A ottant’anni dai bombardamenti Seborga ricorda i civili morti e i partigiani trucidati dai nazi-fascisti
Due giovani sorelle chiesero di morire abbracciate: sono il simbolo dell’orrore
Seborga. C’è anche un gesto di amore nell’eccidio nazifascista in cui, 80 anni fa, a Seborga, persero la vita cinque partigiani. E’ quello di due sorelle, Angelica Gioconda e Carmen Rosa Manassero, che ai loro aguzzini chiesero di poter morire abbracciate. E in un barlume di umana pietas vennero accontentate e fucilate mentre erano strette l’una all’altra. Avevano diciassette e diciannove anni e nel loro abbraccio che la morte ha reso infinito sono diventate il simbolo di quell’orrore.
A ricordarle, oggi, insieme alle altre vittime dei nazifascisti e ai civili morti nel bombardamento di Seborga del settembre 1944, sono stati il sindaco di Seborga Pasquale Ragni, l’Anpi di Bordighera, Ventimiglia e Sanremo e Giovanni Perotto, professore del liceo Aprosio di Ventimiglia e oratore ufficiale della cerimonia che si è svolta nella piazza principale del piccolo Comune, nei pressi della lapide che ricorda i cinque partigiani trucidati.
«Siamo qui per ricordare. Anche se l’episodio è numericamente piccolo, è molto significativo perché vede coinvolti prima dei civili nel bombardamento della scuola e poi questo gruppo di partigiani e partigiane, che vengono prima torturati e poi uccisi in maniera selvaggia – ha spiegato il prof Perotto -. E queste due sorelle che chiedono di morire abbracciate ed è l’unica concessione all’umanità che viene fatta dai nazifascisti, che le fucilano abbracciate assieme. E’ importante anche ricordare questi piccoli episodi significativi di quello che non deve più ripetersi. Bisogna rendere queste occasioni appetibili ai giovani, che hanno bisogno di conoscere, prima ancora di ricordare. Ci sono iniziative, come quella del liceo di Ventimiglia, che da anni, a ottobre, porta i propri alunni in un viaggio della memoria nei campi di sterminio. Una piccola grande iniziativa per ricordare, ma i ragazzi dovrebbero poi conoscere anche la storia locale».
E’ il 9 settembre 1944, quando Seborga subisce un duro rastrellamento ad opera delle forze tedesche. «All’alba il paese si trova sotto il fuoco delle artiglierie. I tedeschi avevano portato due cannoni da 70 millimetri sulla strada provinciale; numerose case rimangono gravemente danneggiate – ricorda il sindaco Ragni – Da una lettera del 3 settembre 1945 del Comune di Seborga, risultano danneggiati 35 fabbricati. Cinque persone sfollate trovano la morte sotto le macerie dell’edificio scolastico colpito in pieno». Si tratta dei componenti della famiglia Mannucci: Olga, Vittoria, Remo, Marcella e Margherita Rossacci. I tedeschi occupano tutto il paese dando ordine alla popolazione di portarsi sulla strada provinciale per un controllo. «Il povero Antonio Maccario, ex cantoniere, che non fece in tempo ad eseguire l’ordine, fu freddato con una fucilata. Vengono catturati cinque giovani partigiani di cui due ragazze. Trascinati sul piazzale situato all’ingresso del paese, vengono torturati, massacrati a bastonate e poi fucilati».
«Tolte loro le scarpe, col calcio del fucile i corpi esamini venivano gettati nella scarpata sottostante. Le due ragazze Manassero Gioconda e Carmen, prima di morire, avevano espresso il desiderio di essere fucilate strettamente abbracciate insieme; ciò fu loro concesso dal comandante del plotone di esecuzione – prosegue Ragni -. Caddero e rimasero strettamente abbracciate anche nella morte. Appena i tedeschi si allontanarono, la popolazione raccolse i cinque corpi trasportandoli nella camerata mortuaria e poi a Bordighera. Del partigiano Valle Emilio scomparso durante il rastrellamento, non si saprà più nulla e sarà dato come disperso».
Una storia drammatica che rischia di essere dimenticata. «Mi angoscia vedere, oggi, come non ci sia un giovane venuto a ricordare i nonni morti per permettere a loro di andare a divertirsi in giro – ha dichiarato Gustavo Ottolenghi, vice presidente dell’Anpi di Sanremo – Purtroppo, tra vent’anni non si faranno nemmeno più queste cerimonie. Non abbiamo più nessuno a cui trasmettere i valori di quand’ero giovane. Avevo undici anni, ma erano gli undici anni di un bambino di allora, non di adesso che hanno telefonino e televisione. All’epoca il bambino non aveva nulla. Mi sono trovato sbalestrato fuori dalla famiglia ed ho cominciato a capire qualcosa, soltanto dopo che anch’io ho preso conoscenza di quello che era avvenuto. Il ricordo non deve scomparire, ma bisogna inquadrare in qualche modo riuscire a sensibilizzare i giovani. Si dice sempre: bisogna insegnare ai giovani la storia che c’è stata. No, ma bisogna insegnare agli insegnanti la storia che c’è stata, sono loro che non sanno niente».