Cold Case svedese, chiesta condanna all’ergastolo per Salvatore Aldobrandi
In aula per la sentenza la mamma e il fratello di Sargonia Dankha
Imperia. I pubblici ministeri Paola Marrali e Matteo Gobbi, al termine di una requisitoria durata oltre tre ore, hanno chiesto alla Corte d’Assise di Imperia, presieduta dal giudice Carlo Alberto Indellicati, la condanna all’ergastolo per Salvatore Aldobrandi: il pizzaiolo di 75 anni a processo con l’accusa di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili e soppressione di cadavere per la scomparsa, il 13 novembre del 1995, della 21enne Sargonia Dankha, sua ex fidanzata. L’omicidio sarebbe avvenuto a Linköping, in Svezia.
La condanna è stata chiesta, come precisato dal pm Matteo Gobbi, per l’omicidio. Mentre per quanto riguarda il capo 2, la soppressione di cadavere, è stata richiesta l’assoluzione per intervenuta prescrizione.
Nel ricostruire quanto emerso nel corso del dibattimento, il pm Paola Marrali ha esordito davanti alla Corte dicendo: «Siamo di fronte a un femminicidio come gesto estremo di controllo, possesso e gelosia nei confronti di questa ragazza. Il femminicidio che vi trovate oggi a giudicare è avvenuto a Linköping, in Svezia, il 13 novembre del 1995. E’ l’uccisione da parte di Salvatore Aldobrandi di Sargonia Dankha, ragazza di 20 anni, per l’incapacità di accettare la decisione di Sargonia di porre fine a una relazione che fin dall’inizio era stata di violenza, minaccia e grave aggressione».
Un delitto che, secondo la pubblica accusa, che deve essere punito in Italia perché l’ordinamento svedese non prevede l’accusa di omicidio senza la presenza del corpo della vittima o senza testimoni diretti dei fatti. Paola Marrali paragona il caso di Sargonia a quello di Roberta Ragusa. «Donna sposata con Antonio Logli, il quale aveva da tempo una relazione extraconiugale. Ad un certo punto Roberta sparisce. Logli è stato arrestato e condannato nonostante il corpo non sia mai stato trovato». Una condanna per omicidio e soppressione di cadavere, quella comminata a Logli, divenuta definitiva dopo la conferma della sentenza in Cassazione. «Roberta è scomparsa da un momento all’altro, era legatissima ai figli, eppure è sparita senza dir loro niente, è sparita senza vestiti, carte di credito, contanti, nulla, e non ha più dato nessun segno – ha detto il pm -. Il ragionamento della Cassazione è questo: non si è trattato di morte accidentale, altrimenti avremmo trovato il corpo e allora, dice la Cassazione, è sicuramente una morte omicidiaria. Sargonia Dankha come Roberta Ragusa è sparita nel nulla».
La ricostruzione. «Il caso in Svezia è nato come scomparsa volontaria. Non si è partiti con l’ipotesi di omicidio, si sono valutate tutta una serie di possibilità per arrivare all’evidenza che Sargonia è stata uccisa – ha sottolineato il pubblico ministero -. Sargonia non aveva mai detto a nessuno che voleva allontanarsi. Era una ragazza normale, che viveva i suoi vent’anni con spensieratezza, aveva una pletora di amici, li abbiamo visti sfilare, quindi una dimensione amicale molto importante. Forse nascondeva qualcosa ai genitori, come fanno tutti i ragazzi di quell’età, ma agli amici raccontava tutto, e mai a nessuno ha detto di volersi allontanare. Ha solo detto alla sua amica, “Vorrei non avere Salvatore tra i piedi”. In quel novembre del 1995 viveva un momento felice, aveva una casa, un nuovo fidanzato, un ragazzo giovane, che l’amava, ha dato origine a un rapporto a cui teneva moltissimo, e aveva prospettive per il futuro».
Quel giorno, il 13 novembre del 1995, Sargonia esce di casa. Ha con sé un foglio (il contratto di affitto dell’appartamento), il passaporto, che usava come documento di identità, e il cellulare senza il carica batterie. «Sono stati fatti numerosissimi controlli, sia su arei, treni, autobus, e non si è trovata nessuna traccia di Sargonia, quindi non si è allontanata con questi mezzi pubblici», ricorda Paola Marrali. E per dimostrare che l’unica ipotesi possibile è la morte violenta, aggiunge: «Non c’è stato il minimo segnale di Sargonia in trent’anni. Se fosse stata viva, qualcosa avremmo saputo. Se si fosse trattato di una morte occidentale, avremmo trovato il corpo, quindi non può che essere un omicidio».
Il colpevole. «Arrivati alla conclusione che si sia trattato di un omicidio, dobbiamo chiederci chi è stato. E noi vi faremo capire che è stato Salvatore Aldobrandi. Non perché lui sia l’assassino perfetto. Ma perché una serie di dati concordanti ci dicono che è stato lui», dichiara la pubblica accusa. «E’ risibile – aggiunge – E mi permetto di usare questo termine anche se la situazione è drammatica, la ricostruzione che Sargonia sia stata uccisa e fatta sparire dai familiari. Non è emerso nulla che ci possa far pensare a questo. E’ quantomeno offensivo dell’intelligenza delle parti civili, che anziché gioire per averla fatta franca, continuano a chiedere, addirittura rivolgendosi ad un ordinamento straniero, di fare indagini, di scoprire la verità. Oltre che persone negative, sarebbero anche stupide.
La difesa ha fatto riferimenti alla morte di Sargon, fratello di Sargonia, deceduto improvvisamente l’anno precedente (nel 1994). Una morte che non ha interessato affatto gli inquirenti svedesi, ma ha interessato la difesa come se ci fosse una luce oscura in questa famiglia».
Chi era Sargonia Dankha? «Era una ragazza normale – la descrive il pm Marrali -. Emerge dal nostro processo e dalle testimonianze dei tanti amici, che era una normale ragazza di vent’anni, con un carattere particolarmente allegro, estroverso, fiduciosa nel futuro, piena di progetti: a breve termine, come prendere la patente, e a lungo respiro, come diventare poliziotto, o intraprendere una carriera da attrice. Era una bella ragazza, ce lo dice ancora oggi con commozione il fidanzato Nordin: una ragazza con gli occhi neri, i capelli ricci, un bellissimo sorriso. Era anche una ragazza dal carattere forte, deciso, dalla personalità carismatica, che sapeva soffrire in silenzio pur di non ribaltare la sofferenza sugli amici, con i quali aveva un legame importante. Il carattere forte di Sargonia la porta a cercare di opporsi alle esigenze di controllo di Salvatore Aldobrandi, e questo la porterà al suo omicidio». La voce di Sargonia non si sente, in questo processo. Lei non c’è. Ma ci sono le sue parole, quelle che ha lasciato scritte nelle sue lettere, nel suo diario. «Voglio soltanto che mi lasci, io dico quello che voglio e faccio quello che voglio», scrive Sargonia, rivolgendosi ad Aldobrandi – Voglio fare qualcosa per entrambi, ma non voglio ferire né me né te».
Chi era e chi è Salvatore Aldobrandi? «Salvatore Aldobrandi è la persona che al momento dei fatti aveva 46 anni. E’ un uomo dal passato e dal presente estremamente ingombranti. Ha due mogli e quattro figli, non che i figli ingombrino granché perché non se ne cura, ma soprattutto è un uomo che ha subito una condanna per violenza sessuale», dice il pm, che ricorda alla Corte i dettagli di quella violenza subita da una cameriera, che aveva respinto le avance del pizzaiolo. «Picchia, percuote e cerca di strozzare una delle sue ex – aggiunge -. Viene denunciato, processato e condannato per questo. E’ un uomo bugiardo e infedele. Non ha nessun ritegno a inventare una inesistente patologia oncologica al fegato quando gli conviene, per ottenere compassione. E’ infedele e mentre di Sargonia vuole il pieno controllo, lui ha diverse avventure amorose. Quando tutti cercano Sargonia, lui che diceva che l’amava tanto, si ritrova a letto con un’altra. Quanto al suo carattere, l’amante occasionale, ce lo descrive come un uomo dalla personalità doppia. E’ una persona che sa incutere paura nelle donne che frequenta».
Particolarmente decisiva per descrivere il carattere violento di Aldobrandi, secondo il pm, è la testimonianza dell’ex moglie, che in aula dice di essere stata picchiata per tutto il matrimonio, anche quando era incinta. «La donna ci descrive quando Aldobrandi diventa violento: quando viene contraddetto», aggiunge Marrali.
Il pubblico ministero ripercorre poi i momenti più tragici della relazione tra Sargonia e Aldobrandi. La ragazza arriva a denunciarlo, per tre volte. All’amica confida: «Io ho davvero paura di lui, è capace di farmi qualsiasi cosa». Poi Sargonia si fidanza con Nordin e questo aspetto lo sbatterà in faccia, lo renderà evidente, a Salvatore, nella serata dell’11 novembre.
Quella sera Sargonia è nel suo nuovo appartamento, che ha preso con l’aiuto economico di Aldobrandi, che le ha prestato 25mila corone, pensando, dice la pubblica accusa, di andare a vivere con la giovane. Quell’11 novembre Salvatore e a una cena. Scopre che Sargonia è a casa con un’amica. «Dice che deve tornare al Maxime e lascia la cena – ricostruisce il pm Marrali -. Ma non va al Maxime. Va a casa di Sargonia ed è infuriato perché trova Nordin. Sargonia è arrabbiata, gli dice che se ne deve andare, che è un vecchio, che è un violentatore, che la deve lasciare in pace». E’ quella sera che Aldobrandi capisce che Sargonia ha una nuova relazione, con Nordin. Scopre che sia Nordin che l’altra ragazza resteranno a dormire da Sargonia. Va a casa. «E’ notte e chiama i genitori di Sargonia che dormono, dice loro che la figlia è una puttana, che sta facendo un’orgia con uomini e donne, che rivuole i suoi soldi. I genitori vanno a casa della figlia. E ci va anche Salvatore – dice il pm -. Poi chiama nel cuore della notte le sue amiche. E’ disperato, arrabbiato, furioso. Dice: “A me ha dato del vecchio, del violentatore”. “Sargonia mi ha preso in giro”. “Le ho dato soldi per i libri, i vestiti, per la casa, e lei va con un altro ragazzo”. In quell’appartamento che doveva essere il loro, Sargonia gli ha fatto l’onta di scegliere una vita che lo escludeva. Per questa ragione il 13 novembre Salvatore porta a compimento quella minaccia che tante volte aveva ripetuto: “Se non la posso avere io, non può averla nessun altro”».
A portare avanti la lunga e articolata requisitoria, a questo punto, è il pm Matteo Gobbi. «Il 12 novembre Salvatore Aldobrandi non ragiona più. E’ la festa del papà. L’ex moglie gli porta i figli e lo trova in uno stato d’animo particolare». «Il vostro giudizio – dice rivolgendosi ai giudici – Non deve basarsi soltanto sull’antefatto dell’ipotetico omicidio, ma anche su quello che è accaduto dopo il 13 novembre. L’istruttoria ha consentito di ricostruire il fondamento del movente, ma anche di andare oltre: di raccogliere elementi fondanti la responsabilità di Aldobrandi».
Dopo il 12 novembre. Passano i giorni e Sargonia non si trova. Il 16 novembre, dopo giorni di angoscia, i genitori della giovane ne denunciano la scomparsa. La polizia inizia le indagini e tratta il caso, inizialmente, come persona scomparsa volontariamente. I poliziotti indagano, compiono accertamenti, «adempimenti preliminari ad una ipotesi delittuosa più grave che non portano a niente – dice Gobbi -. L’indagine svedese si concentra dal 20 al 23 di novembre. In quelle date, considerato il fatto che Sargonia non era ancora stata trovata e non aveva dato traccia di sé, vengono sentiti i familiari più stretti e i conoscenti della cerchia più ristretta di Sargonia, fino ad arrivare a sentire Salvatore Aldobrandi».
Sargonia viene vista da due persone mentre cammina per strada la mattina del 13 novembre. Poi sparisce nel nulla. «La direzione di Sargonia poteva essere solo verso casa di Salvatore Aldobrandi – sottolinea il pm Gobbi -. E ci va perché la mattina stessa, dalle 7, fino alle 10,08, Sargonia è tempestata di chiamate da parte di Salvatore Aldorbandi. E non è verosimile, come ha raccontato lui, che lo facesse perché erano rimasti d’accordo che doveva darle la sveglia. Lui la tempestava di chiamate perché voleva un incontro, l’ultimo incontro. Allora lei esce dall’agenzia immobiliare con un foglio in mano, con il contratto di affitto o acquisto dell’appartamento, e va verso la casa di Salvatore. Alle 11,08 abbiamo la chiamata che colloca lì dentro, in quell’appartamento, Sargonia. E’ una telefonata, da un numero fisso, al luogo di lavoro della mamma di Sargonia. L’imputato nel corso degli interrogatori dice “probabilmente mi sarò sbagliato”. Allora perché ha chiamato proprio quel numero in rapida successione?. Da quel momento Sargonia non viene più vista. Eppure aveva degli appuntamenti con gli amici che non avrebbe mai mancato. Non era nel carattere di Sargonia bucare gli impegni. Mai più si è presentata e mai più ha fatto sapere niente di sé. Allora è successo l’inevitabile. E’ successo che nel corso di un’ulteriore lite tra Sargonia e Aldobrandi, lui l’abbia uccisa».
Il 15 novembre. «Aldobrandi viene visto il pomeriggio intorno alle 15 – ricostruisce il Gobbi -. Due testimoni ce lo raccontano: “lo abbiamo visto, lo abbiamo incrociato per strada, ma aveva un comportamento che non era da lui. Ci ha salutato frettolosamente e abbiamo notato che era vestito in maniera troppo leggera”. Sembra un elemento irrilevante, ma va tenuta in considerazione l’adrenalina di quel momento. Non può uscire lucido, in giacca e cravatta e in maniera del tutto fredda. Perché non è umano. Esce di casa e ha un’unica necessità: cercare qualcuno che lo aiuti a disfarsi del corpo. Non ha la patente, non ha un’auto e non ha nessun modo di farla franca senza chiedere aiuto. E’ un atteggiamento che evidentemente nasconde qualcosa: è sudato, è nervoso, è vestito troppo leggero. Ha una giacca di pelle marrone e una sciarpetta. Chiede di Canfora Raffaele. Lo cerca per un’unica ragione, perché lui essendo un giovane che era appena arrivato in Svezia poteva essere l’ideale: è giovane, malleabile, perfetto, e soprattutto ha in uso un furgone. Era quello che il cugino gli aveva messo a disposizione per fare dei lavoretti. Aldobrandi non riesce a trovarlo perché impegnato in altre incombenze. Poi Canfora racconta anche che fino a tarda sera ha provato a chiamare Aldobrandi perché voleva capire perché lo cercasse. Ma per tutta la sera e per tutta la notte Salvatore non è in casa. Viene rintracciato soltanto all’una del pomeriggio successivo, Canfora gli chiede lumi e lui lo liquida in poche parole, dicendo che non era niente, che aveva risolto. Visto che non trova Canfora, che fa? Si reca dal delinquente della zona: Javonovic Slobodan. E non ci va per fare colazione, come ha detto Aldobrandi, perché che senso ha andare a fare colazione in un night club che tra l’altro non aveva ancora aperto? Senza contare che tra Aldobrandi e Slobodan non aveva neanche buoni rapporti».
«Arriva sudato, con gli occhi arrossati, per chiedergli di spostare qualcosa – dice Gobbi, riportando alla mente dei giurati le parole del teste -. E allora Slobodan capisce che c’è qualcosa di strano. E cerca di incalzarlo. Ma, come dichiarerà lo stesso teste “il nome di Sargonia non è mai venuto fuori”. Lui lo capisce, interpreta un certo tipo di atteggiamento, anche perché la necessità di chiedere il trasporto di cose con quell’atteggiamento lì, è troppo strano.
Slodoban lo caccia.
Aldobrandi allora che fa? Si trova alle strette, va a casa, e in ultima spiaggia chiama l’ex compagna. Le chiede il prestito della macchina e si reca a piedi presso l’ospedale di Linköping dove lavora Carolina. Emerge un fatto: al momento della consegna delle chiavi dell’auto, Aldobrandi le dà 500 corone. E lei dice che le sembra strano, perché non le ha mai dato soldi neanche per i figli. Lui in quel momento compra il silenzio di Carolina. Le dà i soldi e si accerta anche che, quando va a prendere le chiavi, lei non avesse detto ai suoi colleghi che gli avrebbe prestato la macchina.
Quel pomeriggio la macchina viene preparata per il trasporto del corpo. Perché infatti Carolina ci racconta che l’auto viene restituita alle 4 del mattino del 14 novembre (sente il lancio delle chiavi nella buca delle lettere). Lei esce di casa alle 6 del mattino e vede l’auto. E dice: “io l’auto l’avevo prestata pulita”. La macchina viene restituita completamente infangata. Il sedile posteriore corrispondente al lato passeggero è stato reclinato in avanti, e lei se ne rende conto perché la cintura è rimasta incastrata. La macchina era stata usata per circa 25 miglia svedesi (circa 250 chilometri italiani)». Chilometri che la donna non aveva percorso.
Dopo averla tempestata di telefonate per giorni, dal 14 novembre Salvatore non telefonerà mai più a Sargonia. «E non lo fa perché non ha bisogno di chiamarla – sottolinea il pm -. E questo è un dato oggettivo che emerge dai tabulati».
Altri elementi. «Il 17 novembre, Salvatore va a una cena con altri italiani – ricorda il pm Gobbi – Ci hanno raccontato che aveva un atteggiamento più schivo del solito, rifuggiva a domande su Sargonia, sulla sua scomparsa. Diceva che non gli interessava. E perché lui non si è mai interessato alla sua scomparsa? Era così freddo e distaccato. Mentre mangia tutti si rendono conto di una ferita sul dorso della mano destra, una ferita lacero contusa non più vecchia di tre o quattro giorni. Chiedono spiegazioni sulla ferita e non le ottengono. Darà una spiegazione risibile durante l’interrogatorio. Racconta che stava per cadere e si è puntellato. Ma quando si sta per cadere si appoggiano i palmi, non i dorsi».
Il sangue. Tra il 21 e il 22 di novembre del 1995, la polizia inizia ad effettuare sopralluoghi, sia presso l’abitazioni della ragazza, sia presso l’abitazione di Aldobrandi. «Da questi sopralluoghi – ricorda Gobbi – Si evincono evidenze scientifiche molto interessanti. In casa di Aldobrandi vengono rintracciate e repertate due tracce di sangue, piccoli schizzi. Per morfologia e tipologia sono schizzi di sangue da proiezione: sulla base delle evidenze scientifiche corrispondono esattamente ai pattern di schizzi di sangue da proiezione, da ferite compatibili con arma bianca». Sangue viene trovato anche nell’auto, in particolare nella parte posteriore della vettura: nel parafango e nella guarnizione in gomma e plastica adiacente al vano portabagagli. Sangue che, come viene accertato dai laboratori della polizia scientifica svedese, ha lo stesso profilo genetico di Sargonia. I tecnici forensi arrivano alla conclusione che quel sangue è «certamente di Sargonia Dankha se non appartiene ad altri familiari stretti di Sargonia». In base a questi elementi, Aldobrandi finisce in carcere.
«Vengono fatte nuove perquisizioni – ricorda Gobbi – E vengono sequestrati la giacca di Aldobrandi, un coltello e un fodero senza coltello. Sulla giacca vengono trovate macchioline di sangue sulla parte esterna e interna della giacca. Analizzano più approfonditamente la giacca e trovano macchie anche sul polsino, sotto l’ascella, sempre nella parte destra. Una spiegazione me la do: ed è quella di una persona che ha caricato il corpo su una spalla e la forza scaricava sul lato destro».
Le conclusioni. «L’unica spiegazione plausibile, a fronte di mere congetture e ipotesi, è che Sargonia Dankha sia stata uccisa la mattina del 13 novembre del 1995, e nel corso della notte stessa di quella giornata, il suo cadavere sia stato soppresso, tutto per mano di Salvatore Aldobrandi. Non ci sono spiegazioni alternative. Ritengo che ogni singola udienza è stata faticosa, ovviamente per ragioni della lingua, di un sistema processuale diverso, ma ritengo che il dibattimento sia stato interamente, scientemente, cosparso dal seme del dubbio, ma all’esito dell’istruttoria vi potete rendere conto che questo seme non è mai venuto a maturazione». « Quello che voi dovrete giudicare – conclude Gobbi – E’ un compendio probatorio reso da tracce ematiche, relazioni peritali, tabulati telefonici, che sono tutti dati oggettivi».
La parte civile. «Avvocato in Italia si può fare un processo senza il corpo?». Questa la domanda che Ghariba Dankha, mamma di Sargonia, ha rivolto tre anni fa all’avvocato della parte civile, Francesco Rubino. «In questi anni ho compreso che dietro a quella domanda si celava in realtà qualcos’altro, si celava un ultimo grido di aiuto, di speranza suo e di suo figlio (Nino Dankha, fratello di Sargonia, ndr) – ha detto il legale nella sua arringa – La speranza di trovare giustizia per Sargonia, una speranza che loro hanno cercato per 29 anni e che forse hanno trovato a 2.300 chilometri di distanza». Rivolto ai familiari della giovane, presenti in aula, davanti alla Corte d’Assise, l’avvocato Rubino ha aggiunto: «Mi sono chiesto però anche perché avete voluto tutto questo, perché non avete preferito che il tempo cancellasse la dolorosa memoria della vostra cara Sargonia? Perché vivere un processo lungo, travagliato, in cui il ricordo di dolori antichi riaffiorasse e graffiasse il suo cuore di madre oppure rievocasse la rassegnazione e la tristezza di un fratello?. Perché rischiare che si riaprisse una ferita che il tempo stava cicatrizzando? Quindi chiedo a voi (giudici, ndr), perché la parte civile è qui oggi? Non è certo per una finalità retributiva: per quello c’è l’ufficio del pubblico ministero. Non è neanche per vendetta, perché vi assicuro che se c’è un sentimento che alberga nel cuore di queste persone, non è la vendetta. Non è stato fatto per soldi. Allora perché la parte civile è qui oggi? Perché questo processo è l’unico strumento che ha questa famiglia per affermare che la vita di Sargonia ha un valore, ha una sua dignità». «”Quando una persona cara viene strappata alla vita”, ci ha detto prima Ninos, “chi le sta intorno vede frantumarsi i sogni e le speranze”. Sembra quasi che non esista più nulla di quella persona sulla terra. Ebbene tre anni fa, gettando le basi per questo processo, questa famiglia ha deciso di riaffermare questa vita, ha voluto dirci che non è vero che di Sargonia non rimane più nulla. Io sono, credo, riuscito a rispondere a quella domanda, signora, se in Italia è possibile processare una persona quando il corpo non è stato più trovato. In realtà, però, non sono riuscito a rispondere all’altra domanda che in un freddissimo pomeriggio di novembre dell’anno scorso, mi ha fatto quando sono andato a Linköping, e la domanda è: “Avvocato, lei riuscirà a scoprire dov’è il corpo di Sargonia?”».
La tomba della famiglia Dankha, con il nome, ma non le spoglie, di Sargonia. Foto Jasmine Hubinette/Corren