Pieve di Teco ricorda Mario Ponzoni arrestato e fucilato nel ’45 per aver rilasciato una carta di identità falsa ai partigiani

14 luglio 2024 | 13:31
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Il paese lo ha ricordato con una rievocazione storica: dalla ricostruzione del suo arresto negli Uffici comunali (era impiegato all’anagrafe) fino alla sua fucilazione avvenuta il primo pomeriggio dell’11 gennaio del 1945

Pieve di Teco. «Era una bella giornata quel lontano 11 gennaio del 1945, c’era ancora un po’ di neve nei prati, mi ricordo di aver visto passare il plotone di esecuzione dalla finestra di casa mia zia, non potevamo uscire perché i tedeschi avevano imposto il coprifuoco per paura di ritorsioni». Così Augusto Sibilla, 11 anni all’epoca dei fatti , ricorda gli ultimi istanti di vita del giovane Mario Ponzoni, fucilato a 18 anni,( ne avrebbe compiti 19 il 12 di giugno) il giorno stesso della sentenza della sua condanna a morte dopo un processo senza difesa, per aver falsificato dei documenti per alcuni partigiani. Oggi Pieve lo ha ricordato con una rievocazione storica: dalla ricostruzione del suo arresto negli Uffici comunali (era impiegato all’anagrafe) il 30 dicembre del 1944 fino alla sua fucilazione avvenuta il primo pomeriggio dell’11 gennaio del 1945.

«Mario è stato rinchiuso nei locali delle scuole e poi ha percorso in mezzo al plotone di esecuzione via De Amici,(conosciuto come il vicolo della Ne (ndr)) per poi immettersi e proseguire in via Vittorio Emanuele, l’attuale Corso Mario Ponzoni. Ricordo ancora le urla disperate di sua mamma Giacomina che affacciata alla finestra chiamava il nome del figlio senza risparmiare parole forti ai tedeschi. Il marito Omero e il fratello Rino cercavano di tirarla dentro casa per paura che le sparassero. Non c’era nessuno per strada, i tedeschi avevano imposto il coprifuoco, per paura di qualche rappresaglia da parte dei pievesi. Al ritmo del ritornello della canzone Lili Marlene e del suono dei tacchi degli stivali dei tedeschi, sulla strada, Mario fu portato nel prato di San Giovanni per essere fucilato. Il silenzio e poi sentimmo i colpi e capimmo».

«Ho guardato fuori dalla finestra di casa mia, c’era il coprifuoco e non potevamo uscire, ma sono riuscita a vedere Mario in mezzo al plotone, sul ponte, che con le mani ammanettate dietro la schiena si è tirato su i pantaloni- aggiunge Pellegrina, 7 anni nel 1945- questo è l’ultimo ricordo che ho di lui».

Rina, oggi, di anni ne ha 99 e con la mente ancora lucida ricorda che quel giorno  «il plotone all’ordine di fare fuoco non sparò. Per ben tre volte, poi l’ufficiale in carica disse a gran voce “Se non sparate vi uccido uno per uno” e partì così la raffica di colpi che uccise Mario Ponzoni». A recuperare il cadavere del giovane pievese i suoi amici di sempre, che all’epoca avevano l’incarico di recuperare i corpi dei fucilati nel prato di San Giovanni.

Un ricordo preciso di quei giorni è custodito all’Istituto storico della Resistenza di Imperia nelle parole del pievese Ferdinando Durand. «Mario- scrive Durand-è un pacifico impiegato del municipio della nostra Pieve. Non ha forse ancora vent’anni, splendente di giovinezza, di sanità morale e fisica, non ama darsi alla politica, preferisce altre attività meno pericolose. […] La vita appare lunga davanti a lui, i tempi sono difficili, gli sembra che qualche volta si esageri da una parte e dall’altra. […] la sua idea ce l’ha perché non uno sciocco, come hanno un’idea tutti quelli che vivono qui, ma non gli sembra il caso di sbandierala a ogni vento, tanto più che ci sono quelli che tradiscono e denunciano. Intanto i mesi più difficili sono passati, gli alleati si avvicinano, seppur lentamente, col giungere della primavera la guerra sarà terminata. Ma un mattino d’inverno ecco che si precipitano nel suo ufficio tre ragazze sconvolte. “Senti Mario, i tedeschi hanno arrestato Menini, ma non hanno prove che sia un partigiano. Noi abbiamo preparato un documento di identità che può salvarlo, c’è tutto, manca solo il bollo del municipio e con quello Menini è salvo. Su metti il bollo qui(una gli mette il foglio sotto gli occhi) è un attimo, tu non puoi negarci questo favore, si tratta di salvare una vita”. Mario- prosegue la testimonianza di Durand- le guarda, vede il loro volto ansioso, si immagina già Menini davanti al plotone di esecuzione, sa che non c’è un momento da perdere, apre il cassetto, afferra il timbro e bolla il documento».

I momenti che seguono sono concitati «bisogna- prosegue Durand- cacciare in tasca del Menini la carta di identità falsa con un altro nome, altra data e altro luogo di nascita, farlo passare per uno del paese non soggetto ad obblighi di servizio militare (nella carta di identità c’è scritto questo) e il giovanotto è salvo». I due tedeschi con Menini sbucano sulla piazza, «una delle ragazze si fa incontro e chiede se una strada è transitabile, un’altra giungendo alle loro spalle mentre sono fermi tenta di cacciare il foglio in tasca a Menini ma esso scivola a terra». È l’inizio della fine: «il bollo del Comune è ancora umido si decide di prelevare tutti gli impiegati del Comune stesso. Negli uffici trovano soltanto Mario, lo interrogano, lo vedono impacciato,  non hanno dubbi. Menini viene fucilato, la ragazza portata a un comando più importante viene rilasciata poco dopo, Mario è trattenuto ma senza gravi minacce. Si attendono ordini dal Comando di provincia o di regione a cui è stato inviato il verbale dell’interrogatorio.[…] Nel paese corre poco dopo la voce che egli sarà presto liberato perché deve essersi difeso dicendo di essere stato costretto con la forza a porre quel bollo da due partigiani armati o che gli è stato strappato il timbro dalle mani. Mario medesimo- qualcuno può scorgerlo dalle finestre di una casa vicina- appare tranquillo. Lo lasciano qualche breve momento anche uscire a prendere aria sulla piazza».

Ma nel giro di pochi giorni le cose precipitano.

«Dopo tre giorni- continua Durand nelle sue note- si sparge improvvisa la notizia che i tedeschi hanno deciso di dare un severo esempio e che forse Mario sarà fucilato. Un interprete che ha sentito ventilare quella estrema soluzione avverte subito chi è politicamente più impegnato ma la notizia così grave e così inattesa sembra agghiacciare anche il cervello. Il sindaco si presenta al comandante tedesco rivestito della sua divisa di capitano degli alpini ma non viene ascoltato». Si mobilitano anche le madri dei soldati e proprio una di questi scrive una lettera al comandante tedesco ma «nulla si ottiene. Quella gente o quel comandante ha il cuore di pietra: vuol dare un esempio e non ascolta nessuno».

Il destino di Mario è segnato: non c’è più niente da fare per lui. «Un triste pomeriggio si ode improvvisamente rimbombare la voce si Misulla, il pubblico banditore, che si serve di un megafono perché tutti possano udire “D’ordine del comando tedesco, dalle ore quattordici alle ore sedici nessuno deve affacciarsi alla finestra, nessuno deve muoversi dalla propria casa o dal luogo dove si trova. Chi trasgredirà l’ordine verrà subito esemplarmente punito”».

Non c’è più niente da fare, e «ormai nessuno spera più. Si resta pietrificati e attraverso le persiane chiuse qualcuno vede il lugubre drappello muovere verso il luogo delle esecuzioni, un piccolo prato nelle “Rabine” tra il ponte e il fiume. Quando il morituro passa sotto la propria casa la madre si affaccia gridando “Mario, Mario” e scoppia in un urlo folle. I tedeschi procedono più veloci mentre il figlio, pallidissimo si volta indietro a guardarla senza sapere fare un gesto, senza pronunciare sillaba. Pochi minuti dopo echeggia secca e lugubre nella tenue luce invernale la scarica dei fucili».

mario ponzoni

(foto concessa dai familiari di Mario Ponzoni)