Cold case in Svezia, la Corte d’Assise di Imperia condanna Salvatore Aldobrandi all’ergastolo
Il dispositivo della sentenza è stato letto nell’aula Trifuoggi dopo una camera di consiglio durata quasi due giorni
Imperia. La Corte d’Assise di Imperia, presieduta dal giudice Carlo Alberto Indellicati con a latere la collega Eleonora Billeri ha condannato all’ergastolo Salvatore Aldobrandi: il pizzaiolo di 73 anni, originario di San Sosti (Cosenza), da anni residente a Sanremo, arrestato il 17 giugno del 2023 su ordine del gip di Imperia, perché ritenuto responsabile di aver ucciso Sargonia Dankha, 21 anni, di origini irachene, naturalizzata svedese, sparita nel nulla nel primo pomeriggio del 13 novembre del 1995 a Linköping.
Oltre alla condanna all’ergastolo, Aldobrandi è stato condannato al pagamento delle spese processuali e di quelle di custodia cautelare in carcere. «Visto l’articolo 29 del codice penale dichiara Salvatore Aldobrandi interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Visto l’articolo 32 cp lo dichiara in stato di interdizione legale e decaduto dalla responsabilità genitoriale. Visto l’articolo 36 cp dispone la pubblicazione per estratto della sentenza di condanna mediante affissione nel Comune di Imperia e nel Comune di Sanremo. Dispone altresì la trasmissione della sentenza al Ministero della Giustizia per la pubblicazione prevista dall’articolo 36 comma 2 cp per la durata di giorni trenta. Visti gli articoli 538 e seguenti cpp condanna Aldobrandi Salvatore al risarcimento in favore delle parti civili costituite (la mamma e il fratello di Sargonia, ndr) da liquidarsi in separata sede», si legge nel dispositivo della sentenza. Aldobrandi è stato condannato a versare una provvisionale di 400mila euro complessivi nei confronti della mamma di Sargonia, Ghariba Dankha (300mila euro) e del fratello Ninos (100mila euro), oltre alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civilil liquidate in 14.765,40.
Il dispositivo della sentenza è stato letto nell’aula Trifuoggi dopo una camera di consiglio durata quasi due giorni.
Soddisfatta la pubblica accusa, rappresentata dai pm Paola Marrali e Matteo Gobbi, che per l’imputato avevano chiesto la condanna all’ergastolo.
«È una grande soddisfazione per il lavoro immenso che c’è stato nel corso di indagini preliminari, soprattutto da parte del collega Gobbi, che si è preoccupato preliminarmente di tutte le vicende relative al diritto – ha dichiarato, a caldo, il pm Marrali -. È stato un lavoro molto importante anche nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che è durata oltre un anno e quindi è un’affermazione che il lavoro di squadra, ancora una volta, aiuta perché non siamo solo noi, c’è tutto l’ufficio, il procuratore che ci ha messo a disposizione le migliori forze per affrontare tutti i problemi che ci sono stati; la sezione di polizia giudiziaria che ci ha supportato in maniera incredibile; e devo dire anche la parte civile con la quale c’è stato un ottimo rapporto si dall’inizio, ognuno ovviamente con le proprie competenze, ma è stata veramente una grande soddisfazione per noi, per il nostro ufficio e mi piace dire, forse esagero, per l’Italia che ha saputo dare una risposta di giustizia dopo tanti anni a una famiglia che è stata colpita da un fatto gravissimo».
«Non posso che confermare le parole della collega che ringrazio per essermi stata a fianco in questi anni, perché ovviamente era un lavoro impegnativo – ha detto Gobbi -, Ma fatto da parte nostra con un unico obiettivo: non era un nostro fascicolo, una nostra indagine, niente di tutto questo, ritenevamo necessario arrivare a qualunque risposta il tribunale avesse dato, perché ovviamente poteva non essere anche una condanna, però con la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile per un fatto gravissimo che noi ritenevamo necessario che avesse una risposta a distanza di trent’anni. Un conto è avere a che fare con situazioni anche gravi, o meno gravi, che devono essere affrontate nell’immediato, un conto è capire dopo una lettura attenta di tutti gli atti, che questa famiglia era stata anche devastata, aveva subito l’onta per il discorso legato ad una mancanza di risposta e questo ci ha animato profondamente a portare avanti questo lavoro faticoso. Grazie insomma a tutto il lavoro di squadra che è stato fatto, con un risultato che ci soddisfa ovviamente». C’è stato un momento in cui avete perso le speranze? «No, le speranze no, perché alla fine la collega poi lo saprà meglio di me, io sono da poco in servizio, però è evidente che nel corso di un processo, nel corso di un’indagine, ci sono tanti momenti in cui le cose possono andare bene o meno bene, non dico che si tratta di una guerra, ci mancherebbe altro, però con tutte le virgolette e le metafore del caso ci possono essere delle battaglie che non si riesce a vincere, ma l’importante è avere ben chiaro un obiettivo finale e noi pensavamo di averlo senza nessun tipo di problema nel dover andare avanti se ogni singola udienza è stata faticosa e se ci sono stati anche degli inconvenienti di percorso».
La difesa, rappresentata dall’avvocato Fabrizio Cravero, ha già annunciato che impugnerà la sentenza in Appello dopo aver letto le motivazioni.
«Eravamo convinti che la Corte credesse alle nostre tesi, che ci fossero prove sufficienti e che il grandissimo lavoro dei poliziotti nel 1995, della procura d’Imperia, e poi nostro per fare aprire questo processo, fosse alla fine riconosciuto». E’ il commento dell’avvocato della parte civile Francesco Rubino del Foro di Milano. «Ed è stato riconosciuto non solo che Aldobrandi ha commesso un omicidio, ma che l’ha commesso in circostanze particolari, cioè coi motivi abietti – ha aggiunto – Una costante relazione caratterizzata dal possesso e dall’ossessione, quello che ha determinato oggi l’ergastolo. Siamo veramente molto contenti per noi e per la famiglia che purtroppo non è riuscita a reggere alle emozioni di venerdì e quindi è tornata in Svezia. L’abbiamo già contattata e sono felicissimi, perché anche se Sargonia questo processo non gliela restituirà, però riescono a mettere un punto a questa vicenda durata 30 anni».
La sentenza ha restituito dignità a Sargonia? «Assolutamente sì, è stato riconosciuto il fatto, che non è vero che non c’è più Sargonia; c’è ancora, è rimasto qualcosa di Sargonia, è rimasta gente che lotta per lei: prima la famiglia e poi noi che abbiamo sempre creduto sin dall’inizio che potessimo arrivare a questo risultato e senza crederci così tanto e senza la procura d’imperia, che ha creduto come noi a questo risultato, non ce l’avremmo fatta».
Cosa si ricorda del giorno in cui sono venuti i familiari a parlare con lei? «oI mi ricordo della prima volta che mi hanno contattato, che mi ha fatto quella domanda che ho anche detto venerdì, cioè se in Italia era possibile riuscire dove in Svezia non sono riusciti per ventinove anni. Ma mi ricordo ancora di più quando io l’anno scorso sono andato dalla madre, quasi contento, soddisfatto, che insomma Aldobrandi era in carcere sebbene in via preventiva e lei mi ha detto: “ma riuscirà ad avere il corpo della mia Sargonia?” Perché lei ancora di più che questo verdetto vorrebbe avere veramente un fiore da posare al corpo della sua amata figlia. Io le ho detto che a questa domanda, purtroppo non siamo riusciti a rispondere, perché è una domanda a cui può rispondere solo l’imputato. Però se non altro loro riescono a mettere un punto, a chiudere una parentesi della loro vita che è durata per 30 anni e finalmente a tanti chilometri di distanza sono riusciti ad avere giustizia».