonia, rea soltanto di aspirare ad un nuovo amore; quello che stava nascendo con il giovane Nordin, suo coetaneo».
Sembra la trama di un film, ambientato tra la Svezia e Sanremo. Una storia di amore e di morte, di spensieratezza e brutalità. Invece si tratta di un omicidio. Perché, nonostante la difesa abbia provato ad aprire altre strade, «la riconducibilità della scomparsa di Sargonia ad un fatto omicidiario – e non certo a cause diverse – e – soprattutto – l’attribuibilità della commissione dello stesso a Salvatore Aldobrandi, detto Samuel, emerge pacificamente sol che si operi una lettura sistematica e logica delle risultanze istruttorie, dalla quale consegue una ricostruzione degli eventi che, anche sotto il profilo cronologico, presenta profili di assoluta certezza ed inconfutabilità».
Parole, quelle scritte nelle motivazioni della sentenza, che pur nella loro essenzialità non riescono a non far trapelare la mostruosità di una storia che non è fantasia, ma drammatica, quanto ferocemente banale e assurdamente ovvia verità.