Omicidio in Svezia, il teste chiave: «Aldobrandi mi ha detto “L’ho ammazzata”»
Davanti alla corte d’Assise di Imperia, presieduta dal giudice Carlo Alberto Indellicati, Slobodan è comparso come teste della Procura nel processo che vede sul banco degli imputati il pizzaiolo italiano
Imperia. La mano destra che taglia la gola, dall’alto verso il basso. E’ il gesto mimato più volte da Javonovic Slobodan, cittadino serbo per anni residente in Svezia, dove ha allenato diversi club di calcio e dove, nella cittadina di Linköping gestiva un locale aperto ai soci.
Davanti alla corte d’Assise di Imperia, presieduta dal giudice Carlo Alberto Indellicati, Slobodan è comparso come teste della Procura nel processo che vede sul banco degli imputati Salvatore Aldobrandi: il pizzaiolo italiano accusato di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili e soppressione di cadavere, per la scomparsa della 21enne Sargonia Dankha, sua ex fidanzata, sparita nel nulla il 13 novembre del 1995, proprio a Linköping, in Svezia. Un teste chiave, visto che a lui Aldobrandi, in Svezia conosciuto come “Samuel” o “L’italiano”, avrebbe confessato di aver ucciso una donna. «”L’ho ammazzata”, mi disse», ricorda Slobodan aiutato dal pubblico ministero Matteo Gobbi, che insieme al sostituto procuratore Paola Marrali, ha condotto le indagini contro Aldobrandi. «”L’ho ammazzata”», ripete, «Lo ha detto, ma non mi ha mai fatto il nome di Sargonia. Ho capito che era lei solo quando ho letto la storia sui giornali».
Prima di confessare di aver ucciso una persona, Aldobrandi si era recato dall’uomo, che conosceva perché frequentava la sua discoteca, Maxim, per chiedere aiuto. «Mi aveva chiesto un aiuto per potare via qualcosa da un appartamento – ricorda il serbo -. Mi aveva parlato di sacchi neri grossi della spazzatura. Gli serviva un’auto e qualcuno che la guidasse, doveva andare fuori città. Per aiutarlo, avrebbe pagato 100mila corone».
«Ho capito che era qualcosa di sporco – aggiunge Slobodan – Non volevo averci niente a che fare. Ho pensato che volesse incastrarmi, che volesse farmi lasciare le impronte da qualche parte per coinvolgermi in quel brutto affare».
Slobodan ricorda anche lo stato in cui si trovava Aldobrandi: «Aveva gli occhi rossi, era sudato, si vedeva che c’era qualcosa che non andava. Era nervoso – spiega -. Era novembre e non faceva caldo, grondava sudore ed era così dannatamente blu intorno agli occhi, che erano rossi all’interno». Un’immagine che Javonovic Slobodan dice di avere bene impressa nella memoria: «Era un comportamento molto strano quello di Aldobrandi, che mi è rimasto impresso. E’ sempre stata una persona tranquilla, posata, quando l’ho visto in quella situazione, ho capito che era successo qualcosa di grave. Ho fatto la guerra, in Serbia, ricordo quelli sguardi nelle persone sotto stress, gli occhi rossi come quando si fa un’immersione e poi si fuoriesce dall’acqua».
Che cosa doveva trasportare Aldobrandi? Chiede il pubblico ministero: «Un cadavere e dei vestiti da donna», risponde Slodoban. «Non era facile comunicare, c’erano problemi con la lingua – aggiunge il serbo – Io non parlavo ancora bene svedese. Ma si parlava di un cadavere».
Il 15 maggio del 2001, sentito una seconda volta dalla polizia svedese, Slodoban aveva riferito la confessione che Aldobrandi gli avrebbe fatto di un omicidio. «Che cosa hai fatto?», aveva chiesto il serbo. E Aldobrandi: «L’ho ammazzata». E poi quel gesto che Slodoban ricorda bene: il gesto di un uomo che sgozza una donna. «Ha parlato di un’ascia, me lo ricordo».
A quel punto Slodoban rincara la dose, e chiede di nuovo all’italiano: «”Come? Cosa hai fatto brutto idiota?” E lui ha fatto quel movimento, io lo so. Ha confessato, l’ho sentito. Ha detto, “l’ho ammazzata”, ma non ha mai detto il nome di Sargonia». Dopo quelle dichiarazioni, Slodoban ha cacciato malamente Aldobrandi dal suo locale. «Gli ho detto “Fuori brutto zingaro, ti do un calcio nelle palle”».
Difficile ricordare tutti i particolari di quanto avvenuto ormai quasi 30 anni fa, ma Javonovic Slobodan ripete: «Quello che ho dichiarato alla polizia quando mi ha interrogato è la verità: sono un serbo, sono una persona onesta. Se l’ho detto è perché è la verità». La difesa di Aldobrandi, però, ha sottolineato come il teste abbia riferito i particolari solo in un secondo momento e non la prima volta in cui la polizia lo ha raggiunto per fargli domande sul caso.