Pm Traversa: «Bordighera e Ventimiglia sono l’esempio della ‘ndrangheta in Liguria»

1 dicembre 2024 | 12:51
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Procuratore Lari: «Lo Stato deve fare uno sforzo nella gestione dei beni confiscati»

Bordighera. «Bordighera e Ventimiglia sono l’esempio della ‘ndrangheta in Liguria». Lo ha detto il sostituto procuratore di Savona, Luca Traversa, nell’ambito della giornata organizzata da “Libera” in memoria di Domenico Gabriele, per tutti Dodò, vittima innocente delle mafie, che si è svolta stamani nelle ville confiscate alla famiglia Pellegrino a Montenero di Bordighera.

«Con Maura (Orengo, referente di Libera Imperia, ndr) eravamo in tribunale il 7 di ottobre del 2014, quando per la prima volta è stata riconosciuta l’esistenza della ‘ndrangheta in Liguria con una sentenza importantissima in cui i proprietari di questa casa sono stati condannati a 16 anni – ha spiegato il magistrato -. Quella sentenza era stata in parte riformata in Appello, ma poi la Cassazione ha annullato col rinvio, l’appello bis. Ha condannato anche gli imputati di Bordighera e la sentenza è stata definitiva. Questa è la ragione per cui oggi in questa casa non c’è più, o meglio, c’è ancora San Michele Arcangelo lì all’ingresso, ma c’è la fontana dedicata a Dodò».

La Liguria, ha sottolineato il sostituto procuratore, è una terra profondamente infiltrata dalla mafia. Ma ancora oggi, troppo spesso, c’è chi lo nega. Anche nelle istituzioni. «Questo è veramente il senso del nostro impegno – ha aggiunto – Ci sono persone come Maura, che da anni, da anni, mi permetto di dire da sola, o meglio, prima inter pares, però con un grande ruolo di responsabilità, ha fatto in modo di radunare in questa terra di confine, in questa terra profondamente infiltrata. Cosa che, mi pare, venga ancora messa in discussione, venga ancora messa in discussione nonostante sentenze definitive, che hanno accertato la presenza della ‘ndrangheta in Liguria. Venendo qua leggevo che qualche giorno fa ci sono state condanne fino a 20 anni, in abbreviato per traffico di stupefacenti, a carico di soggetti stanziati a Diano Marina. Ma davvero noi possiamo accettare di mettere ancora in discussione il radicamento di queste organizzazioni nel nostro territorio?».

E la ‘ndrangheta del Ponente Ligure, ha dichiarato sempre Luca Traversa, è quella più pericolosa, quella vera, quella autoctona: «Ci sono la botola (nascondiglio segreto trovato in una proprietà dei Pellegrino, ndr), l’agrumeto, San Michele Arcangelo (la statua all’ingresso del giardino, ndr), i santini, i riti di affiliazione. Alberto Lari, lo sa, ci ha fatto un’indagine sulle riunioni, andavano a fare le riunioni a parlare del sostegno elettorale e facevano le riunioni con le staffette per non essere beccati e ci sono altre riunioni in cui hanno fatto i riti di affiliazione col santino possa la mia anima bruciare come questo Santino se non terrò fede al giuramento? Ma ancora noi possiamo tollerare che si metta in discussione il fatto che la ‘ndrangheta al nord esista e prosperi e viva in mezzo a noi».

Per la prima volta nel bene confiscato, il pm ha aggiunto: «Sapevo molto dei Pellegrino, diciamolo, dei Pellegrino, perché qui abitavano queste persone. Queste persone, Maurizio in particolare, sono state condannate per il favoreggiamento di un ‘ndranghetista, detenzione di stupefacenti, la detenzione di armi, usura, estorsione, associazione di tipo mafioso. Forse mi sto dimenticando ancora qualcosa. Questa è la ragione per cui oggi siamo qua. Non è che lo Stato confisca i beni per un atto di, così, prevaricazione, ma nella misura in cui vengono accertati in via definitiva, perché qua si tratta di confische post-condanna, perché sono confische previste dal 416 bis, in presenza di un accertamento della responsabilità per reati gravissimi».

La violenza della ‘ndrangheta. «Vi racconto solo l’episodio dell’agriturismo di Seborga – ha detto Traversa -. A Seborga accade che una persona aveva bisogno di soldi, come capita a molti e aveva cercato credito in banca e non l’aveva trovato. Allora a chi si rivolge? Alla famiglia che abitava qua, riceve soldi. Naturalmente gli chiedono in cambio interessi altissimi, che non riesce a ridare. Allora, a un certo punto, Maurizio (Pellegrino, ndr) va da lui e dice ‘benissimo, non puoi ridarmi soldi? Allora l’agriturismo è mio’. Il povero albergatore, diciamo, verrà colpito con una mazza da baseball e a questa scena assiste la cuoca, che casualmente era lì. Durante il processo alla cuoca verrà chiesto, “raccontaci quel giorno cos’è accaduto, cos’hai visto”. Cosa fa secondo voi questa cuoca? All’inizio, non dice niente “non c’ero, non ricordo”. Poi viene incalzata, incalzata, incalzata, piange. E alla fine racconta l’episodio. Per questo dico che qui avevamo la ‘ndrangheta autoctona, perché c’è la violenza, perché c’è la prevaricazione, perché c’è l’omertà. Bordighera e Ventimiglia sono l’esempio della ‘ndrangheta in Liguria. Io non posso tollerare che mi si dica che non ci sono più certe cose. Anche perché, mi spiace dirlo, ma il figlio di uno dei condannati nella Svolta è stato condannato per omicidio (Domenico Pellegrino, figlio di Giovanni, condannato per l’omicidio di Joseph Fedele, ndr). Un’esecuzione, un colpo secco in testa e giustamente il mio collega Alberto Lari aveva mandato il fascicolo alla dda di Genova, dicendo “guardate che qui c’è l’aggravante del metodo mafioso”. Non è un omicidio e basta. Poi, purtroppo l’aggravante è caduta, dobbiamo dirlo. Ma questi sono problemi tecnici che rilevano fino a un certo punto. Le dinamiche sono queste in questo territorio».

Presente alla giornata dedicata a Dodò anche il procuratore della Repubblica di Imperia Alberto Lari, che nel 2010, quando si trovava in Procura a Genova, ha iniziato a indagare sulla presenza della mafia in Liguria, coordinando l’indagine Maglio mentre il collega di Imperia, il pm Arena, si dedicava alla Svolta. «E’ finita nel 2020-2021 e quindi vuol dire che per arrivare a sentenza definitiva abbiamo impiegato più di dieci anni – ha detto Lari -. Quando abbiamo iniziato l’indagine, direi che la mafia al nord non esisteva perché in Lombardia ancora non c’erano stati processi, non c’era stato il processo Aemilia (la più grande operazione contro la criminalità organizzata in Emilia Romagna che ha portato a condanna complessiva per 700 anni di carcere, ndr); in Liguria non c’era mai stato un processo, tutti i fascicoli erano stati archiviati e noi eravamo un po’ un gruppetto di visionari, però ci avevamo messo tanto impegno e tanti anni, abbiamo preso tante facciate, perché ad esempio nel mio processo ho preso due assoluzioni, però abbiamo insistito e siamo arrivati a una sentenza definitiva. In alcuni processi poi, sia in La Svolta che in quello che ho fatto io a Lavagna, siamo riusciti anche a confiscare dei beni. E questo spesso fa più male rispetto alla sanzione della detenzione, perché il mafioso, secondo me, mette in preventivo che possa succedere che qualcuno lo indaga, che difficilmente qualcuno lo condanni però il sequestro dei beni è forse l’arma più efficace. Questo l’ho potuto sperimentare anche nel processo perché questa era veramente la cosa che dava più fastidio: il mafioso è detenuto, ha comunque sempre degli aiuti, la vita in carcere più o meno si fa, ma la famiglia vive sempre nella villa alimentata dalla famiglia, è comunque sempre a posto e sostenuta. Invece trovarsi senza beni è quello che veramente mette in difficoltà».

Ma lo Stato deve ancora fare molto.  «Oggi volevo essere presente perché il sequestro e la confisca dei beni è una delle armi fondamentali nei confronti della mafia. Volevo anche ringraziare il prefetto Romeo che si è molto attivato per far sì che questo bene venisse utilizzato in maniera corretta. Lo Stato deve prendersi l’impegno dei beni confiscati, perché è un’altra della armi in mano alla mafia: lo stato confisca il bene e poi il bene non viene utilizzato e quindi a questo punto lo Stato ha fallito e il mafioso dimostra che “vedi che quando ce lo avevo io veniva utilizzato mentre poi lo Stato lo lascia andare a rotoli”. E questo soprattutto accade nelle attività commerciali. A me è capitato spesso che quando facevamo sequestro dei beni, l’attività commerciale gestita dal mafioso andava benissimo e l’attività poi gestita dallo Stato no. Poi la differenza salta all’occhio. E’ evidente: il mafioso la gestisce con i capitali che arrivano dall’illecito, può investire, reinvestire. Lo Stato ha pochi capitali e quindi è ovvio che l’attività si faccia più difficile. Quindi lo Stato deve fare uno sforzo nella gestione dei beni confiscati. Ha creato un’agenzia assolutamente insufficiente. Una delle cose che lo Stato deve fare in futuro è darsi più da fare per far sì che il bene confiscato alla criminalità organizzata venga gestito nel modo migliore per lanciare un messaggio forte», ha concluso il procuratore capo.