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‘Ndrangheta, traffico di droga dalla Calabria alla provincia di Imperia: 22 condanne

25 novembre 2024 | 13:46
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‘Ndrangheta, traffico di droga dalla Calabria alla provincia di Imperia: 22 condanne

La pena più alta, vent’anni di reclusione, comminata a Domenico Gioffrè

Genova. Sono 22 le condanne in primo grado, per oltre 180 anni di carcere, comminate stamane dal giudice Silvia Carpanini del Tribunale di Genova nel processo per traffico di droga dalla Calabria alla provincia di Imperia, gestito secondo gli inquirenti da esponenti della famiglia De Marte – Gioffré, originaria di Seminara e collegata ad articolazioni di ‘ndrangheta calabresi.

Operazione Ares. Le indagini erano culminate, il 13 novembre 2023, con l’esecuzione di ventisei misure cautelari (ventitré in carcere e tre ai domiciliari) da parte della Guardia di Finanza di Imperia, del G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Genova e del Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata (S.C.I.C.O.) delle Fiamme Gialle. Degli arrestati, diciassette erano accusati di essere componenti dell’associazione a delinquere finalizzata ad acquisto, coltivazione, trasporto, rivendita e cessioni di cocaina, hashish e marijuana dalla Piana calabrese all’imperiese, dove esponenti delle famiglie mafiose vivevano da anni.

Le condanne

Domenico Gioffrè (20 anni), Giovanni De Marte (16 anni), Michela De Marte (7 anni), Antonino Lagana’ (11 anni), Lorenzo Chirco (2 anni e 8 mesi e 12mila euro di multa), Jonny Loda (7 anni), Vincenzo Santarpia (10 anni e 6 mesi), Nicolò Striglioni (6 anni e 4 mesi), Andrea Ziella (11 anni e 8 mesi), Leonardo Randy Nieto Fiss (13 anni), Gaio Guillermo Niemes Tobar (8 anni e 5 mesi e 8mila euro), Antonio Arcangelo Casanova Raso (4 anni e 4 mesi), Daniel Ciulla (7 anni e 2 mesi), Lorenzo Onda (5 anni), Giovanni Chimienti (10 anni e 4 mesi), Alessandro Casa (7 anni e 6 mesi), Indrit Shaba (12 anni), Giuseppe Scarcella (10 anni), Gianluca Cavalcante (3 anni e 2 mesi e 3mila euro), Agim Kuci (5 anni e 22mila euro), Elvis Collaku (4 anni e 20mila euro), Ayoub Gbalyi (2 anni e 8 mesi e 12mila euro).

Il giudice ha assolto per non aver commesso il fatto: Giovanni e Michela De Marte dal reato al capo 9; Antonio Arcangelo Casanova Raso e Lorenzo Chirco dal reato al capo 1; Gianluca Cavalcante dal reato al capo 2.

Nei confronti di: Domenico Gioffrè, Michela e Giovanni De Marte, Antonino Lagana’, Lorenzo Onda, Giovanni Chimienti, Jonny Loda, Vincenzo Santarpia, Nicolò Striglioni, Andrea Ziella, Randy Leonardo Nieto Fiss, Daniel Ciulla, Alessandro Casa, Indrit Shaba e Giuseppe Scarcella, il giudice ha disposto la confisca dei beni sottoposti a sequestro preventivo, con esclusione dell’importo accreditato sul conto corrente intestato a Chimienti a titolo di indennità di disoccupazione che va restituito all’imputato. E’ invece stato revocato il sequestro preventivo, con conseguente restituzione dei beni, a carico di: Antonio Arcangelo Raso Casanova, Lorenzo Chirco e Gianluca Cavalcante.

Il collegio difensivo era composto, tra gli altri, dagli avvocati: Luca Ritzu, Marco Bosio, Luca Brazzit, Andy Tahiri Ramadan e Simona Costantini.

I dettagli

Il gruppo criminale aveva come base l’abitazione di Domenico Gioffrèe Michela De Marte, al civico 10 di via Codeville a Diano Castello. E’ questo il luogo dove, secondo gli inquirenti, avvenivano «riunioni operative degli associati volte a prendere le decisioni riguardanti gli approvvigionamenti di stupefacente, per lo svolgimento delle trattative con i fornitori e gli acquirenti che vi si recavano personalmente, per il confezionamento e la cessione all’ingrosso, per la gestione delle cessioni al dettaglio; per l’organizzazione dei viaggi per l’acquisto dello stupefacente e dei criptofonini utilizzati per le comunicazioni tra gli associati; per la consegna del denaro e per il ritiro dei pacchi contenenti lo stupefacente e i criptofonini; per il conteggio, la custodia e la suddivisione del denaro».

Associazione a delinquere. «Tutti i sodali, sia appartenenti alla famiglia, sia membri esterni alla stessa – si legge nelle carte dell’inchiesta – Sono consapevoli di far parte di una associazione, si conoscono tra loro, trascorrono diverso tempo e anche momenti di convivialità in via Codeville nr. 10, hanno tutti contezza del ruolo svolto dagli altri, riconoscendo come tali i vertici dell’associazione ed essendo a conoscenza di modalità, meccanismi e contatti sottesi alla fase degli approvvigionamenti, nonché del metodo mafioso usato dal sodalizio per assicurare l’egemonia territoriale nel garantire il monopolio del mercato della vendita di cocaina e dei metodi violenti usati nei confronti dei clienti morosi o degli infedeli». E ancora: «La forza del gruppo si manifestava anche nell’atteggiamento palesemente omertoso e poco collaborativo tenuto dai suoi appartenenti nel momento in cui gli stessi venivano sottoposti ad arresti, addebitandosi responsabilità e conseguenze penali, per effetto, sia della dovuta omertà loro richiesta, puntualmente ricordata tramite le pressioni fatte giungere per vie traverse, sia per le coperture, anche legali, loro garantite dai vertici del sodalizio».

Il modus operandi. Stando a quanto ricostruito dagli investigatori, i vertici del sodalizio, ed in modo particolare Domenico Gioffrè, «tramite il criptofonino, concordano gli approvvigionamenti della cocaina» nella zona della piana di Gioia Tauro, in Calabria e «dei criptofonini di volta necessari; organizzano trasferte in Calabria prima e a Roma poi, per la cessione della cocaina o per la sola consegna del denaro (corrispettivo dello stupefacente, che veniva poi spedito), si accordano, in alternativa per ricevere lo stupefacente direttamente tramite la Linea Bus Lirosi (il fornitore carica colli diretti all’associazione, che vengono prelevati ad Imperia da altri associati sodali)». Il contatto calabrese è Giuseppe Scarcella, che comunica con i vertici dell’associazione solo tramite criptofonini «spesso da lui forniti».

E così, una volta trovata la merce, «i capi raccolgono il denaro e finanziano l’acquisto, organizzano la trasferta, indicano il luogo e l’orario di appuntamento per la consegna e ivi inviano i corrieri designati, avvalendosi delle loro vetture, o noleggiandole appositamente. Poi, ricevuta la cocaina in pietra (nell’ordine di circa un chilo per volta per il prezzo medio di circa 35.000 euro) provvedono al taglio e alla adulterazione della stessa con l’uso della mannite, verificano la qualità della merce avvalendosi di sodali assaggiatori e poi provvedono alla vendita all’ingrosso con la formula a credito ai loro sodali-clienti-venditori per quantitativi medi di ettogrammi, i quali successivamente provvedono allo spaccio al dettaglio pagando all’associazione solo il prezzo per l’acquisto della merce e trattenendo per sé i guadagni derivanti dalle vendite».

La violenza. Esercitata nei confronti dei debitori morosi, la violenza aveva il fine «di ristabilire le gerarchie e il rispetto dovuto al sodalizio». Alcune delle minacce, si legge nelle carte, sono state effettuato «prospettando l’uso di armi da fuoco». Nella base di Diano Castello, gli inquirenti hanno trovato una pistola nascosta (“il giocattolo”, nelle conversazioni, ndr) nella campagna vicino all’abitazione di via Codeville. Ma non è tutto: «alcune conversazioni intercettate avevano ad oggetto la contrattazione per l’acquisto di armi da guerra del tipo Kalashnikov». Armi che, come viene esplicitato in alcune conversazioni registrate,  Gioffrè pensava di acquistare in Albania: si parla di «20/30 fucili successivamente da rivendere a circa 1.000 euro al pezzo».

Diverse le occasioni in cui sarebbe stata usata violenza. In un caso, documentato tramite intercettazioni, Gioffrè commissionava a Nieto Fiss «un atto intimidatorio ai danni del cliente G. G., reo di non aver onorato il debito per l’acquisto di una partita di cocaina il giorno 04.11.2021, acquisto per il quale, nella medesima data, lo stesso era stato tratto in arresto in Ventimiglia». Visto che il cliente non aveva saldato nemmeno in parte il debito contratto, «Gioffrè ordinava a Nieto Fiss di procedere al violento pestaggio nonostante la presenza di un bambino piccolo in casa, precisando che gli avrebbe dovuto lasciare un biglietto da lui
manoscritto con il quale rammentargli il debito non onorato: “Domenico ti manda i saluti e tu non glieli hai mandati”». In quell’occasione, evidenziano gli investigatori «Nieto Fiss non mostrava nessuna titubanza, anzi, suggeriva al capo di massacrarlo di botte senza ucciderlo, per assicurargli il pagamento del denaro, che non avrebbe ottenuto se fosse stato ucciso».

In un altro caso, Nieto Fiss si era reso disponibile anche ad utilizzare un’arma da fuoco. Ma Gioffrè lo aveva bloccato, consigliandogli «di utilizzare le maniere forti solo in caso di reazione»