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La storia di Lucinasco nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

18 febbraio 2023 | 08:30
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La storia di Lucinasco nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

La cui prima attestazione storica risale al 21 maggio 1154 e che venne ceduto al duca di Savoia Emanuele Filiberto nel 1575

Lucinasco. Nuovo appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo che questa volta propone la storia del borgo di Lucinasco, la cui prima attestazione storica risale al 21 maggio 1154 e che venne ceduto al duca di Savoia Emanuele Filiberto nel 1575:

«Il territorio di Lucinasco si distende sulla sponda destra del torrente Impero, nel punto in cui il corso di questo, uscendo dalla Valle del Maro propriamente detta, si volge decisamente verso sud, mentre il principale riferimento orografico è rappresentato dal Monte dei Prati, un’altura di 784 metri sul livello del mare, collegato a ponente alla dorsale degli Scuassi e proseguito in direzione sud-est dal Monte Pissibinelli (737 metri) e dal Monte Acquarone (732 metri).

Dal Monte dei Prati si dipartono verso nord il costone dei Prati in direzione di Borgomaro e in particolare la costa di Lucinasco che si piega in direzione di Torria segnando nettamente la curva della valle. Ed è proprio su tale costa che si venne gradualmente sviluppando l’insediamento abitato maggiore, localizzato in un primo tempo nella zona di Santo Stefano e successivamente trasferito, con ogni probabilità per esigenze di natura strategico-difensiva legate alla costruzione del castello in epoca medievale, nella dislocazione attuale, in tempi coevi quindi alla fondazione del centro di Borgoratto, sorto per controllare meglio il guado del torrente.

Il borgo antico di Lucinasco è situato lungo il crinale che dall’alto di un colle del versante orografico destro domina le sottostanti valli Impero e del Maro con un paesaggio circostante dominato dall’ulivo intensamente coltivato, sostituito più in alto da boschi di lecci e di castagni. Oltre al capoluogo, nel territorio comunale sono ubicate le borgate di Case Molini e la succitata frazione di Borgoratto, mentre il territorio lucinaschese confina con i paesi di Maro Castello, Borgomaro, San Lazzaro Reale, Chiusavecchia, Villaviani e Vasia.

Dalle numerose sorgenti che sgorgano nella campagna circostante l’abitato alcune vennero deviate per condurle ad irrigare gli orti attorno al paese, mentre all’importante zona dei prati conducevano anticamente tre percorsi quasi paralleli: la via Sottana, la via di Mezzo e la via Soprana, dalla quale ultima si dipartiva verso sud la via alle Fontane, che era diretta alle prese dell’acquedotto medievale. La viabilità maggiore era invece costituita dalla via che, staccandosi dal fondovalle all’altezza di Borgoratto, proseguiva verso Lucinasco collegandosi quindi da lì, per il tracciato della Cappelletta, all’antichissima «via marenca» di crinale.

In Lucinasco è attestata inoltre la presenza di una «platea» o piazza, dove già nel XV secolo si riuniva il Parlamento locale ed era un punto fisso di incontro per la popolazione del borgo, che, disposto sul versante a mare della collina in posizione longitudinale est-ovest, è attraversato da tre percorsi principali che sono chiamati rispettivamente «caruggiu suàn», «caruggiu de mézzu» e «caruggiu suttàn», con le singole contrade che, come a Borgoratto, cambiavano spesso il nome a seconda delle famiglie che le abitavano. L’etimologia del toponimo, citato nelle fonti medievali del XIV-XV secolo nella forma Lexenasco o Lesinasco, è tuttavia piuttosto incerta, anche se nel Liber Iurium della Repubblica di Genova ricorre nel 1233 la forma Vexinasco.

Se quest’ultima forma fosse quella originaria, sembrerebbe plausibile la derivazione del toponimo dal latino vicinus col suffisso -asco, di chiara origine ligure ma ancora molto frequente in età medievale. Non si può tuttavia nemmeno escludere, come base, il nome di persona romana tardo Licinus e neppure il gentilizio Licinius, forse ricollegabile alla presenza in loco di un’antica gens Licinia, che avrebbe dato origine al nome della località in funzione di toponimo prediale.

La prima attestazione storicamente sicura relativa all’insediamento di Lucinasco risale al 21 maggio 1154, giorno in cui il vescovo di Albenga Odoardo investì i fratelli Raimondo e Filippo conti di Ventimiglia delle rendite delle decime ecclesiastiche a lui spettanti in varie località tra le quali figura appunto Lucinasco, che entrò così nell’orbita della famiglia comitale ventimigliese. Dopo la morte di Guido Guerra, Raimondo e Filippo senza eredi diretti, il controllo della contea venne assunto dall’ultimo dei fratelli Ottone, il quale acquisì l’8 dicembre 1182 dal cugino Oberto, consignore di Carpasio, la metà di tutti i beni da questo posseduti nella Valle d’Oneglia per la somma di venti lire genovesi, eccetto la sua quota di decima feudale su Lucinasco ed altre domenicali minori in altre località limitrofe.

Da tale atto si può inoltre desumere come le rendite di Lucinasco dovessero essere allora particolarmente consistenti tanto da garantire un notevole benessere economico alla popolazione del borgo, che fu probabilmente uno dei primi a passare sotto il dominio dei conti di Ventimiglia, forse già alla fine dell’XI secolo. Traendo pretesto dallo scoppio di una guerra confinaria tra Oneglia e Porto Maurizio protrattasi tra il 1202 e il 1204, Genova intervenne militarmente nel Ponente per sopprimere una grande ribellione antifeudale.

Non è tuttavia chiaro l’atteggiamento assunto da Lucinasco in questi frangenti, conclusi con i trattati di pace del 18 marzo 1202 e del 7 agosto 1204, ma sembra probabile che anch’esso abbia seguito i comuni di Lavina, Pietralata, Montarosio, Maro e Conio nella rivolta contro i Ventimiglia protetti da Genova. Intanto i conti di Ventimiglia andavano ulteriormente consolidando il loro dominio nella Valle del Maro con vari trattati con potenti signori locali, come quello stipulato il 25 gennaio 1217, in base al quale il conte Enrico ottenne da Raimondo Carli di Candeasco tutti i beni, mulini, acque e decime da lui posseduti nel Maro, in cambio della reggenza dei castelli di Roccabruna e Poggio Pino.

La garanzia di una efficace difesa da attacchi esterni era offerta da una specie di protettorato genovese sulla Valle del Maro in cambio del quale i conti si adattarono a veri e propri atti di vassallaggio nei confronti della Superba, come quando, nel giugno del 1228, i fratelli Raimondo e Filippo assicurarono una quota di equipaggi per le galee genovesi da arruolarsi nei loro feudi di Conio, Aurigo, Lucinasco, Cesio, Valle Arroscia e Valle di Prelà. Alla completa giurisdizione sulla valle del Maro da parte dei conti di Venitimiglia mancavano tuttavia ancora dei territori sottoposti alla sovranità di altri signori feudali, che dominavano pure su una larga parte del territorio di Lucinasco, dove una fetta abbastanza consistente di giurisdizione, beni, redditi e addirittura del castello spettava ai signori della Lengueglia, che si accordarono alla fine con i fratelli Filippo e Guido di Ventimiglia, i quali, per conseguire il controllo totale del paese, acquisirono tutti i diritti posseduti dai conti della Lengueglia il 1° giugno 1230 per la somma di cinquanta lire genovesi.

Nel 1234 scoppiò una grave rivolta antifeudale che ebbe come epicentro proprio la zona di Lucinasco, tanto da indurre il conte Filippo a cedere il 6 ottobre 1234 tutti i suoi diritti feudali su Caravonica, Lucinasco, Cenova e Lavina, mentre l’intervento armato dei Genovesi poneva rapidamente fine alla ribellione, che aveva avuto il suo estremo baluardo nel castello di Acquarone, situato nel territorio di Lucinasco. Dopo la firma di una convenzione sottoscritta con Genova dai conti di Ventimiglia il 20 dicembre 1234, la popolazione di Lucinasco dovette subire le pesanti conseguenze del ritorno autoritario dei Ventimiglia, che imposero il pagamento di ingentissimi debiti di guerra.

La resa dei conti tra feudatario e sudditi ribelli tardò tuttavia diversi anni, fino al 27 maggio 1245, giorno in cui di fronte al Parlamento dei capifamiglia riunito nella chiesa parrocchiale di Sant’Antonino il podestà di Lucinasco Arnaudo Rubaldo condannò la comunità a pagare agli esattori del conte Filippo tutti i debiti e altri diritti che spettavano al signore feudale, che si assicurò così la definitiva annessione del borgo alla sua giurisdizione. La sottomissione della valle del Maro ai conti di Ventimiglia non dovette essere tuttavia del tutto priva di difficoltà e resistenze da parte della popolazione locale, come attestato dalla solenne ordinanza del 15 giugno 1251 con la quale il podestà di Genova Menabò Torresella si vide costretto ad ingiungere alle comunità di Maro, Conio, Aurigo, Prelà, Lucinasco, Cesio e Caravonica di prestare giuramento di fedeltà ai conti Filippo e Raimondo.

Il progressivo aggravarsi della situazione finanziaria dei domini comitali aveva intanto portato il conte Filippo a stipulare un atto di voltura provvisoria del castello di Lucinasco in favore della moglie Alisia Trinchero il 10 gennaio 1265 come garanzia di un prestito di 600 lire genovesi da lei concessogli. Nella primavera di due anni dopo la valle del Maro venne attaccata dalle truppe provenzali di Carlo d’Angiò, causando l’immediato intervento delle forze di Genova, che ottenne la custodia della valle per un biennio, al termine del quale il re angioino pretese la consegna dei castelli conquistati, tra i quali figurava anche quello di Lucinasco.

Nell’ambito delle successive complesse vicende belliche, nel gennaio del 1273 Lucinasco tornò ai suoi legittimi feudatari rafforzati nell’occasione dall’alleanza con la Repubblica di Genova. Otto anni dopo i conti di Ventimiglia elargirono importanti concessioni alla comunità di Lucinasco con atto stipulato il 10 marzo 1281 davanti alla chiesa di Santo Stefano tra il sindaco del paese maestro Ogerio e il conte Oberto di Ventimiglia, che si accordarono per l’abolizione di antichi pesi feudali e la loro sostituzione con una nuova imposta pari ad uno staro di frumento e ad uno staro e una mina di spelta da versarsi in ragione di ogni fuoco, corrispondente ad un nucleo familiare, o di una singola persona che vivesse da sola. Chiarita la parte fiscale, venne anche fissata l’organizzazione amministrativa del paese con l’istituzione di un consolato di tre membri, di cui due di nomina comitale e uno di nomina popolare, da scegliersi in ogni caso fra gli abitanti residenti con varie funzioni esecutive attinenti alla sfera giuridica e fiscale.

Dopo la cessione dei paesi della Valle d’Oneglia dal vescovo di Albenga ai fratelli Nicolò e Federico Doria nel gennaio 1298, Lucinasco rimase l’unica fortezza «strategica» dei Ventimiglia, dalla quale era possibile controllare il transito nella sottostante valle Impero con evidenti implicazioni sia di natura economica che militare. È proprio in quest’epoca che si deve con ogni probabilità collocare se non la fondazione almeno il drastico potenziamento del centro di Borgoratto in competizione con la vicina Chiusavecchia già in territorio doriano al di là del torrente Impero. In questo contesto di accresciuta potenza territoriale va quindi inquadrato l’acquisto da parte del conte Oberto di Ventimiglia di tutte le quote decimali spettanti ai fratelli Arnaudo Brenico e Negro de Rostagni di Lucinasco con atto stipulato il 10 luglio 1301, seguito, il 9 aprile 1304, dalla concessione al conte Oberto, da parte del vescovo di Albenga Nicolao, dell’investitura delle decime ecclesiastiche di Lucinasco e Caravonica.

L’atteggiamento filoimperiale tenuto dal ramo siciliano dei Ventimiglia aveva intanto attirato verso i conti la benevolenza dello stesso imperatore Enrico VII di Lussemburgo, il quale, sceso in Italia, confermò il 23 novembre 1311 ai fratelli Guglielmo e Nicolò di Ventimiglia il pieno diritto feudale su Lucinasco, Carpasio e territori del Maro, mentre il 1° dicembre successivo anche il loro cugino Oberto di Ventimiglia ottenne la sanzione imperiale dei possessi di Lucinasco, Caravonica e Prelà Superiore

. Nel frattempo il ramo siciliano dei conti tendeva a delegare sempre più la gestione dei suoi domini liguri a congiunti della famiglia, come attestato dal contratto stipulato il 15 febbraio 1312, con il quale i fratelli Guglielmo e Nicolò concessero in affitto per cinque anni al cugino Filippino il castello del Maro e le loro porzioni dei territori di Lucinasco e Prelà. Dopo un’altra guerra tra gli Angioini e una vasta coalizione formata dalle principali famiglie nobili del Ponente, che si concluse con una pace siglata il 9 febbraio 1331, nel 1340 si verificò un ennesimo scontro tra la fazione ghibellina locale, capeggiata da Antonio Doria, e le forze genovesi, che nel 1345 ebbero il sopravvento occupando anche tutti i castelli dei Ventimiglia nella Valle del Maro.

La cocente sconfitta subita dai conti di Ventimiglia avrebbe quindi segnato l’inizio del loro definitivo declino, inducendo i rappresentanti della famiglia comitale a fare atto di sottomissione alla Repubblica di Genova con atti del 30 gennaio e del 25 febbraio 1350, in forza dei quali i conti, oltre a rinunciare alla sovranità sui loro domini in cambio di una semplice subinfeudazione degli stessi, accettarono presidi militari guelfi nei castelli e soprattutto si obbligarono, come già nel 1228, a fornire contingenti di truppe per l’armamento delle galee genovesi. Seguendo l’esempio dei Doria di Oneglia, i Ventimiglia tentarono poi di liberarsi dalla pesante tutela genovese alleandosi nel gennaio 1395 con il fratello del re di Francia e duca di Orléans, al quale cedettero in cambio di una pensione pari a centocinquanta fiorini mensili, tutti i loro feudi, tra i quali anche Lucinasco, sostenendo poi con le armi nel giugno successivo la discesa in Riviera dell’esercito orléanista al comando del Sire de Coucy.

Anche se il tentativo fallì per l’improvviso e volontario passaggio di Genova sotto la sovranità francese nel 1396, i Ventimiglia ne ebbero alcuni vantaggi e, dopo aver solennemente giurato fedeltà alla corona dei Valois nel febbraio-marzo del 1402, furono reintegrati dal Boucicault nel pieno possesso dei loro feudi. Nel corso della successiva dominazione milanese su Genova, che si protrasse dal 1421 al 1435, i conti del Maro dovettero cedere il passo alla potente famiglia genovese degli Spinola, che dal 1426 avevano occupato con la forza Pieve di Teco.

Sembra che, in seguito a tali fatti, anche i feudi dei Ventimiglia, e in modo particolare quelli ubicati nella Valle del Maro, siano stati sottoposti – non si sa se volontariamente o meno – al controllo di castellani legati agli Spinola. Nel settembre del 1437 un forte esercito genovese al comando di Giovanni Fregoso penetrò quindi nella valle Arroscia con l’obiettivo di riprendere la piazzaforte di Pieve di Teco, mentre Lucinasco veniva espugnato dalle truppe del signore di Dolceacqua Enrichetto Doria, alleato del Fregoso, ma già nel dicembre seguente il paese fu ripreso da spinoliani e milanesi, forse a causa del tradimento di alcuni taggiaschi della guarnigione. Il possesso del castello di Lucinasco era tuttavia troppo importante per i Genovesi, che già nell’agosto 1438 ripresero il controllo del paese.

Non pare tuttavia che i Lucinaschesi odiassero i nuovi padroni, tanto che il 1° settembre 1438, a poche settimane dal ritorno dei Genovesi, il loro comandante supremo Giovanni Fregoso, confermò le franchigie generale di cui il borgo godeva sotto i conti di Ventimiglia, come pure i benefici fiscali della famiglia Acquarone, che si era distinta in modo particolare negli ultimi avvenimenti per dedizione alla causa genovese.

Alla caduta del doge Tommaso Fregoso, i Capitani della Libertà si affrettarono ad ordinare lo sgombero della valle del Maro e il 10 gennaio 1443 decretarono quindi la restituzione dei castelli agli antichi proprietari Ventimiglia e Lengueglia, purché questi ultimi si fossero impegnati a non riedificare i fortilizi. Mentre alcuni signori del Maro si riconobbero fedeli alleati della Repubblica di Genova, altri, come quelli insediati a Conio e Lucinasco, manifestarono la chiara volontà di appoggiarsi ai lontani cugini Lascaris di Briga e Tenda fino al punto di desiderare l’annessione ai loro domini.

La seconda guerra tra i Del Carretto e Genova spinse ulteriormente i Ventimiglia verso i loro cugini tendaschi, che miravano ad estendere il loro dominio sulla valle del Maro. Fu così che nel maggio 1455 il conte di Ventimiglia Gaspare cedette al conte Onorato Lascaris di Tenda il castello del Maro per la somma di 8600 lire genovesi, mentre cambiavano di proprietà le carature feudali dei Ventimiglia in vari paesi tra i quali pure Lucinasco, a favore del Lascaris, che il 2 marzo 1462 rilevò anche tutti i beni feudali e allodiali su Lucinasco, Caravonica, Larzeno, Prelà e Carpasio in esecuzione delle ultime volontà testamentarie del conte Rainaldo, che aveva diseredato il figlio Antonio, cedendo appunto le sue proprietà al conte tendasco, il quale, già da sette anni, si era insignito anche del titolo di signore del Maro. Dopo la morte di Rainaldo, il suo erede pretese però l’immediata consegna dei beni spettantigli e, di fronte alla deboli e spente opposizioni del parentado Ventimiglia, timoroso di una eventuale reazione da parte dei conti di Tenda, rispose inviando le sue truppe all’occupazione dei castelli contestati, primo fra tutti Lucinasco, il cui controllo rivestiva particolare rilevanza di natura strategica.

La scarsa opposizione dei superstiti detentori di parti del territorio lucinaschese fu peraltro esclusivamente di natura legale, venendo presto meno nel 1466 quando Giovanni di Ventimiglia cedette ad Onorato le parti che ancora possedeva a Lucinasco e a Carpasio. In seguito alla congiura nella quale morì avvelenato il conte Onorato il 4 febbraio 1474, la vedova del signore di Tenda, Margherita Del Carretto, si risolse a passare decisamente al contrattacco contro i suoi storici nemici, tra i quali figuravano i Lascaris di Briga, i Savoia, i Grimaldi di Monaco e i Ventimiglia del Maro, di cui non è tuttavia certa l’adesione alla coalizione contro la signora di Tenda.

Per conseguire gli scopi che si era prefissata, Margherita puntò subito al possesso dello strategico castello di Lucinasco, dove già nel 1463 si era stabilita una guarnigione tendasca e che passò quindi al figlio di Margherita e nuovo signore di Tenda Gio Antonio II Lascaris in forza di un’ennesima transazione stipulata il 5 giugno 1479 con Giovanni Ventimiglia. La successiva guerra tra l’esercito tendasco, guidato dal giovane conte Gio Antonio, e le truppe genovesi inviate dal doge Battista Campofregoso agli ordini dell’arcivescovo Paolo Fregoso e di Ibleto Fieschi indusse la contessa Margherita, timorosa di perdere i suoi domini, ad allearsi con il re di Aragona Ferdinando e con il papa Sisto IV, che obbligarono il governo genovese a ritirare le sue truppe dalla zona di operazioni, accettando inoltre di rilasciare tutte le località occupate.

Anche Margherita fu costretta a sgomberare tutti i castelli indebitamente occupati dopo il 1462, assumendo in seguito una linea politica dilatoria, favorita anche dal perdurare della sua alleanza con il duca di Milano. Dopo un’altra guerra scatenata dalla contessa in Val Prino nel 1488, intorno al 1490 la situazione politica e militare della Valle del Maro si poteva dire stabilizzata con tutto il territorio compreso tra il Monte Grande, il Monte Faudo e il torrente Impero passato direttamente, dopo oltre mezzo secolo di patti, congiure e guerre sanguinose, sotto il controllo dei conti di Tenda: così all’antica stirpe feudale indigena dei Ventimiglia era ormai subentrata la signoria dei Lascaris.

Alla morte di Gio Antonio Lascaris nel 1509 senza lasciare diretti eredi maschi, gli successe la figlia Anna, che nel 1501 aveva sposato Rainero, il Gran Bastardo di Savoia. Nel gennaio del 1511 Rainero indusse la moglie Anna a riconciliarsi coi cugini di Ventimiglia, che dal loro rifugio di Porto Maurizio continuavano a sobillare Genova contro i signori tendaschi. La politica del Bastardo portò quindi un ramo dei Ventimiglia al potere ad Aurigo, Cenova e Lavina, ma fallì sostanzialmente per i paesi di Lucinasco e Caravonica, il cui signore nominale Bartolomeo era particolarmente restio a stringere accordi con il marito della contessa di Tenda.

Nonostante la situazione venutasi a creare, il governo genovese riconobbe signore di Lucinasco, che già dal 1463 era stabilmente in mani tendasche, il conte Bertone, che viveva ormai in esilio a Porto Maurizio e gli eredi di Giannetto, che, come si è visto, avevano spontaneamente ceduto tutti i loro diritti alla contessa Margherita di Tenda. Sempre a Lucinasco, a conferma del permanere di antichi diritti sul borgo da parte dei conti di Ventimiglia, nel 1514 Bartolomeo Ventimiglia potè liberamente cedere in affitto alcuni mulini di sua proprietà, mentre sette anni dopo Corrado Ventimiglia sanciva ufficialmente la conferma degli Statuti del paese.

Il 29 marzo 1530 Anna Lascaris, pressata da laceranti conflitti di natura familiare, si decise a vendere al genovese Ansaldo Grimaldi, genero del signore di Monaco, tutti i suoi territori di Maro e Prelà per la somma di 14.000 scudi; formalizzato l’acquisto, il 27 luglio successivo le popolazioni della valle, con in testa quella di Lucinasco, prestarono giuramento di fedeltà ai Grimaldi, che ressero il dominio appena acquisito fino al 1540, quando i paesi della Valle del Maro tornarono stabilmente sotto la giurisdizione dei conti di Tenda.

Intanto continuavano i dissidi tra la popolazione lucinaschese e i vecchi signori del borgo, i conti di Ventimiglia, che fin dagli anni Quaranta del ’500 avevano trascinato in giudizio la comunità di Lucinasco, gravemente insolvente nei confronti in particolare del nobile Gio Antonio Ventimiglia, il quale portò in giudizio gli abitanti del paese, i cui delegati raggiunsero alla fine un accordo con i rappresentanti dei conti il 30 gennaio 1567 davanti al notaio Gio Battista Gandolfo di San Lazzaro, in base al quale vennero riconfermati i patti stipulati dieci anni prima, fissando a dodici scudi d’oro, pari a 138 lire, la rata annuale delle decime che i massari della comunità avrebbero dovuto versare ai Ventimiglia il giorno della festa di San Michele.

Nell’ambito della successsiva guerra di successione alla contea tendasca tra l’ammiraglio di Villars e Renata d’Urfè, il castello di Lucinasco venne espugnato nel gennaio 1575 dalle truppe ugonotte agli ordini del capitano Paloque, mentre Madama d’Urfè decideva, pochi giorni dopo, di radere al suolo il maniero del paese minacciando i paesani di confiscare tutti i loro beni se non avessero eseguito l’ordine da lei impartito, e così l’antico edificio fu demolito sotto i picconi dei Lucinaschesi. Il 15 novembre 1575 la contessa Renata cedette infine al duca Emanuele Filiberto di Savoia tutti i suoi domini tendaschi, mentre il giorno dopo anche i paesi della Valle del Maro, compreso Lucinasco, passarono sotto la giurisdizione del duca sabaudo.

Il 1° dicembre successivo tutte le comunità della valle del Maro, fra le quali naturalmente anche Lucinasco, giurarono fedeltà ligia alla corona di Savoia, entrando a far parte del grande ducato subalpino cinque mesi prima di Oneglia e della sua valle. Il 15 gennaio 1577 i rappresentanti delle comunità della valle inviarono quindi una supplica al duca nella quale chiedevano al loro nuovo signore di confermare tutte le franchigie, i privilegi, le immunità e gli statuti di cui godevano i paesi della valle sotto la dominazione dei conti di Ventimiglia, mentre il 7 aprile di dieci anni dopo giunse a Lucinasco il commissario sabaudo Marcantonio Ribotti di Pancalieri il quale, davanti al Parlamento locale riunito nella piazza principale del paese, diede lettura delle patenti ducali, con cui si ribadiva la sovranità territoriale assoluta da parte dello Stato sabaudo sulla comunità formata dai centri di Lucinasco, Borgoratto e Molini, stabilendo con precisione funzioni e limiti dell’amministrazione della giustizia da parte delle autorità locali e centrali e la regolamentazione del gettito fiscale.

La diretta dipendenza delle terre del Maro dal governo ducale non sarebbe tuttavia durata molto in quanto già quindici anni dopo l’acquisto dai conti di Tenda il territorio passò, per subinfeudazione diretta, a Gio Girolamo Doria Ciriè, appartenente al ramo degli antichi signori di Oneglia e poi fedele vassallo di Casa Savoia; l’accordo sarebbe stato quindi perfezionato in base ad un atto stipulato il 5 gennaio 1590, con cui l’Infanta Caterina d’Austria perfezionò per ventimila scudi la vendita al Doria del Marchesato di Maro e Prelà; in forza delle concessioni dell’accordo il nuovo feudatario acquisiva tutti i principali diritti sui paesi della valle, ad eccezione della conservazione della sovranità territoriale e delle prerogative di gabella, precettazione e leva.

Dopo lo scoppio della guerra del Monferrato nel novembre 1614, le truppe spagnole occuparono tutti i paesi della Valle del Maro, da dove si sarebbero ritirate soltanto tre anni dopo, tanto che solo il 20 aprile 1618, oltre un anno dopo la pace di Pavia, le forze sabaude poterono quindi rientrare in possesso della zona in seguito al suo sgombero da parte degli avversari. Nel frattempo il governo sabaudo aveva inasprito la tassazione sulla produzione olearia causando però la ferma reazione della popolazione, che alla fine ottenne di sostituire l’imposta con «donativi» spontanei e così, al termine del 1622, le amministrazioni locali poterono delegare propri rappresentanti, tra cui in primis quelli di Caravonica, del Maro e di Lucinasco per convenire con le autorità sabaude l’abolizione della gabella sull’olio, che venne sostituita con un donativo annuo pari a 1200 zecchini d’oro.

Anche nel corso della successiva guerra scoppiata nel 1625 tra il Ducato sabaudo e la Repubblica di Genova la zona del Maro fu coinvolta nel teatro delle operazioni belliche e Lucinasco in particolare venne occupata dalle truppe genovesi al comando del generale Gonzaga, le quali sarebbero rimaste in paese, instaurando un duro regime di occupazione, fino al gennaio 1635, quando i Savoia rientrarono in possesso dei loro territori. Dopo una serie di gravi sciagure come la gelata del 1664-65 e l’invasione dei bruchi che causò pesanti danni alla locale viticoltura, nel 1672 scoppiò la seconda guerra tra il Ducato di Savoia e la Repubblica di Genova con la solita occupazione della valle del Maro da parte delle truppe genovesi, che questa volta dovettero però presto ritirarsi in seguito ad una vasta sollevazione popolare divampata il 21 e 22 ottobre grazie anche all’arrivo da Briga di 4000 fanti piemontesi agli ordini del marchese San Damiano e dell’abate Amoretti.

Una quindicina di anni dopo, in seguito alla morte del conte Giacomo Ventimiglia, il vescovo di Albenga Tomaso Pinelli rinfeudò l’11 marzo 1687 le decime ecclesiastiche di Lucinasco all’erede ufficiale conte Vittorio Caizotti, esponente di una nobile famiglia di origine cuneese, la cui successione ai Ventimiglia rappresentò la scomparsa definitiva di questi ultimi dal dominio sul paese che avevano esercitato ininterrottamente a partire dal XII secolo. All’inizio del Settecento tutta la valle del Maro appariva in una fase di notevole crescita economica, legata soprattutto alla coltivazione degli ulivi e ad una sempre più capillare commercializzazione del prodotto oleario, che aveva proprio nel territorio di Lucinasco una delle zone di maggiore produzione, soprattutto dopo la riduzione ad uliveto di vaste aree incolte verso l’area boschiva della Maddalena tramite lo sfruttamento intensivo di tutti i versanti collinari esposti a mezzogiorno.

Intorno alla metà del secolo Lucinasco e Borgoratto insieme, con una produzione di ben 7800 rubbi di olio, costituivano di gran lunga il maggior centro produttore del principato, seguiti con un certo distacco da Oneglia (6000 rubbi) e Pontedassio con 5400 rubbi. I primi tre decenni del XVIII secolo rappresentarono dunque un periodo di consistente sviluppo economico, incentivato dall’incremento della produzione olearia, la quale, nonostante le gravose tassazioni imposte dal governo piemontese e il susseguirsi di geli e siccità, contribuì in modo determinante ad assicurare un diffuso benessere agli abitanti di Lucinasco e dell’intera valle del Maro.

Nel 1743 tornarono a soffiare i venti di guerra sui paesi della valle in seguito alla scesa in campo di Carlo Emanuele III contro la potente alleanza franco-spagnola, ed ancora una volta Lucinasco venne occupata da un contingente di soldati gallispani, che avanzarono pesanti richieste di contribuzioni e di viveri, ma soprattutto imposero alla popolazione alcune gravose corvées, in base alle quali tutti gli uomini validi del paese dovevano recarsi a turno a tagliare il legname nel bosco di Rezzo e poi trasportarlo al colle del Pizzo per costruirvi una ridotta francese, mentre la mancata consegna di foraggi alle caserme di Pieve di Teco si tramutò nella esemplare punizione rappresentata dall’alloggiamento forzato nel paese di alcune compagnie di truppa lorenese agli ordini del comandante Portello.

A porre fine a tale critica situazione sopraggiunse però l’avanzata dell’esercito ducale che il 19 settembre 1746 liberò definitivamente Oneglia, mentre le valli onegliesi avrebbero costituito ancora l’immediata retrovia dell’esercito sabaudo del Leutrum fino alla pace stipulata ad Aquisgrana nell’ottobre del 1748. Quattro anni dopo, nel contesto di un generale riordinamento dello Stato, Carlo Emanuele III avocò quindi tutti i feudi della Corona, tra i quali figuravano anche quelli di Maro e Prelà, ancora formalmente sottoposti ai Doria-Ciriè, in esecuzione del decreto emanato il 3 ottobre 1752, mentre l’11 febbraio precedente Lucinasco, su ordine del prefetto di Oneglia Maurizio Odetti, aveva subito un’ampia riforma nelle modalità di elezione degli amministratori comunali.

Negli stessi anni continuavano inoltre le liti tra il marchese Alessandro Doria e la comunità di Lucinasco in merito all’annosa questione del pagamento delle decime feudali, che si sarebbe poi risolta con un accordo siglato il 29 giugno 1763 a Borgomaro alla presenza del sindaco del paese Nicolao Acquarone e del procuratore del marchese Ignazio Occelli assistiti da un notaio e da due testimoni, in base al quale si convenne che le decime in natura sarebbero state sostituite da un canone annuo di sole 69 lire genovesi, mentre al marchese rimaneva l’unico obbligo di provvedere alla chiesa una palma in occasione della ricorrenza della Domenica delle Palme.

Se ancora nel marzo del 1778 la comunità aveva finalmente estinto un vecchio debito contratto ormai da centosettanta anni, gli ultimi anni del XVIII secolo furono caratterizzati da una notevole attività nel campo dei lavori pubblici concretizzatasi con un rinnovato dinamismo nella manutenzione della rete viaria comunale, nel perfezionamento della grandiosa opera di canalizzazione della fontana pubblica, realizzata tra il 1775 e il 1790, e nella costruzione della nuova casa del Comune, portata a termine tra il 1784 e il 1786.

L’occupazione della valle d’Oneglia da parte delle truppe rivoluzionarie francesi ai primi di aprile del 1794 aveva intanto causato lo spopolamento di Lucinasco con intere famiglie che, pur di sottrarsi alle prevedibili e sistematiche violenze dell’esercito di occupazione, preferirono emigrare in lontani paesi del Cuneese portandosi dietro bestie e masserizie, mentre il paese entrava a far parte del distretto di Borgomaro che veniva affidato alla gestione amministrativa del profugo napoletano Molines. Il successivo armistizio di Cherasco stipulato nell’aprile 1796 tra il re di Sardegna e Napoleone Bonaparte sancì quindi il ritorno di Oneglia allo Stato sabaudo, anche se le popolazioni interessate ne furono informate più tardi, come quella di Lucinasco, dove l’annuncio fu dato ufficialmente il 2 agosto seguente dal bailo Giuseppe Abbo e dal sindaco Pietro Acquarone.

Nel corso della successiva guerra scoppiata tra Genova e Torino nel giugno 1798 per il possesso del feudo di Carosio, la zona del Maro dovette contrastare ancora una volta l’avanzata delle truppe genovesi agli ordini di Benedetto Corvetto, le quali, dopo essere penetrati nella valle, furono sconfitte dalle forze sabaude, mentre il comandante d’Oneglia Giorgio Des Geneys riusciva ad espugnare Diano e Porto Maurizio, ma tutto fu vanificato dall’improvvisa abdicazione del re sardo Carlo Emanuele IV l’8 dicembre, seguita dall’installazione in tutto il Piemonte del regime repubblicano retto da un governo provvisorio.

Anche nell’entroterra onegliese il nuovo corso politico non tardò a manifestarsi tramite l’innalzamento in tutti i paesi della valle dell’albero della Libertà, autentico simbolo del nuovo regime rivoluzionario, e così pure Lucinasco e Borgoratto dovettero adeguarsi a tale emblema dei tempi nuovi, eretto nella piazza principale dei due paesi subito dopo la designazione delle nuove municipalità paesane da parte del commissario Morardo nel gennaio del 1799. In seguito alla violenta rivolta antifrancese scoppiata ad Oneglia nel maggio del ’99, e alla quale parteciparono anche milizie provenienti da Lucinasco, il paese venne presto ripreso dai Francesi, che già nel giugno vi ristabilirono una guarnigione, dopoché una colonna formata da ottanta granatieri era salita da Borgoratto a riscuotere la contribuzione di resa e a rialzare gli alberi della Libertà.

Intanto iniziava a circolare nella valle un manifesto firmato dal maggiore Santambrogio che invitava la popolazione locale ad un’aperta insurrezione antifrancese in appoggio dell’imminente avanzata austrorussa verso la Provenza; giunta notizia al generale Jablonowsky che i due paesi maggiormente coinvolti nella trama fossero Aurigo e Lucinasco, egli ordinò quindi un’immediata rappresaglia, affidandone l’esecuzione al tenente La Fons, il quale, a capo di un distaccamento francese, giunse a Lucinasco il 14 aprile 1800, imponendo una pesante contribuzione agli abitanti del borgo e appiccando il fuoco a tutto il paese prima di rientrare a Pieve di Teco. Ai primi di giugno del 1800 tornò poi l’occupazione francese della valle, mentre Lucinasco si apprestava ad essere nuovamente obiettivo di una rappresaglia francese, che tuttavia sarebbe stata evitata grazie ad un provvidenziale pagamento di un’ammenda di 800 lire pretesa dall’aiutante di campo del generale Jablonowsky, che fece anche imprigionare i due rappresentanti della comunità lucinaschese Pietro Abbo e Pietro Acquarone in attesa del saldo dell’ultima quota dell’ammenda, poi coperta grazie all’alienazione di alcune terre di proprietà delle chiese paesane.

Nel giugno 1801 Oneglia e tutto il suo entroterra passò quindi sotto l’amministrazione della Repubblica Ligure in qualità di capoluogo della Giurisdizione degli Ulivi, mentre due anni dopo la sede del capoluogo del Comune venne trasferita a Borgoratto, che divenne il centro amministrativo dei tre paesi di Lucinasco, Chiusanico e Chiusavecchia in seguito ad apposita disposizione emanata dal provveditore Nicolò Littardi. Nel 1805, in seguito all’annessione della Liguria all’Impero napoleonico, Lucinasco entrò a far parte del Dipartimento francese di Montenotte, il cui prefetto Chabrol de Volvic ci ha lasciato una descrizione dello stato economico e sociale del paese nel corso del decennio di dominio napoleonico.

Dal 1805 al 1815 il borgo venne amministrato dal maire Filippo Acquarone e dai suoi consiglieri, che si occuparono di ordinaria amministrazione, come la manutenzione da prestare agli immobili comunali e la nomina degli ispettori sulla compravendita delle olive, fino al definitivo ritorno dei Savoia nel 1815, quando l’intera Liguria fu aggregata al Regno di Sardegna e la stessa Lucinasco aderì al nuovo regime con la solenne formula di giuramento alla Corona sabauda pronunciata il 26 agosto 1815 dal sindaco Nicolò Abbo e dai consiglieri del Comune, che entrò a far parte della Divisione di Nizza.

Dopo la cessione di ques’ultima alla Francia nel marzo 1860, il paese venne annesso alla nuova provincia di Porto Maurizio. Nel febbraio 1887 il borgo fu lievemente danneggiato dal terremoto, dopo il quale 34 Lucinaschesi ottennero un mutuo pari a 68.945 lire, mentre il governo concesse anche la somma di seimila lire per la riparazione di edifici comunali, opere pie, asili, ospedali, chiese ed oratori risultati danneggiati dal sisma.

Dopo la prima guerra mondiale, nel corso della quale caddero diversi soldati lucinaschesi, il paese perse la sua tradizionale autonomia nell’ambito della generale riorganizzazione amministrativa attuata su scala nazionale dal governo Mussolini, in esecuzione del regio decreto n. 2769 del 6 dicembre 1923, che stabilì la soppressione del piccolo comune e la sua aggregazione a Chiusavecchia, affidando al commissario prefettizio Flaminio Vivaldi l’incarico di eseguire l’operazione. Nel corso della successiva guerra di liberazione il paese e le sue immediate vicinanze divennero teatro di aspri combattimenti tra nazifascisti e partigiani, che furono molto aiutati dal parroco don Angelo Antonino Martini (Nino), che fin dal settembre 1943 mise a disposizione delle forze della Resistenza la cappelletta sul Monte Acquarone, mentre la madre, rimasta a Lucinasco, si prodigava generosamente a favore dei garibaldini, con i quali collaborò pure durante i mesi di occupazione tedesca il locale Cln.

Dopo la fine della guerra, il paese riottenne finalmente la sua sospirata autonomia tramite la ricostituzione del Comune di Lucinasco sancita dal decreto del presidente della Repubblica n. 798 del 19 giugno 1958, in seguito al quale riprese la normale vita amministrativa del borgo con l’elezione nel giugno 1959 del primo sindaco dopo la riconquista dell’autonomia comunale Francesco Abbo.

Negli ultimi anni si è registrata inoltre una certa ripresa delle tradizionali attività legate all’olivicoltura e all’allevamento del bestiame, favorito dall’esistenza di vasti pascoli, mentre sono anche attive nel territorio comunale varie piccole industrie per la conservazione delle olive in salamoia. Appare infine in crescita anche il comparto turistico, che può avvalersi di una ricezione limitata a qualche ristorante, dove si possono gustare i piatti tipici locali, una vasta scelta di cacciagione e gli ottimi vini prodotti nel comprensorio».