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Processo Breakfast, l’arringa delle avvocatesse di Scajola smonta il castello accusatorio: chiesta l’assoluzione

13 marzo 2024 | 17:58
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L’ex ministro: «Un processo che non doveva neanche nascere, che era basato sul nulla e che si conclude sul nulla, ma rimangono le sofferenze»

Reggio Calabria. «Ripercorrerò la genesi del processo, a partire dall’ordinanza di misura di custodia cautelare. Siamo assolutamente convinte che nel nostro caso ci sia la prova positiva dell’insussistenza del fatto». Ha esordito così, nella sua arringa difensiva, l’avvocato Elisabetta Busuito, che insieme alla collega Patrizia Morello hanno discusso oggi per oltre due ore davanti alla Corte di Appello di Reggio Calabria, dove si sta svolgendo il processo di secondo grado che vede sul banco degli imputati anche l’ex ministro e attuale sindaco di Imperia e presidente della Provincia Claudio Scajola, accusato di procurata inosservanza della pena in quanto, secondo l’accusa, avrebbe aiutato l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, morto lo scorso 16 settembre a Dubai, dove si era rifugiato dopo una condanna a 3 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, divenuta definitiva.

Due arringhe, quelle delle rispettive avvocate, complementari l’una all’altra, che hanno smontato pezzo per pezzo tutte le accuse rivolte a Scajola, scardinando le basi non proprio solidissime del castello accusatorio costruito dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo.

Un «processo kafkiano» e «ipertrofico», lo ha definito l’avvocato Busuito, che ha portato alla condanna a due anni di reclusione comminata in primo grado a Claudio Scajola. Caduta, su richiesta della stessa pubblica accusa, l’aggravante del 416 bis (Lombardo, al termine della sua requisitoria, aveva chiesto l’assoluzione per l’imputato, ndr), di un’indagine durata anni, con la quale si voleva provare l’esistenza di una cupola in cui convergevano massoneria deviata e mafia, è rimasto «un unico segmento superstite», ha detto l’avvocato Elisabetta Busuito, parlando dell’accusa di procurata inosservanza della pena (art. 390 del codice penale). «Ma il tribunale, per arrivare a dire che un 390 cp si fosse consumato, ha dovuto ricostruire i fatti in maniera incomprensibile e non convergente con quanto emerso in fase dibattimentale».

Per dimostrare la propria tesi, il legale ha sottolineato il contenuto di alcune delle intercettazioni prodotte dagli oltre 160 operatori di pg che hanno indagato sulla vicenda. «Intercettazioni – ha sottolineato Busuito – Che ci restituiscono quindi un dato positivo su quanto stava avvenendo». E così, mentre nella sentenza di primo grado si parla di un «presunto e inesistente mandato che la signora Chiara Rizzo (all’epoca moglie di Matacena, ndr) avrebbe dato a Claudio Scajola già nell’estate del 2013 per far sì che Matacena si spostasse in Libano», nelle intercettazioni prodotte «abbiamo sempre e solo sentito parlare di asilo politico: ricordo che esiste il diritto, anche del peggior delinquente del mondo, di richiedere l’asilo politico».

«Le intercettazioni ci sono già dal luglio del 2013 – ha continuato l’avvocato – E si capisce perfettamente: si sentono tutti gli attori che parlano e non si parla di Libano. L’unica cosa che Scajola dice alla Rizzo è “guarda, ho fatto fare uno studio per capire in che modo tuo marito può tornare in Italia a scontare la pena vicino a dove abiti tu”. E lei era contenta».

E ancora: «Non c’è una intercettazione, una testimonianza, in cui si dica “Ok Matacena potrebbe spostarsi il 28 febbraio”. Non esiste. Le uniche date di cui si parla nelle intercettazioni sono quelle in cui, secondo Vincenzo Speziali, Scajola avrebbe dovuto incontrarsi con l’avvocato libanese Firas per far ottenere l’asilo politico a Matacena. Quindi non c’è nulla, anzi c’è l’esatto contrario.
Perché di fatto il tribunale è quasi costretto a rappresentare i fatti in questo modo: rendendosi conto che esiste il diritto di chiedere asilo polito, cosa fa? Sposta l’attenzione e dice: “Lo spostamento di Matacena non poteva che avvenire in maniera clandestina perché era privo di passaporto”. Quindi, siccome Matacena si sarebbe dovuto spostare e non aveva i documenti è su quell’ipotetico spostamento clandestino che si concentra il tribunale. Ma anche su questo abbiamo le intercettazioni che dimostrano il contrario. Non c’è nulla che spieghi come Matacena si sarebbe dovuto spostare in Libano, si parla sempre e solo di asilo politico. E’ un fatto che il tribunale ha dovuto creare perché altrimenti si smontava anche l’ultimo segmento della contestazione iniziale».

Claudio Scajola appello Reggio Calabria

Da sottolineare anche che il personaggio più volte tirato in ballo da Vincenzo Speziali con il nome di avvocato Firas, in realtà non esista. «Non mi è mai capitato in 30 anni di carriera – ha detto l’avvocato Busuito – Oltre 160 operatori di pg non sono manco stati capaci di capire che quello non era un cognome, ma un nome di battesimo». Sembra un dettaglio da poco, ma nome o cognome che sia, Scajola e Firas non si incontreranno mai. Così come non si incontreranno Scajola e Amin Gemayel, di cui Speziali vantava una stretta e complice vicinanza.
«Questo processo per alcuni versi è stato al limite del kafkiano – ha insistito Busuito – Ci sono state scene surreali. Questa è la storia di una persona, Claudio Scajola, vicina a Chiara Rizzo che in quel momento è disperata, piange al telefono. In maniera casuale, Scajola le riferisce che Speziali dovrebbe essere nipote di Gemayel e le dice “possiamo tentare la strada dell’asilo politico”. Le telefonate tra Scajola e Rizzo sono numerose. Parlavano di tante cose e in qualche caso hanno parlato di far predisporre ai legali un’istanza di asilo politico». Un’istanza che, tra l’altro, non è mai stata depositata.

Matacena viene arrestato a Dubai nell’ottobre del 2013: «uscito dal carcere rimarrà esattamente nella stessa posizione, a Dubai, fino al maggio del 2014. La giustizia italiana ha sempre saputo dove stesse, ha avanzato un’istanza di estradizione che viene respinta perché a Dubai il concorso esterno non è riconosciuto come reato. E questo lo si sapeva benissimo, era un dato chiaro e certo – ha argomentato sempre l’avvocato Busuito -. Invece nella sentenza si legge che Matacena ad un certo punto aveva avuto dei dubbi, pensava che potesse essere estradato. Qualcosa andava scritto, ma il dato rappresentato nella sentenza è ancora una volta smentito dalle intercettazioni».

E non solo quelle tra Scajola e Rizzo, che, di fatto, non fanno altro che parlare al telefono. Ci sono anche quelle di Vincenzo Speziali: «spregiudicato», «maneggione», come scrive lo stesso tribunale «che però diventa una persona seria, credibile, durante il processo. In realtà è un millantatore, e lo dice lui stesso, visto che in una intercettazione dice di aver fatto solo chiacchiere». L’altro protagonista è Gemayel. E’ lui che dal Libano dovrebbe aiutare Matacena a fuggire, insieme all’aiuto di Speziali. Entrambi non furono mai indagati e questo resta uno dei tanti punti poco chiari dell’intera vicenda.

«Sono tre gli elementi utilizzati nella sentenza per dimostrare la concretezza delle accuse contro Claudio Scajola – ha detto l’avvocato Patrizia Morello, dopo aver spiegato sinteticamente cosa si intenda per reato di procurata inosservanza della pena e quali condizione debbano sussistere affinché possa essere contestato – Il primo è l’affidabilità di Speziali, ovvero dello stesso soggetto che, come ha ricordato la collega Busuito, in una conversazione con Scajola che ormai aveva iniziato a dubitare di lui, ammette che le sue erano solo chiacchiere». Gli altri due elementi sono il parallelismo della vicenda legata alla latitanza di Marcello Dell’Utri e la veridicità di un fax che Gemayel avrebbe fatto pervenire a Scajola. Un fax che secondo la difesa è stato lo stesso Speziali, che ormai non sapeva più come uscire dalle sue stesse bugie, inviò da una copisteria di Beirut. Nel fax, datato 20 marzo 2014, Gemayel avrebbe scritto «ciò di cui mi occuperò a partire da domani è trovare un modo riservato per far uscire Matacena dagli Emirati Arabi, tutto con estrema riservatezza (talmente tanta riservatezza che lo manda da una copisteria, sottolinea l’avvocato) … in accordo con le loro autorità…». «Se anche il fax fosse vero, nel contenuto si parla di accordi con le autorità di Dubai, quindi di illecito non c’è nulla», ha sottolineato l’avvocato.
«Non contiene una condotta che possa agire concretamente su latitanza. Si parla al futuro, perché si parla di attività che devono essere ancora svolte. “In futuro potrà essere tentato un contatto con le autorità”. Non c’è nessun dettaglio su come dovrebbe avvenire il trasferimento di Matacena. Davvero un fax, e la telefonata del mese dopo in cui Speziali dice che sono tutte balle, possono essere la prova?»

Per quanto riguarda il parallelismo con la latitanza di Dell’Utri, l’avvocato Morello ha sottolineato il «carattere totalmente congetturale di questi punto. Su cosa basa, la sentenza, l’affermazione della sussistenza di questo parallelismo? Su una serie di opinioni di terzi soggetti che avrebbero individuato in Speziali il responsabile della latitanza di Dell’Utri. Non c’è, però, nemmeno un soggetto che in queste intercettazioni dica che Speziali abbia gestito la latitanza di Dell’Utri. Si sentono solo richieste a Speziali, domande, si parla di quello che si è sentito in tv. Persino il padre di Speziali, in una telefonata gli dice: “Anche gli analfabeti lo capiscono che non sei tu il responsabile della latitanza”. E questa sarebbe la prova?».

Ancora Morello, «Sempre nella sentenza c’è scritto che Claudio Scajola era a caccia di notizie su Dell’Utri e quindi telefona più volte a Speziali per averle. Ma tutte le telefonate partono dal telefono di Speziali e non da quello di Scajola e in nessuna Scajola chiede qualcosa di Dell’Utri. E’ sempre Speziali che ne parla, che introduce l’argomento».

C’è poi il tema delle “cene romane” che avrebbero dovuto servire per decidere i dettagli della latitanza di Matacena. Cene alle quali Scajola non partecipò nemmeno una volta. «Tutti i testimoni della pubblica accusa hanno smentito il dato che poi ci ritroviamo, però, nella sentenza – ha aggiunto l’avvocato Morello – Tra l’altro un teste della procura in aula ha riferito: “Era solo un’ipotesi investigativa che non venne mai provata”. Siamo seri? E’ su questi elementi che possiamo dire di trovare idoneità concreta?».

«La giurisprudenza chiede che ci sia un piano criminoso dettagliato affinché ci sia una procurata inosservanza della pena – ha ricordato l’avvocato Morello – Si deve basare su tre elementi: dettagli del piano, che non ci sono; inizio di attuazione dello stesso, che non c’è; e significativa probabilità di raggiungere lo scopo. E con speziali che ha detto che sono tutte balle non sembra probabile».

L’avvocato Patrizia Morello ha poi compiuto un’ultima riflessione, basata sul fatto che il latitante, quando viene arrestato all’estero, non è più latitante. «E allora, Matacena si rende irreperibile prima ancora che gli venga notificato l’ordine di carcerazione – ha detto il legale -. Si allontana dall’Italia e Scajola non interviene in questo allentamento. Nulla viene contestato a Scajola in questa fase. Matacena va alle Seychelles e poi va a Dubai e non appena scende dall’aero viene arrestato.
 Quindi, quando si allontana Scajola non fa nulla. Poi quando arriva a Dubai e viene arrestato, e qui la condizione di latitanza non c’è (e non lo dico io, lo dicono le Sezioni Unite della Cassazione) allora manca anche il presupposto di base di procurata inosservanza di pena». «Per questo motivo – ha concluso – Chiediamo una pronuncia assolutoria nei confronti di Claudio Scajola».

La corte ha rinviato l’udienza al prossimo 26 giugno.

«Le avvocatesse Busuito e Morello hanno interpretato due lectio magistralis sul fatto e sul diritto, con una chiarezza cartesiana, a dimostrazione di un processo che non doveva neanche nascere, che era basato sul nulla e che si conclude sul nulla, ma rimangono le sofferenze», ha detto Scajola all’uscita dall’aula. A dieci anni dalle indagini, quasi undici, cosa possiamo dire? «Quante energie sprecate – ha risposto – Quante persone distolte in periodi in cui è necessario soffermarsi contro la criminalità. E invece, la ricerca della notorietà, di costruirsi un percorso, impegnando 160 uomini, mobilitando e distruggendo la vita, è una cosa di una gravità assurda».

Scajola uscita aula appello Reggio Calabria