Ambra Laurenzi figlia e nipote di deportate a Ravensbrück: «Insegniamo ai giovani a combattere le discriminazioni»
«Ho sentito un dovere il fatto di portare avanti questa storia al di là del coinvolgimento famigliare come un dovere civile perché la storia di queste donne non sia stata vana»
Imperia. La Spezia, mamma Mirella e nonna Nina sono in casa, in corso una riunione clandestina con lo zio partigiano e altre persone, loro non lo sanno ancora ma pochi minuti dopo la loro vita cambierà e muterà anche quella delle future generazioni di quella famiglia che ha deciso di raccontare quanto successo come testimonianza ma anche come insegnamento per le nuove generazioni.
Mirella ha diciassette anni è una giovane studentessa e sogni che non racconta a voce alta. La signora Nina è una mamma premurosa quando bussano alla porta e il destino che entra prepotente nelle loro vite: un militare della Gestapo con un mitra in mano che intima alla giovane di uscire, Nina sentito il trambusto fa capolino da una stanza e anche a lei viene intimato di lasciare l’abitazione. Da quel momento un lungo viaggio, prima verso il carcere di La Spezia poi in quello genovese e successivamente il campo di smistamento di Bolzano per l’ultima destinazione: Ravensbrück il campo di concentramento femminile a circa 90 chilometri da Berlino.
«La mamma e la nonna sono state deportate in quanto familiari di un partigiano, mio zio fratello della mamma. Quel giorno- racconta Ambra Laurenzi, autrice del libro “A volte sogniamo di essere libere. Il lavoro forzato alla Siemens nel lager femminine di Ravensbrück”presentato ieri all’Università di Imperia e presidente del Comitato Internazionale di Ravensbruck si teneva in casa una riunione organizzativa, e attraverso una spiata è arrivata in casa la Gestapo e ha arrestato le persone presenti e mia mamma, Mirella Stanzione, e nonna, Nina Tantini sono state portate via. Ha aperto la porta mia mamma all’epoca era una studentessa di 17 anni e un militare della Gestapo con il mitra in mano ha detto Raus, fuori e lei è uscita. Mia nonna ha sentito il trambusto ed è uscita anche lei e le hanno portate via, prima nel carcere di La Spezia dove vivevano poi in quello di Genova e poi nel campo di smistamento di Bolzano e da lì nell’ottobre del 1944 sono state trasferite a Ravensbrück dove hanno lavorato alla Siemens».
Una storia che ha influenzato la vita di Ambra anche se «è un argomento complicato e difficile- racconta- c’è tutto questo aspetto delle seconde e terze generazioni che è poco indagato. Bisogna considerare che la maggior parte delle donne che sono ritornate non hanno parlato della loro storia perché l’accoglienza che hanno avuto non teneva conto quello che avevano sofferto e quasi non le credevano e allora la maggior parte delle donne hanno deciso di non parlare e purtroppo è un’offesa che la società nel suo complesso spesso anche nelle famiglie stesse avevano difficoltà ad accettare, un po come è successo anche con i partigiani e dunque non è stato facile. Anche mia mamma per tanto tempo non ha parlato in pubblico fino agli anni ’90. In casa la storia esisteva perché sapevamo anche se non nei dettagli. Poi con il tempo io stessa ho acquisito questo tipo di storia e ho sentito un dovere il fatto di portare avanti questa storia al di là del coinvolgimento famigliare come un dovere civile perché la storia di queste donne non sia stata vana».
«Il messaggio per i giovani è questo: la discriminazione che è stata fatta, specificatamente per il femminile, quasi come se la deportazione fosse stata una colpa per loro e non una tragedia che è capitata nella loro vita secondo me deve fare riflettere e per quanto in generale sulla deportazione quello che noi possiamo fare come Aned e comitato internazionale di Ravensbrück ci sforziamo di trasmettere per capire le motivazioni che hanno portato alla deportazione e a questa tragedia. Solo conoscendo le motivazioni, le conseguenze di questa storia si può capire quali sono i segnali a cui bisogna sempre fare attenzione nel percorso della storia e degli eventi. Spero che ai giovani arrivi questo: la capacità e sensibilità di percepire questi segnali, di combattere le discriminazioni e accettare le differenze perché la storia come ha detto Primo Levi è destinata a ripetersi se non la si conosce».
La signora Mirella e la sua mamma Nina sono tornate insieme, dopo essere riuscite a scappare durante la marcia della morte insieme ad altre prigioniere. Un lungo viaggio, tante peripezie prima di arrivare in un campo profugo americano che smistavano i sopravvissuti verso ovest e sud e dopo sei mesi la fine della guerra sono riuscite e ritornare a La Spezia.