La storia di Santo Stefano al Mare nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

15 gennaio 2023 | 08:00
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La storia di Santo Stefano al Mare nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

Le sue origini risalgono all’età romana, ha poi conosciuto le razzie dei pirati saraceni ed è stato un possedimento dei Benedettini nel Medioevo

Santo Stefano al Mare. Nuovo appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo che questa volta propone la storia del borgo di Santo Stefano al Mare.

“Il territorio comunale di Santo Stefano al Mare è solcato da tre modesti corsi d’acqua, il rio Aregai, il rio Torre e il rio Santa Caterina, che condizionano la struttura dello spazio. Il primo, che sfocia in mare nei pressi della torre omonima, delimita il confine storico ad est del territorio sanstevese; il secondo scende al mare aprendo una piccola valle tra due basse colline: il Monte Colma (120 metri) a levante e il Monte San Stevi o Santo Stefano il Vecchio (163 metri) a ponente, mentre il terzo torrente, che scende da Pompeiana, ha costituito nel corso dei secoli – e costituisce ancora oggi – il confine occidentale verso Riva Ligure.

Il paesaggio agrario sanstevese è fortemente caratterizzato dalle coltivazioni floricole, mentre gli uliveti sono ancora presenti nella parte settentrionale della valle del rio Torre, ma sono ormai in netta minoranza. Assai limitate sono anche le zone a macchia mediterranea, tra le quali appare suggestiva quella che cela la torre degli Aregai, composta da agavi e pini marittimi. Più all’interno, soprattutto verso Cipressa, sono ubicate invece diverse coltivazioni di palme, mentre l’entroterra è ancora contraddistinto dalla tradizionale sistemazione dei pendii a fasce terrazzate in pietra a secco attraversate da una fitta rete di sentieri e mulattiere.

L’abitato attuale di Santo Stefano si può suddividere in due parti: la prima è il cosiddetto «centro storico», che si sviluppa lungo il mare tra il fortilizio del XVI secolo a levante e piazza Saffi, poco oltre la chiesa parrocchiale, a ponente, con un andamento che segue un asse stradale parallelo alla linea di battigia, come in molti altri centri della Riviera, subendo poche modifiche, sotto l’aspetto planimetrico, rispetto alla situazione di due secoli fa; la seconda parte, quella moderna, si è invece sviluppata su un’area assai più estesa e si può dividere in più zone: lungo la via Aurelia, lungo la rotabile per Terzorio e in diverse aree collinari dai «Cavi» ai «Dòneghi» e ai «Sanstevi».

Nel centro storico gli edifici, stretti gli uni agli altri e uniti da numerosi archetti di controscarico, costituiscono un insieme compatto attraversato da molti sottopassaggi e angusti carruggi, che consentono una circolazione esclusivamente pedonale. Le vecchie abitazioni sono state peraltro in buona parte restaurate all’interno nel corso degli ultimi decenni, mentre è ancora in fase di progettazione un intervento globale volto al risanamento e alla valorizzazione di un insieme architettonico particolarmente pittoresco e di cospicuo valore ambientale, che è stato oggetto finora solo di modesti restauri da parte di privati senza un piano di ampio respiro in grado di riqualificare il borgo vecchio nel suo complesso.

Esternamente al nucleo storico le nuove costruzioni sono sorte inizialmente per la crescente richiesta di abitazioni moderne e funzionali da parte dei Sanstevesi più benestanti, che hanno spesso edificato villette unifamiliari rendendo così libere molte case del centro storico che venivano affittate alle famiglie degli immigrati, particolarmente numerosi a partire dal secondo dopoguerra; in un secondo tempo è iniziata una nuova fase caratterizzata da una massiccia espansione edilizia mirata non soltanto a costruire dimore secondarie, che rappresentano la grande maggioranza degli edifici portati a termine, ma anche a soddisfare il fabbisogno abitativo dei residenti.

Il toponimo della località, ubicata sul territorio dell’antico loco et fundo Porciana (toponimo prediale romano in -ano dal gentilizio Porcius), deriva dal nome dell’omonimo monastero fondato nell’XI secolo dai monaci benedettini, attorno al quale si sarebbe sviluppato il borgo a partire dal XIV secolo lungo la strada litoranea, nell’ambito del cosiddetto Principato di Villaregia, istituito come filiazione del convento genovese di Santo Stefano.

Nonostante la presenza di reperti antichissimi rinvenuti nella grotta della Madonna dell’Arma ad Arma di Taggia, che testimoniano la frequentazione umana di questo territorio fin dall’epoca preistorica, non si sa nulla di preciso sull’area sanstevese, anche se i ritrovamenti di Monte Follia sopra Pietrarbuna e del Monte Grange tra Riva Ligure e Castellaro, dimostrano l’esistenza nella zona di importanti insediamenti liguri, anteriori alla conquista romana. Sconfitti da Emilio Paolo nel 181-180 a.C., sottomessi da Claudio Marcello nel 155, i Liguri furono poi definitivamente pacificati soltanto da Augusto, che suggellò il suo trionfo con l’erezione del Trofeo della Turbie e fece della Liguria la Regio IX del suo riordinamento amministrativo dell’Italia.

Le più antiche testimonianze di un’occupazione umana stabile del territorio dell’odierna Santo Stefano risalgono proprio alla prima età imperiale romana. Poco oltre il campo sportivo, a sinistra della strada principale, sono infatti riconoscibili i resti di una massiccia struttura muraria, che potrebbe essere quello che rimane di un antico ponte romano databile al I secolo d.C. e valicato dalla strada romana litoranea, la celebre via Giulia Augusta, e nelle cui vicinanze erano ubicate fiorenti aziende agricole, insediamenti artigianali e qualche villa rustica. Nel corso di alcuni lavori sono stati inoltre rinvenuti parecchi frammenti di anfore di terracotta e di strutture murarie in mattoni. Dal momento che molti di questi frammenti sono scarti di fornace, le ceramiche dovevano essere con ogni probabilità prodotte sul posto e destinate a conservare, tra l’altro, il vino di produzione locale.

Nelle campagne di Santo Stefano i Romani avevano quindi instaurato un sistema economico che si basava sul proficuo abbinamento di agricoltura e artigianato. Non vi dovevano comunque essere veri e propri centri abitati, ma soltanto aziende agricole e ville rurali. Anche la toponomastica conferma la rilevanza assunta dall’organizzazione romana del territorio, tanto che la località del ponte, ancor oggi detta Porsan o Porzani, va identificata con la Porsana dei documenti medievali, e presuppone l’esistenza di un Fundus Porcianus romano, che prendeva il nome dal proprietario cui era stato assegnato il territorio, che in origine doveva essere stato probabilmente più vasto dell’attuale.

Pare dunque che nella zona di Santo Stefano la via romana lasciasse la vista del mare per passare all’interno del Monte Colma, proseguendo forse sulla collina di San Stevi. La particolare grandezza del ponte sembra tuttavia sproporzionata per la sua funzione di struttura valicante un piccolo torrentello come il rio Torre, tanto che, secondo alcuni, questo potrebbe essere stato costruito su iniziativa di un piccolo proprietario terriero, che in tal modo avrebbe valorizzato la sua tenuta agricola. Il periodo di maggiore sviluppo economico e sociale delle ville sanstevesi va probabilmente collocato intorno alla metà del I secolo d.C., anche se l’insediamento dovette essere particolarmente attivo per tutta la tarda antichità. La zona dovette comunque essere precocemente e diffusamente cristianizzata, come attestato dall’antichissima presenza del Battistero di Riva.

L’area di Costa Balenae venne poi totalmente abbandonata soltanto al momento della conquista longobarda della Liguria nel 643, in seguito alla quale gli abitanti della zona costiera si trasferirono a monte e diedero origine all’attuale abitato di Taggia. Nell’area di Santo Stefano, per mancanza di precisi e sicuri riscontri archeologici o documentari relativi al periodo altomedievale, non è possibile stabilire con certezza quanto la frontiera bizantina, il regno longobardo e l’impero carolingio abbiano condizionato lo sviluppo demografico e il controllo politico e sociale del territorio, che forse rimase per lungo tempo abbandonato. Numerosi cognomi attestati in documenti stilati tra il XII e il XIV secolo confermano peraltro indirettamente sia la dominazione bizantina che quella longobarda, anche se non è detto che alcuni esponenti di una casata locale come quella dei Garibaldi, già molto numerosi agli inizi del Trecento, discendano direttamente da guerrieri longobardi insediatisi nella zona tra il VII e l’VIII secolo.

Nel corso del X secolo le continue scorrerie saracene avevano intanto provocato il progressivo spopolamento della fascia costiera spingendo i pochi abitanti rimasti a trasferirsi nell’immediato entroterra alla ricerca di luoghi più sicuri. Sorse così, forse già intorno al 1000, un piccolo abitato sulle pendici della collina dei «Sanstevi», chiamato Monte Santo Stefano nella toponomastica ufficiale, a circa 150 metri di altitudine e a 800 metri in linea d’aria dal mare.

Di questo centro, noto da documenti medievali come Villa Sancti Stephani, non rimangono più tracce in quanto i ruderi dei suoi edifici sono stati eliminati nel secondo dopoguerra per la sistemazione agricola del terreno e per il contemporaneo sviluppo edilizio, anche se circa quarant’anni fa una rilevazione diretta sui luoghi aveva consentito di valutare a circa cinquemila metri quadrati l’area occupata un tempo dal paese, di cui potevano ancora osservarsi numerosi avanzi di murature di fondazione tra i quali si potevano rinvenire cocci di ceramica di fattura grossolana. Al principio del nuovo millennio svolsero comunque un ruolo decisivo nel processo di formazione di moderne comunità locali la chiesa genovese e le sue abbazie, che già possedevano vasti territori fra Taggia e Sanremo.

Il primo documento che attesta un possesso del monastero benedettino di Santo Stefano di Genova nella zona tra l’Armea e il torrente San Lorenzo è un atto dell’agosto del 1029 con il quale Eriberto, abate di quel monastero, concesse in affitto a Martino, Genoardo e ai loro figli maschi, una terra situata nel fondo Porciano, in precedenza già data a livello dallo stesso monastero a Corrado, fratello di Martino, con l’impegno di coltivarvi la vite, legumi e cereali. Non è noto però quando i monaci genovesi siano entrati in possesso di tali terre, né dove esattamente si trovasse questo terreno. Il 4 luglio 1049 la contessa Adelaide di Susa, che aveva giurisdizione sulla Liguria di Ponente, donò alla medesima abbazia di Santo Stefano le terre che ella possedeva nel fondo Porciano, e precisamente nel luogo denominato Villaregia, compreso all’incirca fra il torrente detto oggi rio Santa Caterina e la zona degli Aregai.

Da quel momento si andò formando nella zona una vera e propria signoria governata da religiosi regolari, che nel 1142 acquisirono nuovi diritti dal vescovo di Albenga, che a sua volta ne esercitava altri come la riscossione delle decime. I Benedettini di Genova amministrarono i loro domini non soltanto costruendo chiese e promuovendo i culti, ma anche soprattutto favorendone lo sfruttamento agricolo e il popolamento. Nel 1153 Villaregia è citata come un centro abitato ormai saldamente formato, tanto che risalgono forse a questi tempi i primi terrazzamenti in pietra.

La tradizione attribuisce inoltre ai monaci l’introduzione della coltura dell’ulivo, che si affiancò a coltivazioni già esistenti, mentre i Benedettini erano soliti affittare delle porzioni di terra a coltivatori locali, che versavano all’abbazia una parte dei prodotti del suolo e dell’allevamento. Da uno di tali contratti, stipulato nel luglio del 1077, si apprende che esisteva in zona una chiesa dedicata a Santo Stefano, che tuttavia non è più possibile localizzare con sicurezza. Del resto, anche le tracce architettoniche di Villaregia sono oggi molto scarse limitandosi ad alcune parti della chiesetta di San Maurizio a Riva Ligure, databili al XII-XIII secolo, e magari al portale tamponato nel fianco della parrocchiale di Pompeiana, risalente forse al XIII secolo, passate entrambe sotto il pieno controllo monastico nel 1225.

Ancora agli inizi del Seicento si aveva memoria di una chiesa benedettina di San Ludovico o San Lodisio, situata in località Doneghi verso il rio Santa Caterina nei pressi dell’attuale via Aurelia, ma l’intitolazione a San Luigi di Francia o San Ludovico di Tolosa non sembra anteriore al XIV secolo. Secondo la tradizione sarebbero state erette dai monaci anche alcune case di lungomare D’Albertis, ubicate tra il torrione e il cimitero, ma mancano del tutto prove archeolgiche in grado di suffragare tale ipotesi.

In seguito alla donazione della contessa Adelaide si era intanto giunti all’unificazione – sotto la potestà benedettina – dei centri interni di Terzorio (Villa Trezolli) e di Cipressa (Villa Cipresse) con i piccoli abitati compresi nel territorio degli attuali comuni di Riva Ligure e di Santo Stefano al Mare, dove il centro collinare di Villa Sancti Stephani iniziò presto a decadere, probabilmente per la sempre più forte attrazione esercitata sulla sua popolazione dall’abitato che si andava gradualmente sviluppando intorno al monastero benedettino sulla costa.

Alla Villa di Santo Stefano, ridotta a pochi abitanti già nel XIV secolo, ma comunque ancora esistente nel Seicento, come attestato da una carta manoscritta risalente a quel secolo, subentrò lentamente il Planum Fucis (Pian della Foce), poi detto «Santo Stefano di Pian della Foce» o semplicemente «Santo Stefano», come centro principale del dominio monastico, il cui territorio si estese in breve tempo fin quasi al corso del torrente Argentina a ponente e al rio di San Lorenzo a levante grazie ad una serie di acquisti fatti dai monaci tra il 1169 e il 1228.

Il fiorente territorio era intanto ambito dai confinanti marchesi di Clavesana, che cercarono ripetutamente di impossessarsene, ma senza successo in quanto nel 1186 e nel 1194 i papi Urbano III e Celestino III confermarono tutte le loro prerogative ai Benedettini, che dovettero nello stesso tempo fronteggiare anche le mire espansionistiche dei signori della Linguilia, loro potenti e minacciosi vicini. Agli inizi del Duecento dovette inoltre iniziare lo sfruttamento dei terreni situati in prossimità della spiaggia, mentre pochi anni prima entrarono forse in funzione i primi mulini. In quegli anni il nome di Santo Stefano andò gradualmente sostituendosi a quello di Villaregia, mentre la comunità prendeva per la prima volta una certa coscienza di se stessa e dei suoi diritti, tanto che nel 1217 l’abate nominò un podestà e concesse le prime norme statutarie, integrate nel 1233 e confermate nel 1276.

L’anno successivo altri statuti vennero concessi anche alle comunità di Cipressa e Terzorio, quasi contemporaneamente ad un nuovo giuramento di fedeltà prestato all’abate dagli abitanti di Villaregia. Nel corso del XIII secolo si fece quindi sempre più impellente la richiesta di una maggiore autonomia da parte della popolazione locale, che ottenne la facoltà di eleggere propri consoli che la amministrassero, cui corrispose la ormai progressiva e inarrestabile decadenza politica ed economica del monastero genovese. Ed è proprio da questo incipiente contrasto tra potere monastico e comunità rurale che nacque e si sviluppò a partire dalla seconda metà del XIII secolo il paese attuale di Santo Stefano. Intanto si profilava sempre più incombente il tentativo da parte di Genova di estendere la sua egemonia sulla Riviera a partire soprattutto dal 1251-52, quando capitolarono definitivamente due tra le sue avversarie più tenaci, Albenga e Ventimiglia.

Già nel 1284 Santo Stefano fornì a Genova un nocchiero e venti vogatori per la battaglia della Meloria, mentre cinque combattenti sanstevesi furono inviati alla presa di Cagliari nel 1290. Nel corso del Trecento si andava intanto allargando l’influenza delle famiglie genovesi sul territorio sanstevese: nel 1330-31 Castellano Doria acquistava infatti case e poderi a Pian della Foce, cioè ai piedi della collina di Santo Stefano, mentre nel 1335 il luogo e territorio di Santo Stefano passava dai Benedettini a Lamba Doria, creditore dei monaci, che ne fu eletto podestà e qualche anno dopo ne ebbe la signoria. Il 28 giugno 1353 il figlio ed erede di Lamba, Nicolò Doria, in presenza di un rappresentante di suo fratello Lambino deceduto nel frattempo, ricevette definitivamente dai monaci, pressati dai debiti, il dominio di Villaregia, ceduto a sua volta dal Doria al doge Giovanni di Valente e al Consiglio dei dodici sapienti, che agivano a nome del Comune di Genova, che acquisì tutti i diritti, ragioni ed azioni già competenti al Doria sull’ex dominio benedettino di Villaregia.

Finì così il dominio temporale dei Benedettini su Santo Stefano e iniziò il lungo periodo di amministrazione genovese del territorio sanstevese che si sarebbe protratto fino al 1797. La dissoluzione di Villaregia determinò inoltre profondi mutamenti nell’assetto del territorio, in quanto, estintosi il centro del potere benedettino, l’insediamento sulla collina di San Stevi andò pian piano decadendo mentre gli abitanti si trasferivano gradualmente verso la spiaggia nella zona del Planum fucis, cioè Piano della Foce, nei pressi dello sbocco in mare del rio Torre.

Le profonde trasformazioni ambientali degli ultimi decenni non consentono peraltro di saperne molto di più sugli ultimi tempi di Santo Stefano il Vecchio, che una tradizione leggendaria vuole sia stato devastato dalle formiche, ma sembra tuttavia evidente come l’odierno paese di Santo Stefano si sia sviluppato intorno a due fondamentali assi viari: uno parallelo alla linea costiera nel quale passava, già nel XIV secolo, una strada litoranea, e uno quasi perpendicolare ad esso, che partendo dalla riva muoveva verso l’interno.

Proprio questo secondo tracciato documenta come il borgo di Pian della Foce si sia inizialmente sviluppato non in alternativa a San Stevi, ma in netta dipendenza da questo, al quale era collegato tanto che molte delle abitazioni più antiche sono state erette lungo la strada che congiungeva i due nuclei più stabili del territorio sanstevese. Intanto aumentava sempre di più la consistenza demografica del borgo, come è desumibile dall’erezione in parrocchia, nel 1444, della chiesa già abbaziale di Santo Stefano, costruita prima del XIII secolo, mentre risale al 1475 la concessione da parte della Repubblica di Genova di nuovi Statuti, civili e criminali.

Verso la fine del Quattrocento l’abitato di Santo Stefano doveva già estendersi, sia pure con soluzioni di continuità, dalla foce del rio Torre fino alla parrocchiale, cioè per circa duecento metri, alle spalle di un arenile utilizzato per l’alaggio delle barche e sul quale era attivo anche un piccolo cantiere. Nel paese era dunque assai praticata la marineria e particolarmente fiorente il commercio, a cui si affiancavano la coltivazione della vite (con discreta produzione di un rinomato vino moscatello), dell’ulivo, peraltro ancora insufficiente a soddisfare il fabbisogno locale, degli ortaggi e di una piccola quantità di cereali.

Lo sviluppo del centro Pian della Foce-Santo Stefano, basato sulla doppia valenza economica costituita dall’abbinamento delle attività agricole e di quelle marinare, appare confermato dai dati demografici raccolti verso il 1530 da Agostino Giustiniani, che attribuisce al paese una consistenza di ottanta fuochi, ossia famiglie, per cui, calcolando una media di quattro-cinque abitanti per famiglia, ne risulta una popolazione di non più di 400 abitanti, inferiore a quella di Riva, che aveva cento fuochi, ma superiore a quella di Castellaro (60 fuochi), Pompeiana (25 fuochi) e Terzorio (appena 12 fuochi). Valori quindi piuttosto contenuti, ma abbastanza rilevanti per l’epoca. Questa gente apparteneva a poche e numerose famiglie, di origine presumibilmente locale quali i Filippi, i Garibaldi, i Gogioso, i Marino e i Siffredi, mentre altre famiglie meno folte provenivano probabilmente da Taggia come i Bonanati, i Cagnacci, i Ferrari e i Lombardi e da Porto Maurizio (gli Aicardi).

Tutti questi gruppi erano organizzati in parentelle, ossia in consorzi familiari che gestivano un patrimonio comune, mentre le casate più potenti potevano anche disporre di una vera e propria contrada in quanto esse abitavano generalmente in case molto vicine tra loro riunite in una stessa zona del paese. Delle prime fasi della marineria locale non possediamo invece notizie precise, ma un Gerolamo da Santo Stefano, partito da Genova nel 1491, fece un viaggio di otto anni nelle Indie, dall’Egitto a Sumatra, per tornare a Genova attraverso la Persia e la Siria, di cui resta una dettagliata relazione redatta in portoghese dallo stesso Gerolamo, citato tra l’altro in una lettera scritta nel 1502 da Cristoforo Colombo. Nel corso della prima metà del Cinquecento Santo Stefano si trovò poi sotto il costante pericolo delle incursioni dei pirati barbareschi, che razziarono le coste del Ponente ligure cercando di fare il maggior numero di prigionieri per ridurli in schiavitù e ottenere lauti riscatti dalle loro comunità di origine. A Santo Stefano sbarchi e saccheggi si verificarono nel 1546 e nel 1560, mentre Riva Ligure venne devastata e incendiata nel 1551.

Per difendersi dagli assalti, le comunità ponentine iniziarono allora a costruire massicce torri, utili sia a segnalare il pericolo ai centri vicini che a proteggere la popolazione locale, soprattutto se capienti e munite di adeguate artiglierie. Vennero così realizzati in quegli anni numerosi fortilizi di semplice e pratica costruzione, a pianta circolare o quadrangolare, dotati di feritoie molto profonde per l’uso delle armi da fuoco e di caditoie sopra la porta d’ingresso in modo da colpire il nemico dall’alto rimanendo al riparo. Una di queste torri doveva esistere a Santo Stefano fin dal 1546 e che è ancor oggi ben visibile dall’Aurelia, ma il borgo necessitava di una fortificazione più solida, che all’occorrenza proteggesse anche Terzorio, Cipressa e quanto rimaneva del vecchio Santo Stefano in collina.

Se ne parlò una prima volta nel 1557, quando un commissario genovese cercò di obbligare gli uomini dei quattro abitati a contribuire alle spese, ma l’impresa si protrasse ancora per vari anni fino al 1566, anno in cui la fabbrica della nuova torre risultava terminata. La nuova costruzione risultò costituita da un massiccio torrione a nove lati, munito di guardiole pensili e di un solo originario accesso al primo piano, che rappresenta tuttora, restaurato e adibito a sede municipale, l’edificio più caratteristico della struttura urbana di Santo Stefano. Dopo il 1563 fu invece eretta la più piccola torre romboidale di Aregai nei pressi di quella denominata Torre dei Marmi, ancor oggi ben visibile sul litorale di Cipressa tra l’Aurelia e il mare, poi trasformata in abitazione e dotata un tempo di varie artiglierie a differenza di quella degli Aregai, dove peraltro gli uomini di Santo Stefano rifiutavano di montare la guardia.

Nel corso del XVII secolo, superata senza particolari danni una grave pestilenza nel 1657, riprese lo sviluppo demografico ed economico del borgo, con particolare crescita dell’attività marinara, mentre nella fascia dell’immediato entroterra si andava sempre più affermando la coltura dell’ulivo, tanto che l’olio costituiva ormai la voce principale delle esportazioni. Il paesaggio agrario era caratterizzato da una grande frammentazione dello spazio con terrazze e muretti, sia in pietra a secco che in muratura a calce, che dividevano le proprietà e ne delimitavano i confini. Una fitta rete di viottoli e sentieri le metteva poi in contatto tra di loro e le collegava al sistema viario del paese.

A partire dai primi decenni del Seicento assumevano intanto sempre più consistenza i traffici marittimi, tanto che, nonostante un peggioramento delle condizioni del litorale con riduzione della profondità dell’arenile, il paese teneva in mare verso la fine del XVIII secolo una piccola flotta di dieci tartane, mentre ancora verso il 1780 sul lido sanstevese veniva costruita una polacca dalla stazza di 130 tonnellate. Ancora alla fine del Settecento, considerato lo stato disastroso delle comunicazioni terrestri nella Riviera, la via marittima era la più veloce e sicura, cosicché gli scali portuali di Riva Ligure e Santo Stefano servivano anche la città di Taggia, oltre ad essere sede di carico e scarico da parte di navi inglesi e olandesi che commerciavano soprattutto olio, ma non solo: nel 1752, infatti, due patroni locali trasportarono a Genova agrumi e palme per clienti ebrei, che se ne servivano per celebrare la cosiddetta «festa dei tabernacoli».

L’espansione urbana di Santo Stefano aveva intanto raggiunto nel corso del Settecento i limiti del centro storico attuale, come attestato dalla pianta disegnata dal colonnello e cartografo della Serenissima Matteo Vinzoni nel 1773. Il borgo appare dominato dal complesso chiesa-oratorio ed è regolato dal torrione nella zona orientale, con il sobborgo orientale in particolare evidenza e il vasto arenile davanti alla chiesa e nell’odierna piazza Saffi, mentre rimane fuori dalla mappa la regione Canova, che tuttavia, valutate le particolari caratteristiche della stretta via Santa Caterina, perpendicolare alla costa e pavimentata a ciottoli, sembra sia stata stabilmente occupata nei decenni a cavallo tra il Seicento e il Settecento.

Dopo la caduta del regime oligarchico genovese e la nascita della giacobina Repubblica Ligure nel 1797, Santo Stefano fu eretta a capoluogo del Cantone degli Ulivi dipendente amministrativamente da Porto Maurizio nell’ambito di quella che era denominata allora «Giurisdizione degli Ulivi». Anche dopo l’annessione della Liguria all’Impero francese nel 1805, la cittadina mantenne il rango di piccolo capoluogo grazie alla sua posizione centrale fra gli abitati di Villaregia e venne inserita nel Dipartimento napoleonico di Montenotte. Caduto Napoleone, Santo Stefano e il resto della Liguria furono annessi al Regno di Sardegna nel 1815, anno in cui il governo sabaudo eresse il paese a sede di mandamento (con giurisdizione su dieci comuni) e di Pretura (che resterà aperta fino al 1891) nella Provincia di Sanremo, a sua volta compresa nella Divisione di Nizza. Nel 1831 la parrocchia sanstevese passò sotto la giurisdizione della Diocesi di Ventimiglia con tutta la zona più occidentale della Diocesi di Albenga, da Sanremo e San Lorenzo al Mare.

Nel corso dell’Ottocento l’economia locale aveva intanto subito un radicale mutamento dovuto essenzialmente al passaggio da un’economia prevalentemente marittima ad una basata soprattutto sull’agricoltura e la floricoltura. Ancora all’inizio del secolo e fino circa al 1850, l’attività marittima è ancora particolarmente intensa con una quindicina di battelli di grossa portata che fanno la spola con Genova e i porti della Provenza e della Linguadoca, tanto che si può stimare ad oltre cento unità gli addetti alla marineria sanstevese e gli uomini occupati nel cantiere navale; ma la contemporanea retrocessione della linea di battigia andava ormai diventando sempre più minacciosa e il mare aveva corroso le fondamenta di parecchie costruzioni, che sarebbero poi state demolite dal Comune nel 1876, per cui l’antico ampio arenile era di fatto praticamente scomparso, tanto da obbligare lo Stato ad intervenire con opere di difesa e consolidamento dell’abitato per evitare che il mare erodesse troppo le case situate in prossimità della battigia.

Tale situazione portò quindi al potenziamento dell’agricoltura con particolare sviluppo della coltivazione dell’ulivo, tanto che nel 1849 i locali frantoi occupavano nelle buone annate più di duecento persone per il corso di otto mesi; in caso di annate scarse, come spesso accadeva, gli abitanti del paese erano però costretti a cercare lavoro in Francia, dato che le altre colture, tra cui la vite, gli agrumi e gli ortaggi, avevano un’incidenza economica assai limitata. Fu solo verso la fine dell’Ottocento che iniziò ad affermarsi su larga scala la coltivazione dei fiori, che si andò lentamente a sostituire prima l’agrumicoltura e più tardi anche l’olivicoltura, in decadenza dalla fine della prima guerra mondiale. Ma la terra produce anche frumento, orzo, legumi, patate, fieno, vino e limoni. Nel 1853 venne anche scoperto un filone di piombo argentifero che sembrava promettente, ma si rivelò ben presto soltanto superficiale e la miniera si esaurì quasi subito.

Nel corso del periodo risorgimentale si distinsero inoltre alcuni Sanstevesi, tra i quali Giovanni Battista Scovazzi (1808-1893), avvocato, patriota di idee repubblicane, affiliato alla Giovine Italia di Mazzini, prese parte ai moti del 1833, in seguito ai quali venne condannato a morte in contumacia e visse esule in Svizzera, mentre, dopo l’Unità, ricoprì la carica di bibliotecario della Camera dei deputati; il cardinale Pier Francesco Meglia (1810-1883), laureato in Diritto civile e canonico nel 1843, segretario del nunzio apostolico nel Regno delle Due Sicilie (1844) e in Francia (1850), uditore della Nunziatura a Parigi, dove nel 1856 Napoleone III gli avrebbe conferito la Legion d’Onore, arcivescovo titolare di Damasco (1864) e nunzio apostolico in Messico al tempo di Massimiliano d’Asburgo (1864), quindi in Baviera (1865) e ancora a Parigi nel 1874; e il sacerdote Giuseppe Maria Gogioso (1862-1931), professore di lettere al ginnasio-liceo del seminario diocesano, giornalista e scrittore, ma anche musicista di valore, tanto da ricoprire la carica di maestro di cappella del duomo di Ventimiglia ed essere noto per aver composto un oratorio sacro intitolato Suspiria et jubila.

Nel 1860, in seguito alla cessione del Nizzardo alla Francia, Santo Stefano era entrata a far parte della nuova provincia di Porto Maurizio, conservando peraltro il rango di sede mandamentale. Dodici anni dopo si verificò un evento destinato a mutare radicalmente lo spazio urbano e il paesaggio stesso di Santo Stefano: l’apertura della linea ferroviaria Genova-Ventimiglia, che avrebbe determinato un piccolo trauma sotto il punto di vista architettonico tanto che, dovendo il nuovo tracciato attraversare necessariamente via Doria, si dovette procedere alla forzata demolizione di alcune case del vecchio borgo.

La nuova stazione venne costruita a ponente dell’abitato in modo da servire anche Riva Ligure, mentre i binari avrebbero determinato una vera e propria strozzatura del sistema viario che si sarebbe protratta fino all’autunno del 2001, quando sarebbe entrata in funzione la nuova linea ferroviaria a monte, che avrebbe così liberato l’area costiera dopo circa centotrent’anni di frattura tra il mare e l’immediato entroterra determinata dalla presenza della ferrovia. Il 23 febbraio 1887 il paese venne quindi colpito dal terremoto, che, al pari di quello del 1831, lesionò molti stabili e provocò gravi crolli, senza tuttavia causare vittime. Ancora nei primi anni del Novecento la strada litoranea seguiva un antico tracciato che non corrispondeva a quello dell’attuale via Aurelia, il quale venne costruito durante la prima guerra mondiale anche con l’apporto di prigionieri austro-ungarici.

Lo spostamento a monte della litoranea era stato studiato dalla Provincia fin dal 1906, ma solo nel 1911 fu approvato il progetto e nel 1916 stipulata la convenzione con le Ferrovie. La relazione che accompagna il piano, firmata dall’ingegnere capo della Provincia Isnardi, segnò la fine di un’economia basata prevalentemente sulle attività marittime in favore di un sistema che era invece imperniato sulla floricoltura. Il trasferimento della litoranea a monte fu quindi attuato per migliorare la viabilità e agevolare le aziende floricole, mentre poco alla volta furono costruiti nuovi edifici lungo l’Aurelia ponendo così le basi dello sviluppo edilizio ai lati della nuova arteria stradale.

Dopo gli anni della prima guerra mondiale, nel corso della quale caddero diversi militari sanstevesi, poi ricordati nel Monumento ai caduti realizzato da Giovanni Battista Rilla, Santo Stefano assorbì nel 1923 i paesi di Castellaro, Pompeiana e Terzorio, poi tornati comuni autonomi nel 1925, mentre nel 1928 il paese venne fuso con Riva Ligure per formare il Comune di Riva Santo Stefano, che aggregò nuovamente Terzorio e Pompeiana fino al 1954, quando i diversi centri sarebbero tornati a separarsi.

La costituzione di un solo organismo amministrativo aveva tra l’altro imposto la scelta di una sede municipale unica, che però non esisteva ancora e così, anche per lanciare un forte segnale di ripresa economica in linea con la politica autarchica del regime fascista, ne venne costruita una nuova dalle linee sobrie e funzionali, inaugurata nel 1932 e sede pure delle scuole elementari e della palestra dell’Opera Nazionale Balilla. La palazzina, che attualmente ospita soltanto le scuole, sarebbe quindi rimasta sede degli uffici comunali di Santo Stefano fino al 1987, quando il Municipio venne trasferito nella torre in Lungomare D’Albertis.

Il giorno dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, l’8 settembre 1943, la locale compagnia dei cavalleggeri appartenenti al 19° reggimento «Vittorio Emanuele» si sbandò completamente, mentre nella stazione dei carabinieri i quattro militi presenti aderivano alla Repubblica Sociale, cui si aggiunsero nel gennaio 1944 sei brigatisti neri, venti Tedeschi dislocati nella caserma della Guardia di Finanza. Nel successivo mese di agosto quindici bersaglieri si stabilirono poi in località Aregai, altri quindici in località Colma e una compagnia a Villa Dea, dove rimasero fino alla Liberazione.

Il 29 giugno del ’44 una squadra di partigiani appartenenti al 21° distaccamento e guidati da Agostino Garibaldi (Fulmine) effettuò un assalto contro la caserma dei carabinieri di Santo Stefano, i quali non opposero resistenza, mentre il maresciallo comandante la stazione veniva fatto prigioniero e i partigiani potevano prelevare nove moschetti, vari caricatori, una cassetta con venti bombe a mano e cinque pistole. Un’altra azione partigiana venne compiuta il 18 agosto ‘’44, quando una pattuglia del 4° distaccamento della IV Brigata, recatasi a Santo Stefano per attaccare i nazifascisti in transito sulla via Aurelia, sorprese il comandante dei bersaglieri e un tenente dell’Arma mentre uscivano dalla locale caserma dei carabinieri e li uccise dopoché i due ufficiali, contravvenuto all’alt intimato loro dai partigiani, avevano estratto le loro pistole d’ordinanza ed avevano sparato contro la pattuglia.

Nella primavera del 1945 venne anche costituito il CLN di Riva Santo Stefano allo scopo di collaborare più attivamente con le formazioni partigiane nella comune lotta contro i nazifascisti. Il Comitato risultò formato da Cesare Bongiovanni, Giuseppe Camperi, Luigi Ceruetti, Pietro Garibaldi e Giovanni Battista Lombardi. Nei decenni del secondo dopoguerra si è assistito ad una massiccia affermazione della floricoltura, specializzata nella produzione delle talee degli ibridi e di una pregiata qualità di orchidee, la quale ha contribuito a modificare notevolmente il paesaggio, disseminato di serre e vasche di cemento. Negli anni Cinquanta e Sessanta cominciò a svilupparsi anche il comparto turistico, anche se la spiaggia rimaneva una fascia sassosa battuta dalle mareggiate, non esisteva ancora una vera e propria passeggiata continua e la strada litoranea si interrompeva sotto la torre, mentre le strutture ricettive erano limitate ad un solo albergo e a pochi ristoranti, compresi esercizi a parziale carattere stagionale.

Intanto il relativo benessere economico e la contemporanea crescita del numero degli abitanti producevano radicali mutamenti anche in campo urbanistico con la costruzione di numerosi palazzi soprattutto nel periodo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, tanto che dal 1961 al 1981 le case di abitazione sono aumentate del 400%, mentre la popolazione di Santo Stefano, nel giro di cinquant’anni, vedeva praticamente triplicata la sua consistenza passando dai 751 abitanti del 1931 a 2211 del 1981, per scendere poi ai 2073 attuali. Negli ultimi vent’anni sono stati portati avanti dall’Amministrazione comunale grandi progetti di espansione, che mirano a ridisegnare la struttura del territorio allo scopo di fornire nuovi servizi a turisti e residenti.

Uno dei risultati più significativi di questa tendenza è stata sicuramente la realizzazione del grande porto turistico di Marina degli Aregai, attrezzato per ospitare oltre seicento natanti e dotato dei necessari servizi portuali, tra cui uffici marittimi, amministrativi, di sorveglianza, di manutenzione e riparazione e impianti di erogazione del carburante, oltre a capienti parcheggi e ad adeguate strutture ricettive. Oltre all’approdo turistico di Marina degli Aregai sono state anche portate a termine la sistemazione della casa di riposo e la costruzione della passeggiata a mare, del campo sportivo e della palestra.

D’altra parte è in corso da vari anni un sistematico recupero del tessuto antico e delle emergenze artistiche più rilevanti alla ricerca di un rapporto più proficuo e sereno con il proprio passato, che si è esplicato soprattutto con il reimpiego della torre di Lungomare D’Albertis, la pavimentazione del centro storico, il completamento della fognatura e l’allargamento della via litoranea, intrapresi dall’Amministrazione comunale e con il consolidamento di chiesa e oratorio e il restauro di molte opere d’arte ivi conservate da parte del parroco della cittadina”.