“Favole da incubo”, lo spettacolo di Roberta Bruzzone in arrivo al teatro Ariston di Sanremo
«Tantissime persone stanno partecipando al tour. E sono tutte persone che escono dallo spettacolo con una consapevolezza e una mentalità diversa rispetto a quando sono entrate in teatro»
Sanremo. La Città dei fiori si presta particolarmente a ospitare manifestazioni di ogni genere, che siano esse sportive, musicali o artistiche. E tra qualche giorno, a tal proposito, Sanremo accoglierà, presso il teatro Ariston, una delle tappe del tour della criminologa e psicologa Roberta Bruzzone che, martedì 29 ottobre alle 21 porterà in scena “Favole da incubo”, uno spettacolo incentrato sul tema della manipolazione affettiva.
Dottoressa Bruzzone, di che cosa parla “Favole da incubo”? Com’è strutturato lo spettacolo? «Io parlo di stereotipi di genere nel mio spettacolo, di cui la metà è dedicato proprio a far comprendere quanto il tipo di educazione che ancora oggi impartiamo a maschi e femmine sia la base della maggior parte delle situazioni malevole, delle manipolazioni, e dei maltrattamenti. C’è una parte introduttiva molto accattivante che dura circa un’oretta, legata agli indicatori principali dei manipolatori, e a quelli che sono i loro principali alleati. Poi mi soffermo a raccontare tre storie di manipolazione e di femminicidio, con l’obiettivo di fare in modo che non accada più, e di far comprendere cosa ci insegnano queste storie, cos’è che va modificato, e quali sono i presupposti che vanno affrontati e in qualche modo superati. Lo spettacolo in tutto dura circa due ore, e le storie che affronto sono quelle di Elena Ceste, Roberta Ragusa, e Arianna Flagiello.»
La passione per la criminologia è nata con lei oppure grazie a un episodio in particolare avvenuto nella sua vita? «Io ho sempre seguito le mie naturali inclinazioni: la curiosità, la determinazione, e il senso di giustizia. Tutte insieme, mi hanno portato a sviluppare questo tipo di progetto che, fortunatamente, sono riuscita a realizzare pienamente, perché non avrei saputo immaginare la mia vita diversa da quella che conduco. È qualcosa che mi accompagna da sempre. Questa curiosità di andare a ficcare il naso nei luoghi dove gli adulti ci dicevano di non andare perché succedevano cose terribili ce l’ho da quando avevo 5/6 anni. La mia mente ha bisogno di stimoli abbastanza forti, e quindi ho scelto un lavoro che mi consente di sperimentare quel tipo di attenzione e di curiosità, applicato a un senso di giustizia molto forte che ho sempre avuto fin da piccola. La combinazione è stata questa, e nel tempo mi ha portata a sviluppare un percorso particolare.»
La si può definire, dunque, una pioniera del suo settore? «Io avevo il progetto di unire il mondo delle scienze forensi e criminologiche alla psicologia investigativa fin dai tempi dell’università. E all’epoca ancora non esisteva quello che oggi io, di fatto, faccio come lavoro, perché questa unione dei due mondi, ovvero della parte più criminalistica scientifico-forense e della parte più criminologica, in qualche modo l’ho importata io. Ho ritenuto che avere competenze su entrambe le sfere potesse creare una visione molto più precisa e più affidabile scientificamente. Quest’intuizione l’ho coltivata con caparbietà, determinazione, e anche molto impegno, e alla fine mi ha dato ragione, proponendo un modo diverso di approcciare alla criminologia, più legato all’aspetto comportamentale, attraverso quella che è l’analisti delle tracce. Molti colleghi della vecchia scuola mi trovavano e continuano a trovarmi molto indigesta. E questo mi fa enormemente piacere, perché evidentemente questa modalità di approccio così innovativa – e anche rivoluzionaria, per certi versi – ha lasciato un segno importante.»
E a proposito della sua intuizione e del nuovo metodo di approccio da lei creato, come è nata l’idea di portare in scena a teatro uno spettacolo interamente dedicato a questo tema? «Semplicemente con la volontà di salvare delle vite, perché la situazione è disastrosa a livello relazionale. Gli stereotipi di genere ancora imperano nella mente di tantissime persone, uomini e donne italiane. Parliamo della maggioranza, e questo è il presupposto per poi cadere in una relazione tossica, malevola e distruttiva. L’obiettivo è quello di raggiungere più persone possibili con un tempo più ampio rispetto a quelli che sono i tempi televisivi. E devo dire che l’intuizione è stata vincente. Tantissime persone stanno partecipando al tour. E sono tutte persone che escono dallo spettacolo con una consapevolezza e una mentalità diversa rispetto a quando sono entrate in teatro. Questo mi viene testimoniato quotidianamente da moltissime persone. L’obiettivo è anche quello di creare consapevolezza, ma soprattutto di salvare delle vite.»
Nonostante a oggi se ne parli tanto, perché, secondo lei, ci sono ancora persone che continuano a cedere in relazioni sbagliate? Esiste una falla nella comunicazione? «Non se ne parla in maniera corretta. Si affronta il problema legandolo solamente all’attività del manipolatore e del maltrattante. Ma in realtà, i presupposti sono di tipo culturale ed educativo.»