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La storia di Riva Ligure nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

7 gennaio 2023 | 09:00
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La storia di Riva Ligure nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

Abitato fin dall’età romana, come testimoniato dall’importante sito di Capo Don e antico possedimento dei marchesi di Clavesana

Riva Ligure. Nuovo appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo che questa volta propone la storia del borgo di Riva Ligure, abitato fin dall’età romana, come testimoniato dall’importante sito di Capo Don e antico possedimento dei marchesi di Clavesana:

“L’abitato di Riva Ligure presenta una disposizione delle vecchie case del suo borgo antico lungo la fascia costiera secondo una direttrice lineare, mentre il settore più recente della cittadina, costituito da numerosi edifici anche di notevoli dimensioni, si è sviluppato nell’immediato entroterra a ridosso dell’attuale percorso della Via Aurelia. L’ingrandimento dell’abitato in tale direzione era reso peraltro obbligato per via della particolare limitatezza della fronte marittima, che comprende poco più di 2300 metri di linea di costa e una piccola superficie territoriale (solo 2,10 chilometri quadrati) del Comune, che confina ad est con Santo Stefano al Mare e a ovest con Taggia.

Per quanto concerne il toponimo, attestato a partire dal XIII secolo nella forma Ripa, esso riflette con ogni probabilità la locuzione ripa maris nel significato di “costa” o “spiaggia”, al quale è stato posposto l’attributo Ligure per distinguerlo dalle altre località italiane che presentano lo stesso nome. Le testimonianze più antiche relative alla frequentazione umana del territorio dell’attuale Riva Ligure sono venute alla luce per la prima volta nel corso degli scavi compiuti dal canonico Vincenzo Lotti nel 1839 nella zona di Capo Don (nei pressi del bivio per Castellaro), dove emerse un ingente materiale di natura archeologica attribuibile all’età tardoantica o medievale, che venne minuziosamente descritto dal prelato in un’accurata relazione della sua campagna di scavi. Ricognizioni più recenti e sistematiche hanno consentito di evidenziare la presenza in loco di un antico insediamento lungo la via Giulia Augusta (la strada romana completata in età augustea che da Roma conduceva ad Arles in Provenza), che presto assunse al rango di mansio, ossia stazione di sosta e ristoro per i viandanti, oltreché luogo di scalo per le merci transitanti sull’importante arteria stradale che collegava le regioni italiche con la Gallia.

Tale area sarebbe stata indicata in età imperiale in documenti come l’Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana, anche come Costa Balenae o Bellene, mentre il modesto agglomerato sviluppatosi attorno alla stazione di transito venne compreso in un’ampia proprietà agricola, denominata fundus Porcianus, i cui limiti costieri erano rappresentati dal torrente Armea ad ovest e dal rio San Lorenzo ad est. Alcuni recenti ritrovamenti archeologici sembrano suffragare inoltre l’ipotesi che nel fundus Porcianus esistesse anticamente un pagus, ossia un piccolo centro originariamente abitato dalla famiglia Porcia, alla quale era affidato il compito di assicurare il libero transito sulla strada consolare e nello stesso tempo di provvedere in maniera pacifica al processo di romanizzazione delle tribù liguri della zona.

L’esistenza di un pagus è ulteriormente confermata dalla presenza di un ponte che doveva servire all’attraversamento del rio Torre e i cui ruderi, ancora visibili, sono costituiti da due pile reggenti la struttura, che sarebbe stata distrutta dagli abitanti del luogo in epoca imprecisata per evitare il transito di qualche orda barbarica o per sfuggire alle incursioni saracene. In ogni caso appare sicuramente provata l’esistenza in età romana della mansio di Costa Balenae o Bellene, sulla cui etimologia sono state avanzate varie ipotesi, tra cui quella che le «Grange», site a ridosso della zona, se, osservate da lontano, raffigurerebbero la testa di una balena, da cui deriverebbe il nome di Costa Balenae, mentre, secondo altri, il toponimo sarebbe ricollegabile al fatto che in tempi remoti si sarebbe arenata sulla spiaggia una grossa balena.

Altri studiosi ancora hanno invece spiegato il nome con la presenza in zona di un tempio eretto in onore del dio celtico della fecondità Belleno, ipotesi basata sui dati riportati nella Tabula Peutingeriana, che indica la località con il nome di Costa Bellene, mentre la teoria che si richiama al cetaceo troverebbe conferma nel fatto che il testo dell’itinerario di Antonino Pio cita la località con il nome di Costa Balenae. Nel corso dell’età romana la stazione militare di Costa Balenae dovette inoltre ricoprire una rilevante importanza anche come scalo commerciale grazie alla presenza di un piccolo porto canale allo sbocco del fiume di Taggia, dove sono ubicati i resti di un’antica muratura lunga un centinaio di metri utilizzata per il traffico commerciale transitante per la mansio posta in diretta comunicazione con la battuta via Giulia Augusta.

Di notevole interesse storico e archeologico è inoltre il complesso cristiano ubicato nella zona di Capo Don, che costituisce il maggiore insediamento di culto tardoantico ed altomedievale della provincia di Imperia, rivestendo una grande importanza non solo per la Liguria di Ponente, ma anche per una più compiuta conoscenza delle forme di cristianizzazione del Mediterraneo nord-occidentale, considerata soprattutto sotto il profilo delle sue componenti rurali. All’interno del sito archeologico rivese spicca in particolare l’ampio nartece, ossia il vestibolo dove si trattenevano nell’età paleocristiana i catecumeni durante la parte sacrificale della Messa, costruito contemporaneamente ad un edificio basilicale a tre navate, nel cui vano centrale fu costruita una vasca ottagonale battesimale.

Terminata la costruzione del battistero, il vano fu pavimentato con un piano di ciottoli posti direttamente nella terra, di cui si conservano alcuni tratti. In un’epoca successiva furono create invece nel vano nord due piccole celle funerarie addossate al muro est, mentre gli scavi condotti nella prima metà dell’Ottocento avevano già portato alla luce due sarcofagi, tradizionalmente ritenuti in pietra del Finale. Altri scavi hanno poi riportato alla luce due tombe a cappuccina di piccole dimensioni, che costituiscono sepolture di bambini, prive di corredo, sulle quali è assai arduo proporre una datazione attendibile. Un altro importante reperto archeologico è costituito dalla struttura absidale della cosiddetta «chiesa ridotta», composta da grossi conci di pietra squadrata legati da malta grigia, mentre la pavimentazione dell’abside è documentata da due piani della copertura del suolo posti in prossimità della curva absidale.

La struttura muraria della chiesa, conservata per una lunghezza di un metro, riutilizza frammenti di laterizi e conci di pietra calcarea, la cui costruzione dovette aver condizionato necessariamente anche la zona absidale, costringendola ad una riduzione dello spazio. Di grande rilevanza è pure la già citata fonte battesimale, la cui struttura, interamente in muratura, è incassata nel terreno, da cui emerge di poco rispetto al piano di pavimento in ciottoli. Il cavo interno, anch’esso di forma ottagonale, ha le pareti verticali, rivestite di intonaco ma prive di qualsiasi traccia di un originario rivestimento in marmo, fatto che ha indotto alcuni ad ipotizzare che la somministrazione del sacramento avvenisse per effusione.

La piscina si trova invece nel nartece della basilica, in asse con il passaggio verso la navata centrale, mentre la posizione del fonte battesimale ha consentito una datazione della costruzione oscillante tra il IV e il VI secolo d.C., in quanto la scelta di un impianto accentrato, in particolare dell’ottagono, risulta assai comune nell’architettura paleocristiana dell’Italia settentrionale dalla fine del IV secolo nell’ambito dell’intensa attività edilizia promossa dal vescovo di Milano Ambrogio e irradiatasi successivamente in Liguria, che era allora posta sotto la giurisdizione della diocesi ambrosiana. Nell’ambiente settentrionale del nartece si è rinvenuta anche un’epigrafe marmorea altomedievale, che rappresenta una stele funeraria in origine verosimilmente infissa verticalmente nel terreno per circa trenta centimetri di profondità. L’epigrafe funeraria annovera inoltre numerose formule contenenti minacce individuali ed estendibili alla famiglia e alla sua discendenza sia per la vita terrena che per l’esistenza ultraterrena per il timore che il sepolcro fosse violato secondo una consuetudine che sarebbe rimasta viva fino al Medioevo inoltrato. Le incertezze linguistiche e le particolarità grafiche portano a datare l’iscrizione rivese al VII secolo, rendendo inoltre probabile una fase di frequentazione dell’intero edificio in un’epoca posteriore a questa data.

Nel corso di uno scavo effettuato nel 1987 è venuta alla luce pure una moneta emessa sotto l’impero di Ottone III, che rappresenta un chiaro indizio della frequentazione, almeno occasionale, del luogo agli inizi dell’XI secolo. Nel nartece è stato anche trovata una fibbia bronzea appartenente ad una cintura risalente con ogni probabilità al VII secolo, mentre nell’ambiente settentrionale dello stesso nartece si conservava uno spesso strato composto dai materiali crollati della copertura, costituito in massima parte da frammenti di tegole e coppi, mattoni e lastre di ardesia e alcune pietre presumibilmente cadute dalla sommità dei muri. Sulla faccia superiore di un frammento, probabilmente di tegola, è impresso un bollo di forma rettangolare con lettere a rilievo il cui testo è «MARI», del quale è tuttavia difficile proporre una valida datazione, anche se tegole bollate riportanti il marchio MARI sono presenti nella fascia costiera del distretto delle Alpi Marittime e della provincia della Gallia Narbonese.

Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente la zona di Costa Balenae fu investita da una serie di violente incursioni barbariche, tra cui quella degli eserciti di Alarico nel 402, quella dei Vandali nel 406 e ancora dei Visigoti, guidati da Ataulfo, nel 409, quando gli stessi Visigoti distrussero anche Albenga e costrinsero le popolazioni locali a trovare rifugio in Sardegna e in Corsica. Nel corso del VI secolo si colloca inoltre, in via peraltro presuntiva, la presenza nel territorio della Villa Matutiana, l’odierna Sanremo, del vescovo di Genova Siro, il quale, dopo aver liberato dal demonio la figlia di un certo Gallione, che svolgeva le funzioni di esattore del fisco nella zona, fu ricompensato dallo stesso magistrato romano con la donazione di una tenuta di sua proprietà situata tra la foce del torrente Argentina e il mare, comprendente quindi la zona di Capo Don.

Tale territorio, il cui toponimo deriverebbe dal donum di Gallione e da Capo San Siro, potrebbe essere stata sede di un’antica cappella dedicata a San Pietro Apostolo, che è tra l’altro espressamente menzionata nel testo della donazione di Gallione ed è forse anche collegabile al già citato battistero attestato nella documentazione venuta alla luce nel sito archeologico di Capo Don; tale chiesetta potrebbe inoltre rappresentare la primitiva chiesa paleocristiana locale, matrice delle successive chiese di San Pietro Apostolo di Castellaro e San Maurizio di Riva Ligure. Dopo un breve periodo di dominazione della zona da parte degli Ostrogoti, il territorio rivese passò sotto il controllo dei Bizantini, che organizzarono la difesa di tutto il litorale tramite la costruzione di numerosi castra, o luoghi fortificati, tra cui il Castrum Tabia, ossia il castello di Taggia.

Ai Bizantini succedettero quindi i Longobardi, che nel 643, sotto la guida di re Rotari, invasero tutta la Liguria, compiendo saccheggi e devastazioni in numerosi centri del Ponente. Nel 773 il territorio ligure fu occupato dai Franchi di Carlo Magno, che lo suddivise in diversi comitati, tra cui quelli di Ventimiglia e di Albenga, corrispondenti grosso modo alle circoscrizioni amministrative delle rispettive diocesi. Nel corso dei successivi due secoli la zona costiera e l’entroterra della Liguria occidentale furono sottoposte ad una serie di violenti saccheggi e ripetute devastazioni da parte di bande di Saraceni, che dovettero devastare quasi sicuramente anche l’odierna Riva Ligure, al pari di vari centri limitrofi quali Santo Stefano, Terzorio, Castellaro, Cipressa e Pompeiana.

Cessata la minaccia saracena con la definitiva cacciata dei pirati musulmani dallo loro base di Frassineto nel 975, l’area del fundus Porcianus riprese lentamente a popolarsi e a riavviare il suo sviluppo economico e sociale, come attestato da un documento del 980, nel quale è riportata la notizia che in quell’anno un gruppo di coloni residenti nella zona, scampati agli eccidi perpetrati dai Saraceni, chiesero al vescovo di Genova Teodolfo di ottenere la concessione in enfiteusi di alcuni terreni per poterli mettere a coltura. Sulla base di un documento redatto nell’agosto del 1029 è possibile inoltre collocare in questa data le prime notizie relative al possesso del monastero benedettino di Santo Stefano di Genova nella zona tra l’Armea e il torrente San Lorenzo; in forza di tale atto, infatti, Eriberto, abate del monastero genovese, concesse a Martino, a Genoardo ai loro figli maschi una terra situata nel fondo Porciano, che i richiedenti promisero di migliorare aumentando la coltivazione della vite e piantando grano, orzo e fave, mentre una parte dei prodotti sarebbe stata devoluta all’abate come canone di locazione.

Nell’ambito della riorganizzazione amministrativa del territorio ligure in tre marche, il vecchio fondo romano di Porciano venne compreso nella marca Arduinica, pervenuta in eredità alla contessa Adelaide di Susa, la quale, con atto del 4 luglio 1049, donò al monastero di Santo Stefano di Genova la zona detta Villaregia che essa possedeva nel fondo Porciano, specificandone anche i confini, che andavano dal fossato di Pompeiana fino al mare da una parte, la terra di San Siro dall’altro lato, l’Alpe di Boccallo verso i monti e di sotto la strada e la spiaggia del mare. Acquisito il nuovo territorio, i monaci di Santo Stefano iniziarono subito a costruirvi una chiesa, dedicata a Santo Stefano, nei cui paraggi cominciarono a radunarsi i pochi abitanti della zona, che da secoli vivevano in casolari sparsi.

Nel corso del XII secolo il possedimento di Villaregia andava intanto ulteriormente ingrandendosi grazie anche alle numerose donazioni di terreni ai monaci benedettini da parte di proprietari di appezzamenti agricoli confinanti, che venivano a loro volta concessi in locazione agli uomini che sempre più numerosi affluivano nella zona. Nella prima metà del XII secolo i Benedettini di Santo Stefano si opposero inoltre con tenacia e determinazione ai marchesi Guglielmo e Bonifacio di Clavesana, eredi della contessa Adelaide, i quali rivendicavano il possesso del territorio di Villaregia, ma i monaci, forti della pergamena del 1049 con cui la contessa aveva donato quel terreno al loro monastero, costrinsero i marchesi di Clavesana a rinunciare alle loro pretese e a riconoscere formalmente, con atto del 23 febbraio 1169, la proprietà al monastero di Santo Stefano.

Tale riconoscimento venne poi riconfermato da Bonifacio di Clavesana in un atto del 29 marzo 1196, in virtù del quale, forse in seguito a nuove contestazioni con l’abate di Santo Stefano, egli ribadì la rinuncia per sé e per i propri eredi ai diritti sulle terre che erano state donate al monastero dalla sua ava Adelaide contessa di Susa. Dopo aver costretto i Clavesana a rinunciare alle proprietà site nel loro territorio e forti anche di alcuni riconoscimenti papali che avevano posto sotto la protezione del pontefice i monaci e il monastero, i Benedettini ripresero con rinnovata energia l’attività di espansione e organizzazione del loro possedimento allo scopo di assicurarsi il diretto sfruttamento delle terre vicine al mare, abbandonando in tal modo le colline che rimanevano spesso incolte oltre ad essere poco redditizie.

È forse proprio in questo periodo che risale la fondazione delle prime case lungo il mare, che dovettero rappresentare il nucleo primitivo degli odierni paesi di Riva Ligure e Santo Stefano al Mare. In particolare si andò gradualmente formando la comunità di Ripie o Ripa, situata sulla riva del mare e dedita alla pesca e ai traffici marittimi. Ai primi del XIII secolo l’abate Guido promosse un ulteriore ingrandimento del principato di Villaregia grazie anche alla cessione al predetto abate, da parte della moglie di Bonaventura Paona, con atto del 24 ottobre 1205, della quarta parte di un mulino sito nel fossato di San Maurizio presso la chiesa omonima, che dipendeva allora dalla chiesa di Lingueglietta e che sarebbe stata poi consacrata chiesa parrocchiale dal vescovo di Albenga Simone il 9 novembre 1242. Lungo la fascia costiera i monaci avviarono inoltre la costruzione di pontili dotati di cantieri navali in grado di consentire il trasporto delle merci e delle persone verso Genova e verso altre località vicine e lontane.

Nel 1217 l’abate Raimondo concesse alle popolazioni da lui dipendenti alcuni capitoli o franchigie, nominando nello stesso tempo un podestà, al quale affidò l’amministrazione della giustizia nei suoi possedimenti, e stabilendo che il popolo di Villaregia prestasse giuramento di obbedire ai mandati dell’abate e del podestà, di recarsi in Parlamento ogni volta che il cintraco lo avesse convocato e di non allontanarsene senza licenza di un podestà o di console, mentre in epoca posteriore l’abate impose ai suoi sudditi di rispettare gli ordini emessi dai consoli o dal podestà nominato dall’abate, di non compiere furti, incendi o guasti, assalti o omicidi, e di non radunarsi in rasse o in compagne senza l’autorizzazione dell’abate e di allontanarsene al più presto se vi avessero partecipato. Il 23 maggio del 1223 tale statuto fu integrato da ulteriori disposizioni, in base alle quali gli abitanti di Villaregia dovettero nuovamente giurare fedeltà all’abate e dichiarare che avrebbero obbedito agli eventuali consoli o rettori o podestà che l’abate avesse nominato in Villaregia, mentre ognuno si impegnava anche a pagare i dazi, le gabelle sull’approdo, il macello, le misure e i pesi e a non interferire nelle questioni giurisdizionali concernenti le terre di proprietà dei Benedettini.

Sempre nel 1223 l’abate Raimondo chiamò ad aiutare i frati nuovi coloni, che furono insediati lungo il lido marino e obbligati a pagare all’abbazia le «regalie di Ripa». Tali coloni dovettero presumibilmente contribuire all’ulteriore ingrandimento del primitivo villaggio esistente in zona, che avrebbe originato il primo nucleo della Riva moderna, la cui esistenza già nella prima metà del XIII secolo pare confermata da un atto di enfiteusi rogato con la mediazione del marchese Bonifacio di Clavesana in una località situata presso Villaregia, in «ripa maris», denominata Benedori, definizione che dura tuttora in quanto esiste ancor oggi un portico, ubicato nella zona orientale di Riva Ligure, che è chiamato il «portico dei Dori».

Nel 1225 l’abate Ambrogio incorporò quindi nel possesso di Villaregia le chiese di San Maurizio e di Santa Maria di Pompeiana per la somma di cento lire, ottenendo dai rappresentanti della chiesa di Albenga tutti i possessi e diritti già goduti dalla diocesi ingauna sulle suddette chiese. L’incorporazione delle chiese di San Maurizio e di Santa Maria di Pompeiana nella giurisdizione spirituale e temporale del monastero conferiva notevole prestigio ai frati benedettini, i quali ormai dominavano una zona che con tale acquisizione oltrepassava il vecchio confine occidentale del fossato di Pompeiana, detto anche di San Maurizio, raggiungendo quello del fossato Pertuso. Verso la metà del Duecento il territorio di Villaregia si estendeva dunque lungo la fascia costiera per un tratto di circa nove chilometri in una zona compresa tra il torrente di San Lorenzo e il fossato del Pertuso (o delle Conche) fino alle pendici del Monte Grange, penetrando inoltre verso l’interno per qualche chilometro.

Il principato benedettino includeva quindi il settore più orientale dell’attuale territorio comunale di Riva Ligure, mentre la zona a ponente del Pertuso era sotto la giurisdizione di Taggia, che era rimasta possesso dei Clavesana fino al 1228. Agli inizi del XIV secolo l’abate di Genova, oberato dai debiti per tante mancate riscossioni, decise di affidare l’amministrazione del territorio di Villaregia a Castellano Doria, appartenente ad una nobile famiglia genovese che in quegli anni era andata acquisendo molti importanti feudi situati nella Liguria occidentale. Non essendo però riuscito a riscuotere quanto sperava, alla fine Castellano rinunciò ai beni che gli erano stati affidati dall’abate ricedendogli quindi non soltanto i diritti di amministrazione e i beni acquistati privatamente, ma anche tutti i crediti che aveva in Villaregia con atto rogato a Genova il 24 settembre 1334 nel palazzo arcivescovile di San Silvestro. L’anno successivo, però, l’abate Guglielmo, sempre più gravato dai debiti, chiese ed ottenne da Lamba Doria un prestito di 2485 lire genovesi, dando in pegno il suo dominio di Villaregia, Cipressa e Terzorio.

Tale debito avrebbe dovuto essere estinto entro il 1335, ma il contratto prevedeva una proroga di nove anni, durante i quali i Doria avrebbero ricevuto i frutti della proprietà benedettina. Il 22 giugno 1335, essendo scaduti i termini, i Doria concessero una nuova proroga, alle condizioni precedenti, che però trascorsero senza che il debito venisse pagato alla scadenza del 12 luglio 1343. Una nuova proroga di sette anni trascorse invano cosicché Lambino Doria e il fratello Nicolò, che avevano ereditato il credito dal padre Lamba, decisero di acquisire definitivamente il possesso di Villaregia e, dopo un’ulteriore proroga di tre anni concessa ai frati, Nicolò Doria, in presenza di un rappresentante di suo fratello Lambino deceduto nel frattempo, acquisì, con atto stipulato il 28 giugno 1353, il territorio dell’ex principato di Villaregia, che fu immediatamente girato dallo stesso Nicolò al Senato di Genova, con cui aveva concluso un accordo preventivo in base al quale egli avrebbe ceduto alla Repubblica tutti i diritti, ragioni e azioni che gli competevano su tutta la proprietà ponentina ricevendo in cambio il suo credito.

Villaregia e i suoi possedimenti contigui vennero così suddivisi in quattro paesi, tre dei quali passarono sotto il diretto controllo genovese esercitato tramite il podestà di Porto Maurizio, mentre il quarto, ossia Riva Ligure, fu aggregato al Comune di Taggia anche in considerazione dei notevoli rapporti economici che da molto tempo intercorrevano tra le due località, tanto che già in atti del 1196 il paese era definito «in Ripa Tabiae» e ancora con tale denominazione in molti altri documenti successivi.

Un consistente traffico commerciale si stava infatti sviluppando nell’imbarco di Riva, anche perché la via di comunicazione preferenziale verso il mare di Taggia era orami già da diversi secoli quella che correva lungo la sponda sinistra del torrente Argentina, In base a queste condizioni, a partire dal 1353 l’amministrazione di Riva passò sotto il controllo del podestà e degli anziani di Taggia, rimanendovi quindi sino alla ripartizione attuata dalla Repubblica Ligure il 30 maggio 1798, tranne un breve periodo in cui il paese si amministrò autonomamente dal 17 marzo 1551 al 18 febbraio 1552. Del resto, gli interessi reciproci tra le due località erano assai rilevanti soprattutto sotto il profilo economico in quanto Taggia aveva bisogno dell’imbarco di Riva per i suoi commerci di legnami, olio e vini, mentre Riva necessitava del legname dei boschi di Taggia per le sue costruzioni navali e per la sua produzione di botti, che costituì per diversi secoli una delle principali attività economiche del borgo.

Nel corso del Cinquecento anche la zona di Riva dovette fronteggiare il pericolo rappresentato dalle incursioni dei Barbareschi, che provocarono danni e devastazioni lungo l’intera Riviera di Ponente. Il 28 giugno 1551 Riva venne saccheggiata e incendiata dai pirati turchi capeggiati da Dragut, che ridussero in schiavitù quasi tutti i giovani del paese, mentre, grazie all’aiuto dei Taggesi, l’incendio fu spento e gli abitanti vennero soccorsi e trovarono alloggio a Taggia. Dopo essere stata ristabilita la sicurezza costiera, anche tramite la costruzione di una torre di difesa nella parte occidentale dell’abitato eretta nel 1565, il borgo conobbe un periodo caratterizzato da un certo dinamismo economico e demografico, che si sarebbe protratto per tutta l’età moderna. Frattanto, per fissare definitivamente le linee di demarcazione con le località limitrofe, il parroco della chiesa di San Maurizio di Riva incaricò nel 1599 il notaio Giovanni Maglio di compilare un atto pubblico per la definizione dei confini della sua parrocchia, allo scopo di poter stabilire la ripartizione dei diritti di decima tra i suoi parrocchiani.

Tale atto venne reso pubblico e formalmente accettato il 17 ottobre 1599 alla presenza del podestà di Taggia Francesco Soprani, dei delegati di Riva nel consiglio di Taggia e di almeno i due terzi della popolazione di Riva. In base alla delimitazione della linea confinaria Riva era quindi interamente compresa nel territorio del Comune di Taggia come pure circa un terzo del comune di Pompeiana. L’unione di Riva con Taggia era peraltro determinata da motivi di carattere soprattutto economico in quanto i Rivesi, dediti in gran parte alla costruzione di barche da pesca o di velieri e alla produzione di botti e barili, necessitavano per queste loro attività dei legnami pregiati di abete e di rovere, che allora prosperavano nei boschi di Giancolareo, di Ginestro e del Cian de Cae, tutti di proprietà del Comune di Taggia. Del resto, il mare di Riva Ligure, dopo la distruzione di Arma nel 1240, era diventato la base commerciale principale per l’imbarco di olio e di legnami provenienti da Taggia, che poteva così usufruire di un accesso più comodo e agevole verso il mare lungo la strada sul lato di levante del torrente Argentina.

Comunque, fino a quando non si completò del tutto lo sviluppo di Arma in seguito soprattutto all’ultimazione della via carrozzabile nel 1793, Riva rimase lo scalo marittimo preferenziale di Taggia, come si può desumere anche dal nome del centro, oscillante per un certo tempo tra quello di «Riva Santo Stefano» (come è ricordato nella caratata del 1531) e quello di «Riva di Taggia» (che viene riportato nella Cronaca di Padre Calvi esattamente come «Ripa Tabie»). Il primo di tali toponimi indica chiaramente l’antica unità del paese con Santo Stefano nell’ambito del dominio benedettino di Villaregia durato oltre tre secoli, mentre il secondo sottolinea la stretta dipendenza di Riva, soprattutto sotto il profilo economico e commerciale, con il capoluogo della bassa Valle Argentina, i cui traffici e scambi con i vari centri della Liguria e della Provenza erano allora particolarmente fiorenti. L’importanza di Riva come approdo di Taggia è inoltre evidenziata dal numero particolarmente consistente di imbarcazioni con stazza variabile dalle 75 alle 200 tonnellate che nel corso del XVII e del XVIII secolo trasportavano i prodotti della zona (vino e soprattutto olio) anche verso porti lontani, tra cui anche quello che serviva Roma.

Nella prima metà del Settecento Riva Ligure era un centro particolarmente fiorente dal punto di vista economico e i suoi abitanti erano piuttosto agiati in un ambiente tutto sommato tranquillo che fu vivacizzato nel settembre del 1714 dal passaggio in paese della duchessa Elisabetta Farnese in viaggio verso la Spagna per sposarsi con Filippo V. La duchessa fu ospitata dalla nobile famiglia Lombardi con tutti gli onori per un’ospite così illustre alla quale vennero offerti frutta e dolci nella casa ornata per l’occasione con preziosi damaschi, mentre anche le strade di Riva vennero addobbate con arazzi alle finestre e luminarie. Pochi anni dopo le autorità locali ritennero giunto il momento di sistemare la strada che correva lungo l’argine di levante tra il ponte romano e la strada litoranea, gravemente danneggiata dalla caduta di frane e dal cedimento di piccoli ponti sui torrenti.

Con disposizione emanata il 13 luglio 1738 dal commissario straordinario Francesco Maria Spinola furono decisi i lavori da fare e le somme da pagare per gli espropri e per il taglio degli alberi, necessari per l’adeguamento della strada per Riva alle esigenze di un comodo passaggio per mezzi e persone. Dopo l’invasione della Liguria occidentale da parte delle truppe rivoluzionarie francesi al comando del generale Massena nell’aprile del 1794, anche per Riva iniziò il periodo di occupazione francese, che si sarebbe protratto con alterne vicende per circa un ventennio. Dopo la fondazione della Repubblica Ligure, il paese entrò a far parte del cantone di Taggia, che, in esecuzione della legge costituzionale del 18 aprile 1798, venne aggregato alla nuova provincia, denominata Giurisdizione delle Palme, con capoluogo Sanremo. In seguito all’annessione della Liguria all’Impero francese nel 1805, Riva entrò quindi a far parte del Dipartimento di Montenotte, il cui prefetto Chabrol de Volvic ci ha lasciato una serie di dati statistici assai interessanti su Riva, dai quali emerge che gli addetti alla marineria nel 1812 erano solo 18 su circa 250 uomini in età da lavoro, mentre esisteva un cantiere in grado di costruire soltanto piccoli battelli nella zona dell’approdo, da dove venivano effettuati ogni anno circa una dozzina di viaggi da e per Genova e la Provenza; sempre dai dati raccolti dal prefetto Chabrol si apprende la consistenza della popolazione rivese nei primi anni dell’Ottocento, ammontante a 713 abitanti, quasi tutti agricoltori o mulattieri, che sarebbero poi passati a 923 al tempo del primo censimento del Regno d’Italia nel 1861.

Dopo la caduta di Napoleone Riva venne annessa con il resto della Liguria al Regno di Sardegna nel 1815, entrando a far parte della Divisione di Nizza, ceduta la quale alla Francia nel marzo del 1860, passò sotto l’amministrazione della nuova provincia di Porto Maurizio. Lievemente danneggiata dal terremoto del 23 febbraio 1887, dopo il quale cinque Rivesi ottennero dallo Stato un mutuo pari a 6650 lire, Riva Ligure contò diversi caduti sul fronte italiano nel corso della prima guerra mondiale. Nell’ambito della successiva riorganizzazione amministrativa attuata dal regime fascista nel 1928, il paese venne aggregato a quello di Santo Stefano al Mare per formare il nuovo Comune di Riva Santo Stefano, che comprendeva anche i Comuni di Terzorio e Pompeiana in un’ampia circoscrizione che sarebbe stata tuttavia sciolta nel 1954, quando Riva Ligure tornò ad essere un comune autonomo.

Durante la guerra di Liberazione operò nella zona un distaccamento della IX Brigata d’Assalto Garibaldi «Felice Cascione», al comando di Ermanno Martini (Veloce) coadiuvato dal commissario Domenico Giordano (Jacopo), mentre il paese veniva stabilmente occupato da un gruppo di nazifascisti, che vi sarebbero rimasti fino alla liberazione rendendosi responsabili di numerosi saccheggi, violenze e rapine. Tra i vari episodi del periodo di occupazione si segnalano il rastrellamento di sessanta civili avvenuto a Riva ai primi di novembre del ’44 e il prelevamento di una grossa cassa di bombe a mano in un deposito nemico portato a termine il 7 dicembre 1944 da alcuni garibaldini del distaccamento di Maurizio Massabò (Italo) in missione a Riva Ligure. Nella primavera del 1945 venne inoltre costituito il CLN locale, formato da Cesare Bongiovanni, Giuseppe Camperi, Luigi Ceruetti, Pietro Garibaldi e Giovanni Battista Lombardi, che collaborò fattivamente con le formazioni partigiane fino alla Liberazione.

Nei decenni successivi alla fine della guerra il paese registrò un notevole sviluppo soprattutto sotto il profilo economico con un incremento delle tradizionali attività del comparto agricolo, e in particolare floricolo, che conta numerose aziende dedite alla coltivazione floreale in terreni irrigui, dai quali si ricavano molte specie di fiori, che vengono commercializzate o direttamente al mercato di Sanremo o tramite spedizionieri locali; il periodo di massima attività del commercio floricolo va da metà settembre a fine giugno, dato che nella stagione estiva si esportano solo fronde verdi ornamentali e non fiori recisi. Per quanto concerne le attività industriali rivesi, si segnalano in modo particolare l’edilizia, impegnata in lavori di ristrutturazione e restauro, la cantieristica e il settore dell’artigianato, con la presenza di diversi fabbri, falegnami, riparatori di auto e macchine agricole, addetti alla costruzione di serre metalliche, ecc., oltre ad una piccola azienda che produce teli di plastica per serre e sacchetti contenitori per fiori.

In netta ripresa è anche la situazione del settore terziario, sviluppato in tempi recenti in modo particolare nel comparto commerciale, considerata la funzione eminentemente di tipo commerciale svolta dal centro di Riva Ligure anche per la popolazione di Santo Stefano e di Pompeiana, mentre mancano quasi del tutto gli esercizi alberghieri con la presenza di pochissime strutture alberghiere in grado di soddisfare adeguatamente una numerosa clientela turistica, e di alcuni ristoranti. Tale situazione è però controbilanciata dal sempre più consistente incremento delle residenze secondarie, che vengono utilizzate dai proprietari nei periodi di ferie e nei fine settimana.

Per venire incontro alle esigenze dei turisti e dei residenti, l’Amministrazione comunale ha inoltre portato a termine negli ultimi anni numerose opere pubbliche di grande importanza, come l’edificazione di una palestra, la nuova pavimentazione delle vie del centro, la sistemazione del lungomare e la costruzione del ponte sul rio Santa Caterina. Altre opere eseguite in tempi recenti sono la sistemazione della biblioteca comunale, il rifacimento con lampade in stile dell’impianto di illuminazione del centro storico, la costruzione della vasca di accumulo per l’acqua potabile con una capacità di 2000 metri cubi e l’impianto di metanizzazione dell’abitato, mentre è in fase di avanzata progettazione un nuovo acquedotto e una nuova sede per la scuola media. Grande pregio di Riva Ligure è inoltre quello di aver conservato il tradizionale borgo ligure costiero, senza dunque la presenza di un’invadente e caotica cementificazione nella zona del centro storico, in piena sintonia con una più attenta e consapevole politica di rispetto del patrimonio ambientale e paesaggistico da parte degli amministratori locali”.