Una vita da prete in provincia di Imperia: quattro sacerdoti si raccontano
Da chi non ama le lunghe omelie a chi va in palestra a chi ascolta musica live. Dal carcere agli ospedali, aneddoti e situazioni di uomini che hanno fede
Imperia.Quattro sacerdoti, potrebbe essere il nome di un programma televisivo ed è in effetti strano che qualcuno non abbia già pensato di realizzarlo. Un parroco celebra la Messa, i matrimoni, i funerali, confessa i peccati e poi? Poi ha una vita come tutti noi, la differenza è che la vive in un continuo dialogo fra la propria umanità e Dio, cercando di mantenere in equilibrio la quotidianità umana con la logica evangelica.
Abbiamo chiesto a quattro parroci della provincia di Imperia di raccontarsi nel loro quotidiano, ognuno nella sua giornata. Perché la vita da prete non è uguale per tutti, ognuno ha il suo carattere, ognuno ha il suo lavoro e i suoi hobby. A raccontarcelo sono Don Diego, parroco e responsabile delle comunicazioni della curia, Don Marco cappellano dell’ospedale, Don Giorgio, giovane parroco della Valle Argentina e Don Marco che svolge anche il supporto in carcere.
Perché un articolo sulla giornata di un prete? Perché i preti non sono persone di un altro mondo, vivono i problemi, le incognite, e i drammi come tutti quanti. Talvolta occorre fare un passo oltre quella “distanza” che si è venuta a creare tra sacro e profano e comprendere che esiste una via di mezzo, fatta non di pregiudizi o di autoreferenzialità, ma di uomini.
Don Giorgio, 29 anni, parroco della Valle Argentina.
Una giornata non è mai uguale all’altra. L’agenda ce la scrive il Signore, non ce la scriviamo noi. Quando capita una cosa piuttosto che un’altra, se la sai leggere, trovi sempre la sua mano e capisci quanto non si è soli. Ho l’abitudine si svegliarmi presto per potermi dedicare alla preghiera. Dopodiché faccio colazione, spesso bar del paese e vado poi su in Valle. Da qui dipende da quello che viene: si sta con la gente e il tempo spazia da una persona che ha bisogno di parlarti, di pregare o perché no di una partita a bocce. Il mercoledì celebro la Messa nell’ospedale di Triora ed è molto bello stare con gli ospiti. Quando ho iniziato mi hanno detto: «Grazie che si ricorda di noi, non si ricordano in tanti». Il venerdì mi occupo delle parrocchie di montagna anche se i fedeli sono molto pochi, una di loro ha appena tre abitanti, ma, come diceva Don Paschetta, uno dei parroci della mia infanzia: «Cristo sarebbe molto anche solo per uno».
Le è mai capitato di “riciclare” delle omelie? Una volta avevo preparato una omelia per una Novena e poi, devo essere sincero, un anno dopo l’ho riutilizzata per un’altra parrocchia. Ma per loro era nuova, non l’avevano mai sentita. Io non predico molto perché celebrando una Messa dietro l’altra non avrei il tempo di scambiare due parole al termine della funzione. Credo che l’omelia non sia una cosa per mettersi la coscienza in pace. Ognuno ha bisogno della parola giusta e della cosa giusta al momento giusto. Quando ero piccolo le pativo tantissimo, una volta mi sono anche addormentato. Ha qualche hobby? Dipingo ogni tanto, solitamente alla sera. Non ho la televisione quella che avevo l’ho regalata e così mi dedico al disegno.
Don Marco, cappellano dell’ospedale di Sanremo e Bordighera.
La mia giornata non è mai quella che mi aspetto quando mi alzo al mattino e anche in questo vedo la presenza del Signore. In questo periodo dell’anno inizio con le novene del mattino alle 7 in modo che possano partecipare anche i lavoratori e quindi facciamo insieme un break per fraternizzare. Dopo l’adorazione eucaristica e la celebrazione della Messa, il pomeriggio lo dedico alle visite in ospedale per visitare i malati e parlare con i medici. Sono a disposizione di chi vuole un colloquio o una confessione. C’è ancora la mentalità che quando si chiama un prete in ospedale vuol dire che qualcuno sta morendo. Invece i sacramenti sono per il sollievo sia dell’anima sia del corpo. Passiamo in tutti i reparti, e cerchiamo di raggiungere più persone possibile. Talvolta anche i medici chiedono supporto, anche se non è sempre facile perché noi parliamo di vita eterna e loro affrontano ogni giorno malattie e morte. Anche scambiare un sorriso o una parola con chi ne ha bisogno fa parte de nostro ministero. Ha qualche hobby? La musica in generale, ma quella sacra in particolare. La musica deve far star bene per questo preferisco quella dal vivo, suono clarinetto e organo.
Don Diego, parroco e responsabile delle comunicazioni della curia.
Fare il parroco e il comunicatore. La chiesa è un influencer? No, la chiesa non ha interesse a fare da influencer, non ci basiamo sui risultati delle statistiche o su successi commerciali. A noi interessa essere una strada sicura e presentare bene il Vangelo nella sua interezza, il resto sono meccanismi che ci devono essere estranei. Questo non vuol dire non conoscerli. E’ come una macchina: io la uso per andare in giro ma non sono un fanatico. Internet è l’autostrada di oggi e sarebbe un guaio non usarla per poter arrivare a tutti. Andare online ma per ritrovarsi nella comunità: ecco perché, come dice Papa Francesco, non si può virtualizzare la comunione e i sacramenti. Il mio lavoro consiste, dal mattino alla sera, porre attenzione alla comunicazione della Diocesi e dei parroci. Dall’epoca del Covid abbiamo iniziati ad inviare una newsletter quotidiana dal lunedì al venerdì con contenuti sociali, notizie sulla diocesi ma anche umorismo. E’ diventato un appuntamento fisso da 4 anni e mi piace pensare che alle 7 del mattino il buongiorno della diocesi arrivi a tutti.
Anche la chiesa ha i suoi “haters”. Come reagite? Non scendiamo mai sul piano della polemica. Quando c’è quello che può essere un atteggiamento ostile, cerco sempre di recuperare sul personale, mai sulla piazza pubblica nel confronto dei social. Piuttosto con messaggi diretti, cercando di dire come la cosa possa essere vista sotto un’altra prospettiva. E’ come nella vita reale, quando hai una ostilità verso qualcuno, ti basta incontrarlo e tutto si ridimensiona. Ha qualche hobby? Scrivo libri (38), credo nella “parrocchia di carta”. Non sono un professionista ma ho avuto la fortuna di avere anche delle traduzioni. Una delle cose più belle è quando mi dicono che hanno trovato il mio libro e che hanno fatto bene qualcuno. Scrivo della mia vita da prete coniugata ad argomenti come possono essere la morte il dolore, ma con l’idea di voler camminare insieme.
Don Marco, parroco e supporto in carcere.
Com’è la mia vita come sacerdote? Bella e frenetica. Bella perché vissuta alla presenza del Signore, soprattutto durante la Santa Messa e il sacramento della riconciliazione. Inoltre permette di stare con persone che vogliono dirigere la loro vita verso il bene, belle persone che insegnano cosa vuol dire aiutare gli altri in modo disinteressato. Quanto c’è da imparare da loro, cose diverse da ognuno. Frenetica perché ci sono mille cose da fare ogni giorno e il tempo non basta mai, si scontenta sempre qualcuno. Noi parroci non siamo solo responsabili della vita spirituale delle persone che ci sono state affidate, quindi non ci limitiamo a celebrare la Messa, preparare l’omelia, pregare con i fedeli ma anche preparare le persone a ricevere i sacramenti, organizzando gli incontri con le catechiste, o i novelli sposi e i genitori dei battezzandi. Curiamo la gestione del magazzino Caritas parrocchiale, siamo anche amministratori della Parrocchia e i legali rappresentati con tutte le conseguenze, quindi dobbiamo gestire la parte economica ma anche pensare alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, seguendo tutte le procedure imposte da una parte dalla Curia e dal Codice di diritto Canonico, dall’altra dalle normative civili.
Oltre alla gestione della Parrocchia, poi c’è quella della casa, devo pensare alla pulizia della stessa, a lavare e stirare i panni, fare la spesa, cucinare. Come cristiano, e figlio, devo trovare il tempo anche per onorare mia madre, quindi cerco di trovare almeno mezza giornata alla settimana (quando riesco una per andare a trovarla) visto che si trova in un’altra provincia. Oltre allo spirito devo pensare anche a cercare di mantenere il corpo che Dio mi ha dato in salute, quindi cerco di andare anche due-tre volte, alla sera in palestra. Sento però il bisogno di dedicarmi in modo concreto agli altri, alle persone in difficoltà ma ho difficoltà a stare con le persone che soffrono nel fisico, fatico ad andare negli ospedali a trovare le persone ricoverate, ma mi trovo a mio agio come volontario del carcere ormai sono circa dieci anni che frequento l’istituto penitenziale di Sanremo. Da un po’ di tempo, rimanendo volontario, sono responsabile dei volontari Caritas all’interno della struttura. Un tempo avevo molta più occasione di parlare con i detenuti, stare con loro, pregare insieme a loro ed è stata una bella esperienza, anche di crescita personale. Poi le cose sono cambiate, vi era la necessità urgente di consegnare i vesti ai detenuti nullatenenti che, o perché abbandonati da amici e parenti o perché questi sono in situazione economica difficile, si trovano senza vestiti di cambio. Non si può pensare di voler pregare e parlare di carità quando non si fa concretamente al prossimo che è nella necessità. Così ho colto l’invito della direzione e del Vescovo e grazie anche della Caritas diocesana e nazionale, ho organizzato, insieme all’aiuto di preziosi collaboratori, una distribuzione di vestiario nel carcere; in fondo anche i missionari prima di parlare di Dio, fanno vedere concretamente che cos’è la carità.
Si riesce ad andare avanti grazie alla preghiera, affidandosi al Signore e alla comunità che mi sostiene. Con molti gesti concreti mi fanno capire che mi vogliono bene, che mi stimano, che in caso di bisogno loro ci sono (anche noi sacerdoti abbiamo bisogno delle preghiere e del sostegno degli altri). So che la porta di alcuni di loro è sempre aperta, se sono in ritardo e non sono riuscito a prepara pranzo, basta una chiamata e loro aggiungono un piatto, oppure a volte condividono le prelibatezze che hanno preparato. Questo fa bene sia al corpo che allo spirito.