Omicidio a Ventimiglia, fissato l’Appello per Domenico Pellegrino
Condannato in primo grado a 20 anni dal gip di Genova
Ventimiglia. E’ stato fissato per il prossimo 17 gennaio il processo in Corte di Assise d’Appello nei confronti di Domenico Pellegrino, 24enne di Bordighera condannato in primo grado, il 12 aprile scorso, a 20 anni di carcere per l’omicidio del pregiudicato sessantenne italo-francese Joseph Fedele.
Pellegrino, difeso dall’avvocato Luca Ritzu, era finito a processo con l’accusa di omicidio volontario con l’aggravante del metodo mafioso e del porto abusivo di armi per l’assassinio di Fedele, ucciso a colpi di pistola: delitto che il 24enne aveva poi confessato ai carabinieri, quando ormai gli investigatori erano sulle sue tracce. Il corpo della vittima fu trovato il 21 ottobre del 2020, in una scarpata di frazione Calvo, a Ventimiglia. Secondo quanto ricostruito in sede di autopsia da parte del medico legale Luca Tajana, Fedele venne ucciso nel luogo in cui fu ritrovato il corpo, con due colpi di pistola di calibro diverso alla fronte e alla nuca. Quest’ultimo, definito “colpo di grazia”, venne esploso, secondo la pubblica accusa sostenuta dal pm della Dda di Genova Marco Zocco, quando Fedele venne fatto inginocchiare: questo il motivo per cui a Pellegrino è stata contestata l’aggravante della matrice mafiosa.
Nelle motivazioni della sentenza di condanna, depositate il 7 luglio, il giudice del Tribunale di Genova Cinzia Perroni ha smontato la ricostruzione della dinamica dell’omicidio: «Dal momento che la ricostruzione della dinamica dell’azione omicidiaria fornita dal Pellegrino, unico soggetto che poteva riportarla secondo verità essendone l’autore – scrive il gip – Oltre a non essere fornita di alcun riscontro non collima neppure con le emergenze di indagine, non resta che prendere atto degli elementi oggettivi ed inconfutabili che gli accertamenti hanno rivelato a partire dagli esiti dell’esame autoptico, che ha ricondotto l’azione omicidiaria a due colpi di arma da fuoco uno a vertice del capo ed uno alla nuca (oltre ad un terzo colpo verosimilmente al collo); non essendo possibile che in rapida successione la vittima sia stata attinta prima al vertice e poi da dietro alla nuca (come sostenuto dall’imputato) in un ambiente ristretto come l’abitacolo di quel furgone e soprattutto secondo la ricostruzione offerta dall’imputato, deve ritenersi che l’omicidio sia avvenuto fuori dal furgone».
L’omicidio, dunque, non sarebbe avvenuto nel furgone per legittima difesa, come sostenuto da Pellegrino, ma nella campagna di Calvo dove il corpo di Fedele è stato ritrovato. Un omicidio che il giudice descrive come una vera e propria esecuzione. «Ritiene questo Giudice, quindi – si legge negli atti – Che il luogo di campagna isolato dove è stato condotto il Fedele e dove si è consumato l’omicidio, le sedi corporee attinte dai colpi d’arma da fuoco, al vertice del capo e dietro la nuca, che rendono verosimile che il Fedele sia stato fatto inginocchiare, ed il successivo occultamento del cadavere all’interno di un grosso tubo al di sotto del manto stradale (circostanza che depone per una pregressa conoscenza dell’esistenza di tale grosso tubo, non potendosi francamente pensare che il Pellegrino si sia messo a cercare in quelle circostanze anche il luogo più idoneo allo scopo), siano modalità complessivamente rievocative di una sorta di esecuzione». E ancora: «Tali modalità esecutive si conciliano, peraltro, sia con il contesto familiare del Pellegrino, i cui più stretti familiari sono stati condannati per appartenenza alla ‘ndrangheta, cosa di cui peraltro il Pellegrino avrebbe sin da subito messo a conoscenza il Fedele dicendogli che il padre era stato arrestato nel processo “La Svolta” ben noto nella zona di Ventimiglia come il processo alle locali della ‘ndrangheta, e quindi presentandosi a lui come soggetto ben inserito in un contesto mafioso altamente pericoloso, sia con lo stesso contesto in cui operava la vittima, interessata personalmente in indagini relative al narcotraffico sia in Francia che in Calabria, e con affini in contiguità con una famiglia vicina alla stessa locale ‘ndraghetista di Ventimiglia».
Nemmeno il movente fornito da Domenico Pellegrino, ovvero la compravendita, non andata a buon fine, di un’auto in possesso di Fedele ha convinto il giudice genovese. «Il movente dell’omicidio fornito dal Pellegrino non ha trovato alcun conforto probatorio – scrive il gip – Gli elementi sopra indicati, unitariamente valutati, riconducono l’omicidio ad un contesto certamente illecito, tanto da non poter essere rivelato, con altissima probabilità legato alla criminalità organizzata ed in particolare all’ambiente delinquenziale dedito al traffico di stupefacenti; ciò appare avvalorato da una conversazione che allude alla influenza esercitata sull’imputato da un esponente di spicco della famiglia Pellegrino e dai contatti avvenuti proprio a cavallo dell’omicidio tra il Pellegrino Domenico ed alcuni membri della famiglia».
Questi i motivi per cui al giovane non sono state concede le attenuanti generiche: «Tenuto conto del comportamento tenuto dallo stesso (Domenico Pellegrino, ndr) dopo la commissione del gravissimo delitto e quindi in sede processuale; ed invero l’imputato sin dalla commissione dell’omicidio non ha mai mostrato alcun pentimento e neppure un sentimento di pietas verso la vittima dapprima occultando il cadavere del Fedele ed eliminando le tracce che potessero ricondurre il delitto alla sua persona e depistando le indagini, e quindi cercando con l’ausilio del Condoluci e dei propri familiari di confezionare una versione di comodo, per elidere le conseguenze del suo gesto, come poi ha effettivamente fatto; neppure in sede processuale il suo comportamento è mutato, laddove ha reso dichiarazioni confessorie inventandosi un movente e spingendosi sino ad attribuire alla vittima comportamenti ed azioni per poter alleggerire le proprie responsabilità, non mostrando sino alla fine alcuna resipiscenza rispetto al grave crimine commesso ed imponendo sino alla fine accertamenti ed approfondimenti tecnici ulteriori, aggravando quindi anche l’iter processuale».