Civezza nel racconto dello storico sanremese Andrea Gandolfo

Le sue origini risalgono al periodo della tarda romanità e che è stato per secoli dominio del comitato di Albenga
Civezza. Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata agli approfondimenti storici a cura dello storico sanremese Andrea Gandolfo. . Questa nuova puntata riguarderà la storia del borgo di Civezza le cui origini risalgono al periodo della tarda romanità e che è stato per secoli dominio del comitato di Albenga.
L’abitato di Civezza si distende sulla sommità di uno stretto e piatto colle del versante orografico sinistro del San Lorenzo, allungandosi su uno dei contrafforti che si staccano dal Monte Faudo, all’altitudine di 225 metri sul livello del mare in mezzo a una ricca distesa di ulivi digradante verso il fondovalle. Il borgo si presenta a sviluppo lineare lungo un percorso matrice di crinale, organizzato sulla sommità, quasi di natura pianeggiante, di uno sperone che domina da sinistra il fondovalle del rio San Lorenzo in posizione privilegiata non soltanto sotto il profilo panoramico ma anche, e soprattutto, dal punto di vista strategico-logistico. L’analisi della pianta del paese, ben conservato nella struttura urbanistica, permette di evidenziare il nucleo centrale del borgo che, seppure perfettamente legato al resto dell’impianto urbanistico, ha i caratteri organici della forma conchiusa e autosufficiente, soprattutto nella strutturazione viaria che si irradia a nastri paralleli per raccogliersi a «fuso» alle due estremità opposte dell’abitato. A questa parte più antica del paese, che risale all’epoca medievale come attestato dai tipi edilizi elementari, si affianca un nucleo più recente, organizzato con un criterio diverso rispetto al percorso della matrice unificante lungo il crinale, che si è sviluppato in un periodo posteriore alla seconda metà del XVI secolo dopo i drammatici anni delle incursioni barbaresche. L’ultima fase dell’espansione di Civezza risale invece al tempo della costruzione della parrocchiale, la quale, costruita in posizione relativamente isolata e rivolta al territorio aperto, conclude paesisticamente il profilo dell’impianto urbano. Per quanto concerne il toponimo, la sua più antica attestazione, contenuta in fonti medievali del XIII secolo e precisamente in atti del 1225 e del 1241, si riferisce tuttavia al torrente San Lorenzo, denominato aqua Civetie, che divideva il territorio di Santo Stefano di Villaregia da quello di Porto Maurizio. Al 1353 risale invece un altro atto che riporta la locuzione aquaCivecie, mentre assai più tardi sarebbe comparsa anche la forma Civetia, attestata in documenti notarili del 1776. Il toponimo, probabilmente più antico del periodo bassomedievale, come confermato dalla dizione locale Sivésa, non sembra avere rapporti con il latino clivus (pendio), ma potrebbe essere collegato con il nome gentilizio romano Civicius in qualità di prediale senza suffisso, da cui pure Civicione, forma medievale di Cissone, Sivizzano e Sivizzo. L’aggettivo etnico Sivesenchi, che si è formato certamente al più tardi nel XII secolo, richiama invece altri etnici della Liguria occidentale, mentre resta incerto se il suffisso derivi da un suffisso preromano o da uno germanico. L’alternanza tra il nome Civecie e Sivésa ha prodotto infine nei documenti storici relativi al paese l’oscillazione grafica tra la forma Civezza e quella Civessa.
Le testimonianze relative alla preistoria e alla romanità nel territorio di Civezza, al pari degli altri centri delle valli imperiesi, sono molto rare in quanto la diffusione umana in queste zone deve aver inciso più profondamente il territorio nascondendo, molto più che altrove, le tracce dei precedenti insediamenti. A parte il tracciato dell’antica strada romana, non possediamo infatti alcuna testimonianza relativa alla valle del San Lorenzo nell’Alto Medioevo, come d’altronde sono ben rare anche quelle concernenti la vicina area di Porto Maurizio, dove l’omonimo borgo si sarebbe presumibilmente formato tra il sesto e il settimo secolo in funzione del relativo scalo marittimo che serviva il presidio e le fortificazioni bizantine. È quindi nel contesto della Provincia Maritima Italorum o, più probabilmente, nel periodo della romanità tardoimperiale, che si deve collocare la fondazione del primitivo insediamento dell’odierna Civezza forse da parte di un agiato proprietario terriero romano, il quale impiantò in una zona ben più ampia dell’attuale territorio comunale del paese, un fondo rustico comprendente con ogni probabilità l’intera valle del San Lorenzo. Tale insediamento era probabilmente ubicato nei pressi dell’Oratorio di San Salvatore, cioè ai margini della via romana, dove il ritrovamento di un tegolo adoperato nelle sepolture tardoantiche «a cappuccina» parrebbe confermare l’utilizzo di questo sito in età tardoromana e altomedievale. La strada costituisce infatti il legame tra le abitazioni rustiche dei villici, le sepolture e, dopo la diffusione del cristianesimo, il luogo del culto da parte dei fedeli del comprensorio. Dopo il periodo delle scorrerie dei Vandali, il primo nucleo abitato di Civezza passò sotto il dominio dei Bizantini e quindi sotto quello dei Longobardi e infine dei Franchi, che procedettero ad una vasta riorganizzazione del territorio. Nel corso del X secolo il paese, che sorgeva probabilmente nei pressi del mare, venne ripetutamente saccheggiato e distrutto dai Saraceni, che costrinsero gli abitanti del borgo a fondarne un altro in posizione più elevata e protetta da eventuali incursioni con evidente funzione difensiva, che sarebbe rimasta intatta per tutto il periodo medievale e anche nell’età moderna. Nel 950, quando ancora i Saraceni imperversavano sul territorio ligure, il re d’Italia Berengario II, subentrato a Lotario, figlio del marchese di Provenza Ugo, suddivise il suo regno in marche e in comitati, cosicché il territorio portorino fu sottoposto al marchese Arduino e inserito nel comitato di Albenga. Sconfitti i Saraceni, i marchesi si accinsero allora a ripopolare i territori abbandonati, ricercando l’appoggio politico, amministrativo ed economico delle nuove fondazioni monastiche, rappresentanti la nuova espressione della rinascita religiosa dell’XI secolo, alle quali vennero infeudate grandi porzioni del territorio ligure e piemontese affinché le rendessero produttive colonizzandole mediante lo stanziamento dei loro famuli destinati alla coltivazione delle terre.
Fu così che tra il 1028 e il 1064 una parte del territorio di Porto Maurizio e le due corti del Prino e di Caramagna vennero sottoposte in parte al monastero femminile delle Benedettine di Caramagna in Piemonte e in parte al monastero benedettino dell’isola Gallinaria, anche se tali donazioni rimanevano ancora sotto la giurisdizione formale della contessa Adelaide di Susa, alla cui morte, nel 1091, tutti i suoi possedimenti furono rivendicati dai marchesi di Clavesana, eredi della defunta Adelaide. Il 17 maggio 1103 il vescovo di Albenga Aldeberto, approfittando dell’instabilità venutasi a crare nella marca a causa del vuoto di potere seguito all’estinzione degli Arduinici, decise di consolidare le sue proprietà nel territorio portorino affittando per due solidi annui al monastero di Lérins la gestione religiosa e temporale di cinque chiese situate nella curia del Prino, cioè San Maurizio di Porto Maurizio, Santa Maria dei Piani, San Giorgio di Torrazza, San Tommaso di Dolcedo e San Gregorio di Pietrabruna. Non si trattava però di una vera e propria investitura feudale che comportasse la giurisdizione civile su quel territorio, che peraltro non apparteneva al vescovo di Albenga bensì ai Clavesana, ma piuttosto di un’investitura di diritto privato con la quale il vescovo ingauno dava in concessione all’abate Ponzio di Lérins delle proprietà ecclesiastiche indipendentemente dal fatto che queste fossero appartenute alla circoscrizione diocesana su cui il presule esercitava la giurisdizione ecclesiastica. Dalla chiesa di San Giorgio di Torrazza, che fu consacrata nel 1001, dipendevano in particolare la chiesa succursale di San Bartolomeo di Caramagna e quella di San Marco di Civezza, la cui dipendenza giuridica dalla chiesa di San Giorgio è il motivo per cui queste non state menzionate nell’atto vescovile del 1103. Nel periodo di tempo compreso tra il X e il XII secolo il borgo di Civezza doveva dunque essere già completamente formato ed era circondato da altri paesi, tra i quali, oltre a Torrazza, Dolcedo e Pietrabruna, già citati nel 1103, vi erano pure i borghi di Boscomare e Lingueglietta, comparsi per la prima volta negli atti notarili del 13 aprile 1153, in forza dei quali il vescovo di Albenga Odoardo infeudò il nobile Anselmo de Quadraginta della riscossione delle decime che gli abitanti di questi paesi dovevano alla Curia vescovile albenganese. La prima attestazione del toponimo, risalente al 1225 e riferita unicamente al torrente (aqua Civicie), costituisce un’ulteriore conferma della presenza di un nucleo abitato stabile, in quanto nei secoli bassomedievali aqua era il termine corrente per indicare i corsi d’acqua che prendevano il nome dalla città o dal paese più importanti nei cui pressi scorrevano. Tra questi toponimi si annoverano quindi nella Liguria di Ponente l’aqua Finarii, il flumen Arocia, l’aqua Unelie, il fluvius Tabia, l’aqua Armedana,l’aqua Sancti Romuli e il flumen Rodorie, la cui esistenza è documentata all’incirca contemporaneamente a quella di Civezza, dove l’idronimo aqua Civecie, che identifica il territorio civezzino, attesta inconfutabilmente come, nel primo quarto del XIII secolo, il borgo fosse esistito già da tempo in quanto il relativo toponimo non indicava tanto l’«acqua» o «torrente Civezza», ma piuttosto l’«acqua» o «torrente di Civezza».
La tradizione ottocentesca sulle origini di Civezza vuole peraltro che il borgo sia nato dalla fusione di quattro «quartieri» o nuclei demici, costruiti ciascuno attorno alle antiche cappelle di San Salvatore, di San Rocco, di San Sebastiano e della Madonna delle Grazie, per iniziativa di tre fuorusciti veneziani, Arrigo, Ricca e Dolce o Dolca, i quali, dopo essere stati esiliati in quanto sospettati di aver congiurato contro il governo della Repubblica di San Marco, ripararono prima a Genova, indi a Savona, poi a Porto Maurizio e infine nel territorio civezzino, dove avrebbero fondato il nucleo primitivo del futuro paese. Sempre secondo la tradizione, i tre veneziani sarebbero giunti nella zona di Civezza tra il IX e il X secolo, cioè prima delle scorribande dei Saraceni, in seguito alle quali Arrigo, Ricca e Dolce avrebbero ricostruito il borgo su una collina sovrastante, che munirono anche di cinque torri di difesa e avvistamento. Tale presunta «fondazione» di Civezza non trova comunque alcun riscontro documentale nell’ambito della toponomastica locale in quanto, a differenza di molte altre località dei terzieri di Porto Maurizio, gli stanziamenti monofamiliari di Civezza, che sarebbero stati originati dai tre veneziani, non hanno preso il nome da questi primi abitanti, senza considerare il fatto che i nomi Arrigo e Ricca sono di chiara origine germanica, mentre il nome Dolca o Dolce sembra derivare piuttosto che da una famiglia della lontana laguna veneziana dalla ben più vicina Dolcedo, se è attendibile l’identificazione di questo paese con la Villam de Dulce indicata nella bolla di papa Onorio III tra le proprietà del monastero di Santa Maria di Caramagna in Piemonte il 17 agosto 1216, oppure si tratti invece della trasposizione italiana del termine dialettale Dorca e della corrispondente forma latina medievale, divenendo successivamente soprannome e infine cognome. Nel corso del XII secolo si era intanto verificato il passaggio dal dominio feudale alle libertà comunali da parte della comunità di Porto Maurizio, la cui struttura amministrativa fondata sulla base territoriale dell’antica pieve di Santa Maria dei Piani cedette la sua primazia nel terzo decennio del XIII secolo al castrum di Porto Maurizio, dove il vescovo di Albenga aveva infeudato ai marchesi di Clavesana la riscossione delle decime ecclesiastiche. Da parte dei monaci benedettini, che tentavano di recuperare la loro giurisdizione su ampie porzioni del territorio portorino, partì invece la richiesta alla Santa Sede di ottenere la protezione pontificia sui loro possedimenti, la quale fu accordata nel 1123 da papa Callisto II e riconfermata da papa Alessandro III nel 1169, limitatamente alla metà di Porto Maurizio. Frattanto, nel 1161, gli uomini di Porto Maurizio si erano liberati dal vincolo feudale verso i Clavesana dietro la corresponsione di un canone annuale pari a 200 lire genovesi. A tale obbligo i Portorini tentarono comunque di sottrarsi dando così la possibilità a Genova di ergersi ad arbitro, come di fatto avvenne nel 1169 su richiesta degli stessi Clavesana.
Nel corso del XII secolo si pervenne all’unione dei tre terzieri presenti sul territorio portorino nella «Magnifica Comunità di Porto Maurizio», nella cui giurisdizione entrò a far parte anche Civezza nell’ambito del terziere di San Giorgio. La lunga lotta del libero comune di Porto Maurizio contro i Clavesana e il comune di Genova per raggiungere la completa autonomia politica e amministrativa passò attraverso le minacce di guerra contro i Portorini da parte dei Genovesi nel 1184, la convenzione «obbligata» contratta con Genova il 24 gennaio 1200, la rivolta antifeudale del 1204 e infine la vendita al comune di Genova, il 1° giugno 1228, degli ultimi diritti feudali goduti dai Clavesana. Tali avvenimenti ebbero come conseguenza il graduale passaggio della comunità di Porto Maurizio nell’orbita del dominio genovese al pari di molte altre località vicine della Riviera di Ponente. Dall’inizio del Duecento, nel governo della communitas di Porto Maurizio, era intanto subentrato ai consoli dei placiti il podestà forestiero, che era coadiuvato da otto anziani, sempre però suddivisi nella formula 4/2/2 tra i terzieri di San Maurizio, San Giorgio e San Tommaso. L’innovazione, che tra l’altro rappresenta un chiaro sintomo della sempre maggiore pressione genovese sui paesi rivieraschi, causò gravi discordie tra i terzieri, che risolsero le reciproche vertenze tramite compromessi, i quali tuttavia non soddisfecero i terzieri di San Giorgio e di San Tommaso. Già a partire dal 1173 era stato frattanto raggiunto un accordo con i Ventimiglia, signori della media e alta Valle Argentina, che concessero agli uomini di Porto Maurizio il diritto di pascolare le greggi, tagliare la legna e falciare il grano nel territorio di Montalto e Badalucco, che condivisero da quel momento una zona comune con i Portorini, la quale portò anche all’instaurazione di stretti scambi culturali e commerciali soprattutto con Civezza e Dolcedo. Nei decenni successivi proseguirono inoltre i tentativi di rivolta dei Portorini nei confronti della Repubblica di Genova, la quale, con i patti dell’8 marzo 1241, impose al comune di Porto Maurizio lo status di città «convenzionata» con Genova, mantenendo tuttavia una certa autonomia amministrativa. Nel 1252 era intanto sorto, in contrasto e concorrenza con il piccolo insediamento e scalo dei potenti signori di Lengueglia, sulla riva orientale dell’«acqua» di Civezza, il borgo di San Lorenzo ad opera di alcune famiglie portorine in qualità di una sorta di appendice ponentina rivierasca di Porto Maurizio. Nel frattempo le istituzioni portorine si erano evolute in linea con quelle della Repubblica di Genova: il governo era infatti passato nelle mani di un podestà genovese, coadiuvato da consiglieri e anziani eletti proporzionalmente tra i rispettivi terzieri, che tuttavia dovevano sottostare alle decisioni della ristretta oligarchia concentrata nel castello di Porto Maurizio, la quale lasciava ben poca autonomia ai terzieri e ancor meno alle ville del contado. Al tempo dei podestà, il consiglio della comunità era affiancato inoltre dal Parlamento generale, che si radunava tre volte all’anno sui sagrati delle chiese dei tre terzieri, mentre i consigli dei capifamiglia delle singole ville venivano convocati quando insorgevano questioni che interessavano un paese del terziere su un tema particolare come la costruzione di un oratorio, di una torre o di una fontana.
La manutenzione delle strade era invece codificata espressamente nelle norme statutarie della comunità di Porto Maurizio, riformate nel 1397, in base alle quali erano indicati con precisione i tratti che gli uomini di ogni villa dovevano mantenere in efficienza, cosicché la via che portava da Civezza a Pietrabruna doveva essere riattata dagli uomini di Civezza fino alla rocca Riente, presso il fossato e i prati dei Cravi e la terra dei Bertoloti, mentre la strada che conduceva dalla colla verso il bosco doveva essere riattata dagli uomini del borgo di Santa Maria, di Poggio Lanteri, di Torrazza e di Civezza dal torrente Prino fino ai confini del terziere di Dolcedo. Civezza, dunque, al pari delle altre ville del comprensorio, partecipava attivamente secondo il proprio turno all’amministrazione della comunità di Porto Maurizio attraverso il suo eventuale consigliere o anziano presente tra i delegati del Terziere di San Giorgio e prendeva parte alla gestione dello stesso terziere, delegando suoi rappresentanti che potevano anche assumere specifici incarichi amministrativi e operativi; era infatti stabilito che tutte le ville del terziere godessero del diritto di avere un cambio periodico nella rappresentanza del consiglio, tanto che un anno i due anziani erano scelti uno da Torrazza e uno da Civezza, mentre l’anno successivo uno veniva scelto dalle ville di Poggio Buonfiglio e l’altro da quelle di Caramagna. Nonostante nel 1252 gli uomini di Civezza non fossero ancora comparsi nel consiglio della comunità di Porto Maurizio, nel corso del Trecento alcune famiglie civezzine, come i Ricca e gli Arrigo, assunsero una particolare rilevanza politica ed economica nella vita del borgo, tanto da associarsi in parentela e da dare il nome a due intere contrade del paese, alle quali si sarebbe aggiunta quella dei Sasso, mentre la presenza dei Dolca, documentata a partire dal XVI secolo, non ha lasciato traccia nella toponomastica locale. All’inizio del Cinquecento gli Arrigo e i Ricca si erano schierati a fianco degli Spinola insieme ai Bonavia e ad altre famiglie del Comune contro le famiglie guelfe partigiane dei Doria, tra le quali i Cravio e i Lantero, subendo anche un triennio di esilio dal 1499 al 1503. Per il rifiuto di prestare giuramento di legalità da parte di Paolo Arrigo in occasione del rinnovo degli ufficiali comunali per l’anno 1500, gli affiliati del partito spinoliano furono inoltre colpiti con pesanti multe il 28 settembre di quell’anno dal governo genovese, che condannò tra gli altri Paolo Arrigo e Giofredo Sasso alla sanzione pecuniaria di 50 ducati. In tale contesto di aspra contrapposizione tra spinoliani e popolari si colloca anche lo scontro fra le truppe di Yves d’Allegre, regio governatore di Savona, e quelle del capitano di ventura Tarlatino de’ Tarlatini, originario di Città di Castello dal dicembre 1506 all’aprile 1507, quando Tarlatino, ripiegando da Taggia, fu costretto a fuggire precipitosamente verso Civezza e Dolcedo con i pochi armati rimastigli a causa delle massicce defezioni. La definitiva conciliazione tra le due fazioni si raggiunse infine a Porto Maurizio a metà aprile del 1519, in occasione del rientro a Porto Maurizio dei Lamberti e dei Lanteri insieme a Giacomo Ricca di Civezza e a Bertone Ranoisio di Dolcedo. Con tale atto di effettiva riconciliazione il comune portorino poteva quindi rientrare nella normalità della sua attività amministrativa e in un clima di più sereni e proficui rapporti tra i diversi schieramenti politici. Ciò non impedì tuttavia che tra gli anziani del comune sedesse nel 1519 Nicolao Ricca, che due anni dopo Gio Luca Ricca fosse chiamato a ricoprire la prestigiosa carica di luogotenente del vicario genovese di Porto Maurizio, che tra gli anziani in carica nel 1521 vi fosse un Giovanni Ricca, impegnato nella discussione sull’obbligo dei terzieri di redigere un catasto dei terreni, mentre tra quelli eletti nel 1525 compariva anche un Gioffredo Ricca. Il borgo, intanto, si sviluppava lentamente, come è dimostrato dal fatto che fino al 1450 le funzioni religiose vi venivano svolte da cappellani provenienti da Costarainera o da Torrazza, mentre l’erezione in parrocchia della chiesa locale dedicata a San Marco avvenne probabilmente durante il Cinquecento quando il paese aveva raggiunto i 300 abitanti, come attestato dal Giustiniani che parla di 70 «fuochi», mentre l’elenco dei battezzati conservato nell’Archivio parrocchiale parte dal 1589.
Nel corso del XVI secolo la popolazione di Civezza, al pari di quelle di tutti gli altri centri rivieraschi, dovette affrontare il costante pericolo rappresentato dalle incursioni dei Barbareschi, pirati algerini, tunisini, tripolini e di altre basi nordafricane che battevano senza sosta le coste mediterraneee da Gibilterra alla Sicilia compiendo feroci uccisioni, saccheggi, incendi, deportazioni, riduzione in schiavitù degli ostaggi prelevati dai borghi costieri e mercanteggiamenti di riscatti. Di fronte a questa concreta minaccia di morte e distruzione il Ponente ligure si trovava tuttavia sostanzialmente impreparato e indifeso, tanto che la costruzione delle prime fortificazioni destinate all’avvistamento delle flotte turche, con l’eccezione della torre del Monte Gagliardone a Porto Maurizio, eretta nel 1540, e della torre Gallinara di Cipressa risalente al 1544, cominciò dopo il 1560, cioè dopo che i Barbareschi avevano compiuto pesanti incursioni sulle nostre coste. Peraltro, già dal luglio del 1537 s’era diffusa nel territorio di Porto Maurizio la paura collettiva di un attacco massiccio di corsari barbareschi, dopo uno sbarco improvviso di questi ultimi nei pressi della Foce, senza contare il fatto che lo specchio d’acqua tra Riva e San Lorenzo era stato individuato come zona franca, ossia priva di ogni rischio, dove i pirati potevano sbarcare tranquillamente e anche sostarvi più giorni in attesa di ripartire per nuove scorrerie. Dopo aver sottoposto ad un violento saccheggio Riva e San Lorenzo, i Barbareschi, guidati dal rinnegato calabrese Luca Galeni, noto come Occhialì, sbarcarono sulla spiaggia di Pian della Foce e, inoltratisi all’interno, con un’azione prolungata e pressoché indisturbata, raggiunsero i paesi di Lingueglietta, Civezza e Cipressa, dandosi ad un furioso saccheggio e catturando molte persone inermi, delle quali molte sarebbero tuttavia riuscite a farsi riscattare, mentre altri finirono schiavi, incarcerati o «convertiti» alla religione islamica. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1562 Civezza venne nuovamente raggiunta dai barbareschi, che, constatato il fatto che la popolazione era già fuggita o si era asserragliata nelle torri, appiccarono il fuoco alle case provocando un enorme rogo che fu possibile spegnere soltanto dopo ventiquattr’ore di faticoso impegno da parte di tutti gli abitanti. Fu proprio questo triste episodio a convincere finalmente le autorità portorine a provvedere ad un’adeguata difesa di San Lorenzo e della foce del Prino tramite la costruzione di due bastioni, il primo dei quali, quello di San Lorenzo, era già stato terminato nel maggio 1563, mentre i lavori di quello di Prarola andavano a rilento e le relative murature avevano raggiunto solo il livello della coronatura. Il 20 agosto 1563 tornarono a presentarsi davanti alla riva di San Lorenzo nove vascelli di barbareschi, al comando di Occhialì e provenienti da Algeri, i quali attaccarono e saccheggiarono prima Torrazza e poi Civezza, senza catturare tuttavia nessuno perché gli abitanti si erano rifugiati nelle torri, da dove erano stati sparati numerosi colpi di cannone da parte soprattutto dell’artigliera del fortino di San Lorenzo scongiurando così ben più pesanti conseguenze in termini di distruzioni ed eccidi. Dopo aver saccheggiato selvaggiamente Pietrabruna e tentato di assalire Taggia ai primi di giugno del 1564, Occhialì e i suoi uomini approdarono nella notte tra il 6 e il 7 luglio seguenti sulla costa a ponente di San Lorenzo e da qui si spinsero fino a Civezza, dove gli abitanti, allertati in tempo dalle grida e dall’allarme diffuso per il paese, si diedero alla fuga, mentre i pirati, depredate le case, le diedero ancora una volta alle fiamme, poi spente dai Civezzini dopoché i corsari si erano già allontanati, non prima però di sottoporre a saccheggio Torrazza e Piani e, oltrepassata la collina, devastare il borgo di Montalto di Caramagna, che andò completamente distrutto.
I difficili rapporti tra gli uomini del castello di Porto Maurizio e quelli dei terzieri villici continuavano, sia pure con minime varianti, sino alla totale suddivisione amministrativa dei tre terzieri del Comune portorino, raggiunta pienamente soltanto nel 1613, pur rimanendo ogni comunità sottoposta al controllo del podestà e successivamente, a partire dal 1646, del capitano di Porto Maurizio, mentre si stabiliva inoltre che, per quanto riguardava le materie civili, si sarebbe continuato ad osservare le norme previste dallo statuto del capoluogo. Relativamente invece al funzionamento e all’amministrazione del terziere, nel 1620 fu emanata una serie di norme procedurali particolari e dettagliate, che venivano lette annualmente in occasione dell’insediamento di ogni nuova amministrazione e quindi trascritte nel relativo «Libro del Terziero». Il terziere di San Giorgio era rappresentato nel Parlamento da una delegazione di ogni comunità, di cui quattordici di Civezza, altrettanti di Torrazza, dodici di Montegrosso, dieci di Caramagna e Cantalupo e cinque di Moltedo. Le funzioni amministrative erano svolte da un priore, due anziani, quattro consiglieri, quattro estimatori di canella, sei ministrali, due ufficiali dei boschi, due capitani di guerra, sei estimatori di danni, cinque ufficiali di strade, un curatore di assenti, un cassiere, tre giudici delle differenze secondo la normativa prevista dallo statuto di Porto Maurizio. Nel corso dell’età moderna il paese aveva intanto continuato a prosperare e ad ingrandirsi, probabilmente in relazione al graduale estendersi della coltivazione dell’ulivo, considerata anche la sempre più massiccia richiesta di olio a partire dalla fine del Cinquecento. Una prova dell’importanza non soltanto economica raggiunta dal borgo in questa epoca è fornita dal fatto che esso fu sede notarile dal 1660 al 1850. Il paese rimase comunque a far parte del terziere di San Giorgio di Torrazza e a conformarsi alle decisione del priore di questa unità amministrativa, ma governandosi autonomamente con un proprio anziano e con un consiglio che rappresentava la locale «Magnifica Università». L’11 luglio 1758 la villa di Civezza chiese peraltro al Senato di Genova di separarsi dalle altre ville del terziere che faceva capo a Torrazza, ottenendo quindi la piena autonomia nell’agosto del 1762. Dopo la costituzione della Repubblica Ligure nel 1797, il comune di Civezza fu assegnato a diverse circoscrizioni intercomunali, passando prima sotto la Giurisdizione degli Ulivi con capoluogo Porto Maurizio e poi, dal 1803, sotto Oneglia; negli anni di annessione all’Impero francese dal 1805 al 1814 fu inserito nel circondario di Porto Maurizio, elevato a Sottoprefettura nell’ambito del Dipartimento di Montenotte con assegnazione al cantone di Santo Stefano. Dal 1815, con l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, Civezza entrò a far parte del mandamento di Porto Maurizio nella provincia di Oneglia, passando quindi, dopo la cessione del Nizzardo alla Francia nel 1860, sotto la provincia di Porto Maurizio costituita il 14 luglio 1860.
Durante gli anni della Restaurazione si segnala l’erezione dell’ospedale, avvenuta il 15 aprile 1816 su iniziativa del padre Domenico Giuseppe Arrigo, sotto il titolo di San Domenico. Nel periodo risorgimentale soggiornò per alcuni giorni nella casa del medico civezzino Vincenzo Goglioso nel luglio-agosto 1849 il patriota e triumviro della Repubblica romana Aurelio Saffi, che fu poi tratto in arresto su ordine dell’intendente generale della Divisione di Nizza con l’ingiunzione di tradurlo seduta stante a Genova. Dopo l’Unità d’Italia, il borgo venne proposto varie volte come centro di una nuova aggregazione comunale; la prima iniziativa in tal senso fu presa dal prefetto di Porto Maurizio, il quale, con circolare del 5 novembre 1867, propose di unire il comune di Civezza a quello di Torrazza al Consiglio comunale civezzino, che accettò la proposta con delibera del 10 novembre successivo, ma con la clausola che il capoluogo fosse fissato a Civezza. Dopo il terremoto del febbraio 1887, che causò soltanto lievi danni ad alcuni edifici senza provocare vittime, il 22 agosto 1895 il Consiglio comunale di Civezza fu chiamato a deliberare in merito alla richiesta della maggioranza degli elettori di Torre Paponi, che avevano chiesto di staccarsi dal Comune di Boscomare ed essere aggregati a quello di Civezza, ma le condizioni poste dai consiglieri civezzini bloccarono di fatto la pratica. Terminata la prima guerra mondiale, nel corso della quale caddero 17 militari civezzini, ricordati in una lapide in piazza San Marco insieme a quelli del secondo conflitto mondiale, Civezza perse la sua autonomia in conseguenza della generale riorganizzazione provinciale e comunale operata dal regime fascista con regio decreto n. 2276 del 13 settembre 1928, in forza del quale il Comune di Civezza veniva «riunito» con quello di San Lorenzo al Mare in un unico Comune con capoluogo e denominazione «San Lorenzo al Mare». Durante la seconda guerra mondiale, anche Civezza fu coinvolta negli scontri tra partigiani e nazifascisti, come quando, il 29 luglio 1944, alcuni combattenti appartenenti al 3° distaccamento della IV Brigata, inquadrata nella Divisione Garibaldi «F. Cascione», assaltarono in località «Roccai» un convoglio di alcuni mezzi carichi di militi fascisti, dei quali 47 rimasero uccisi e gli altri feriti in modo grave, mentre le forze antifasciste locali offrivano il loro valido contributo alla lotta partigiana tramite la costituzione del CLN, che risultò composto da don Luigi Lupi per la DC, Francesco Dulbecco per il PCI e Armando Arrigo in qualità di indipendente.
Dopo la fine della guerra si ripropose il problema del ripristino dell’autonomia comunale di Civezza, la cui unione con San Lorenzo al Mare era stata mal sopportata e peggio accolta dalla popolazione, i cui rappresentanti, tra i quali l’assessore Giovanni Corradi, supportati anche dal prefetto di Imperia Ambrogio Viale, chiesero al governo, anche come reazione volta a cancellare la memoria di quanto era stato stabilito dal regime fascista, il ripristino della propria autonomia comunale, che venne infine concessa dal re Umberto II con regio decreto del 17 maggio 1946, in forza del quale Civezza venne nuovamente separata da San Lorenzo al Mare e ritornò ad essere Comune autonomo. Il 2 luglio 1946, in occasione della festa degli Angeli, si tenne la cerimonia di inaugurazione del nuovo Municipio con discorsi di politici e amministratori e la benedizione dei locali da parte dell’arciprete don Luigi Lupi. Dopo le elezioni comunali, il 13 ottobre 1946 si insediò quindi il primo Consiglio comunale della recuperata libertà amministrativa, cui seguì l’elezione del sindaco e della giunta. Nei decenni del secondo dopoguerra riprese nuovo vigore la coltivazione dell’ulivo e la produzione di un pregiato olio extravergine di oliva, che aveva subito nel 1924 una temporanea fase di stasi dovuta alla costruzione della strada Pietrabruna-Torre Paponi-San Lorenzo al Mare, che aveva isolato Civezza nella sua vallata arrecando un grave danno al paese in quanto luogo di transito per l’olio di tutto il territorio di Pietrabruna, da dove il prodotto veniva poi portato ai commercianti all’ingrosso di Porto Maurizio, Oneglia e Nizza. Oltre alla produzione olearia si segnalano anche, seppur di minore importanza, quella di vino, e in particolare di Vermentino, e le colture floreali, tra le quali garofani, rose, crisantemi, gladioli e «mazzerie», localizzate soprattutto in località Terre bianche, mentre è divenuta ormai assai ridotta la produzione di grano, che un tempo era portato per la macinazione a Molini di Triora. Notevole incremento ha registrato negli ultimi anni il comparto turistico, che trae linfa da un paesaggio riposante, dovuto alla dolcezza delle colline ricoperte di uliveti e alla particolare amenità del vecchio borgo, dove si sono recentemente stabiliti alcuni turisti «stanziali», provenienti soprattutto dalla Germania Federale e dalla Svizzera, che hanno acquistato numerose vecchie dimore e le hanno riattate, abitandole durante la stagione estiva. Pure l’Amministrazione comunale si è recentemente attivata per far conoscere sempre di più Civezza e rendere ancora più gradevole il soggiorno a residenti e turisti, tramite la costruzione di un «Centro sportivo comunale» comprendente un campo da tennis e due da bocce, oltre a un’area per i giochi dei bambini, e l’organizzazione degli «Incontri con l’arte», vere e proprie gare di pittura estemporanea e mostre d’arte all’aperto, che hanno reso più vivace l’atmosfera in paese nei mesi estivi per la sempre più numerosa clientela turistica giunta a Civezza per trascorrere le ferie o riscoprire le suggestive tradizioni locali.