Rezzo, la storia del borgo nel racconto del dottor Andrea Gandolfo

Antico dominio del marchese Bonifacio del Vasto e poi, per lunghi secoli, assoggettato alla Repubblica di Genova
Rezzo. L’appuntamento con gli approfondimenti dello storico di Sanremo Andrea Gandolfo, si rinnova oggi con uno scritto su Rezzo, antico dominio del marchese Bonifacio del Vasto e poi, per lunghi secoli, assoggettato alla Repubblica di Genova.
Di seguito la storia del borgo di Rezzo scritta dal dottor Gandolfo.
Il territorio di Rezzo occupa una conca chiusa da cime elevate, quali il Monte Prearba (1446 metri) e il Monte Carpasina (1415 metri) nella media valle della Giara. L’abitato comprende un nucleo di crinale situato più in alto e collegato a due borgate lineari intermedie, di origine e struttura medievale con alcuni portali e architravi scolpiti, e una parte più recente sviluppata in basso attorno alla strada provinciale. L’esposizione particolarmente favorevole ha determinato il terrazzamento dei terreni situati intorno al paese, che accolgono anche alcuni vigneti. In una zona più in alto, tra i 900 e i 1400 metri di altitudine, il versante nordorientale che dal Monte Monega (1882 metri) digrada al Passo di Mezzaluna (1454 metri) e al Passo della Teglia (1387 metri), è ricoperto dalla estesa faggeta del Bosco di Rezzo, costituita da 534 ettari di ceduo composto e da 62 ettari di ceduo semplice, la più vasta della Liguria e da secoli fonte di ricchezza per gli abitanti del comprensorio, che vi hanno tratto legna per costruzioni e da ardere, carbone, fibre di nocciolo, foglie secche e frutti del sottobosco.
Quasi tutte le strade che attraversano il territorio rezzasco, comprese le rotabili più recenti, convergono su Rezzo risultando tra le maggiori matrici di crescita del suo tessuto insediativo. Nella struttura del borgo si possono infatti riconoscere due schemi tipologici: uno lineare presente nei due sviluppi a mezza costa che individuano altrettante vie per i valichi occidentali; e l’altro per aggregazione di crinale che definisce il nucleo centrale forse più antico del paese e una sua appendice meridionale, sede di itinerari che scendono dalle Prealbe lungo la linea di massima pendenza del versante.
Da una breve diramazione situata poco prima di Rezzo, che risale il versante settentrionale della valle, terrazzato nei pressi del paese, si raggiunge invece la frazione di Cenova, che presenta un tessuto edilizio orientato lungo la direttrice di mezzacosta. La fama del borgo fu assai notevole in passato sia per la funzione di controllo della Strada del sale «savoina», sia per la tradizione della lavorazione della pietra, che produsse generazioni di maestri lapicidi attivi soprattutto nei secoli XV e XVI. L’altra frazione, Lavina, situata sotto Cenova nel fondovalle della Giara di Rezzo, con le sue borgate di Borghetto, Costa e Contrà affiancate dalle fasce a cui subentrano presto i castagneti, appare definita come una solida struttura urbana da due distinte componenti: la parte forse più recente estesa in successione di tipo lineare tra i due fuochi della chiesa parrocchiale e dell’oratorio coincide di fatto con l’abitato di Calderara, mentre il settore più in quota sviluppato lungo il crinale segue la linea di massima pendenza e si orienta nell’itinerario del vecchio ponte che attraversa il torrente verso Cenova e la via delle Prealbe. La località fu sempre legata alla vicina Cenova e posta a vigilare il guado e il percorso della strada marenca (o del Sale, in quanto su di essa transitavano le merci che dal mare venivano trasportate in Piemonte per essere vendute o scambiate, tra le quali il sale era la più importante sotto il profilo commerciale); l’arteria, lungo l’itinerario che da Oneglia e il Passo del Lupo scendeva a Lavina, proseguiva per Cenova, Prealbe e Montegrosso, raggiungeva Ponti di Pornassio e si immetteva infine, attraverso il Colle di Nava, nella valle del Tanaro. Per quanto concerne l’etimo del toponimo del capoluogo, attestato dal XIII secolo (homines vallis Rezii nel 1202, in Rezio nel 1259), pare che esso sia molto probabilmente un prediale romano senza suffisso, dal gentilizio Raetius, mentre il toponimo Lavina sembra derivi dal ricordo di una grande frana che avrebbe provocato l’abbandono di un primitivo villaggio situato in posizione più elevata presso le rovine della chiesa della Maddalena, anche se altre fonti hanno tramandato la notizia che questo insediamento sia stato distrutto dalle truppe provenzali nel 1270 e poi ricostruito a fondovalle presso il ponte che attraversa il torrente Arroscia.
Il territorio rezzasco venne probabilmente abitato in età preromana da popolazioni appartenenti al ceppo dei Liguri Ingauni, ai quali subentrarono coloni locali al servizio di potenti famiglie romane, che gestirono vaste zone affidandone la coltivazione ad elementi del ceto contadino indigeno. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, il comprensorio rezzasco passò sotto la dominazione dei Goti e poi dei Bizantini, che lo inclusero nella Provincia Maritima Italorum. Nel corso della dominazione bizantina fu costituita una linea difensiva imperniata su determinati punti strategici, tra cui alcuni luoghi della Valle Arroscia, mentre una piccola guarnigione con militari bizantini è forse situabile nel San Giorgio di Calderara, il cui più antico sito arroccato si trova in posizione strategica fra le valli di Rezzo, dell’Arroscia e del Maro con funzione di pieno controllo del passaggio. Ai Bizantini succedettero quindi i Longobardi, che, sotto la guida di re Rotari, conquistarono la Liguria occidentale nel 643 senza causare, a quanto sembra, particolari rovine e distruzioni nei paesi dell’entroterra. La successiva conquista del territorio ligure da parte dei Franchi, il cui dominio si sarebbe protratto dal 774 all’888, portò all’accordo politico dei nuovi dominatori con la Chiesa cattolica, foriero di decisive conseguenze sull’organizzazione territoriale del Ponente ligure.
Nel corso del IX secolo venne poi costituito il Comitato di Albenga, il cui ambito territoriale sarebbe rimasto sostanzialmente invariato anche nel quadro delle successive maggiori circoscrizioni pubbliche, quali le marche istituite nel 950 dal re d’Italia Berengario II, all’interno delle quali si sviluppò la particolare condizione socio-politica della valle di Rezzo, che sarebbe rimasta divisa per secoli fra diverse signorie. Durante il X secolo si erano intanto verificate le violente incursioni da parte dei Saraceni, i quali, se è molto probabile che abbiano devastato le località costiere, non sembra siano penetrati più di tanto nell’entroterra, dove peraltro gruppi di Berberi, abituati alla montagna, dovettero taglieggiare popolazioni e pellegrini, probabilmente imitati da molti cristiani locali. Pochi anni prima della definitiva sconfitta della minaccia saracena – come già accennato sopra – il re d’Italia Berengario II aveva suddiviso il territorio dell’Italia nordoccidentale in tre marche, di cui quella Arduinica comprendeva tra gli altri il comitato di Albenga, all’interno del quale era inclusa la zona di Rezzo. Dopo la morte nel 1091 della contessa Adelaide, titolare della marca arduinica, gli era subentrato il marchese Bonifacio Del Vasto, i cui eredi stipularono un’alleanza con Genova nel 1140 per sottrarre al conte di Ventimiglia Oberto i suoi possedimenti situati nel comitato di Albenga. Nonostante la vittoria sul conte intemelio, il Comune di Genova non rispettò i patti e lasciò lo stato delle cose praticamente invariato, come sembra confermare l’investitura concessa il 21 maggio 1154 (o 20 maggio 1150) dal vescovo di Albenga Edoardo ai fratelli Filippo e Raimondo Ventimiglia in relazione alla riscossione delle decime ecclesiastiche in vari luoghi, tra cui Cenova e Lavina. Il 13 febbraio 1170, forse al termine di un conflitto armato al quale presero probabilmente parte i Ventimiglia del Maro e di Rezzo, i due marchesi Bonifacio e Guglielmo, nipoti di Bonifacio Del Vasto, si accordarono con il Comune di Albenga per eliminare alcuni nuovi castelli, tra i quali quello di Lavina, che confinava con le aree limitrofe controllate dai Ventimiglia.
Il 18 marzo 1202 Genova concesse agli abitanti della valle Arroscia, di Andora, di Oneglia, di Prelà, Nasino e Rezzo (che viene citata per la prima volta in un documento ufficiale) alcuni favori commerciali senza peraltro sanare il contrasto fra la Iura, cioè il patto dei valligiani, e i Comuni costieri, poi sfociato in aperto conflitto risolto nel 1204 da un intervento armato di Genova, la quale costrinse le parti ad una pace che riportò lo status quo, dopo una riparazione dei danni dei centri costieri. Nel 1233 scoppiò un’altra grave sommossa antigenovese, alla quale parteciparono gli uomini di Rezzo, Lavina e Cenova, che, dopo aver sconfitto due eserciti guidati dai Genovesi, vennero battuti nel 1234 da un poderoso corpo di spedizione inviato da Genova, che l’anno prima aveva obbligato la feudalità ponentina al pagamento delle collette, consistenti nel pagamento di mille lire per ogni gruppo di contraenti, e alla cessione del diritto di far leva di uomini nei territori su cui vantava titoli di possesso. Il 6 ottobre del 1234 il conte Filippo di Ventimiglia aveva intanto ceduto ogni ragione, giurisdizione e redditi a lui competenti su vari paesi, tra i quali Cenova e Lavina, a tale Raimondo Carli di Candeasco per la somma di 850 lire genovesi. Per garantire una continuità al potere familiare, il 4 gennaio del 1300 il conte Enrico di Ventimiglia donò quindi alla consorte Benedetta il castello e la villa di Lavina e la villa di Cenova. Tuttavia, già il 24 novembre 1259, gli eredi di Oberto Ventimiglia, cioè la figlia Veirana col marito Pagano di Ceva e il cognato Michele, avevano venduto per la somma di 2300 lire a Guglielmo Boccanegra, in rappresentanza del Comune di Genova, Badalucco e Baiardo, metà di Arma, di Bussana e vari loro possedimenti nella marca di Albenga, tra i quali anche Rezzo, che, a partire dalla metà del XIII secolo, era entrato a far parte stabilmente dei domini dei marchesi di Clavesana, i quali promossero un’attenta politica di organizzazione e controllo dei vari insediamenti della valle. La successiva penetrazione in territorio ligure delle truppe di Carlo d’Angiò a partire dal 1267 portò tra l’altro all’occupazione angioina del castello di Lavina, mentre alcuni decenni dopo, in ossequio alla rinnovata presenza imperiale, il conte Francesco di Ventimiglia si fece investire, per procura del marchese Francesco di Clavesana, dei diritti sui castelli, luoghi e giurisdizioni di Aurigo, Cenova e Lavina dall’imperatore Enrico VII, sceso in Italia e presente a Genova nel 1311. Tale investitura venne successivamente confermata il 26 gennaio 1329, sempre a favore del conte Francesco di Ventimiglia, da parte dell’imperatore Ludovico il Bavaro, che gli assegnò anche la sesta parte di Cosio e Pornassio. I traffici commerciali lungo le vie interne erano stati intanto incentivati dall’affrancamento del dacito della Gombetta di Pieve (una sorta di pedaggio) da pagare con altre gabelle nel territorio clavesanico per i conti di Ventimiglia e per i loro sudditi, con provvedimento adottato il 28 luglio 1326, mentre le mire espansionistiche genovesi si concretizzarono con l’accettazione, da parte di Rainaldo, Pietro, Federico, Alfonso, Manfredo, Antonio, Giovanni, Enrico e Roggero Ventimiglia, il 30 gennaio e il 25 febbraio 1350, dell’installazione di presidi genovesi guelfi nei loro castelli, oltre alla consueta imposizione di fornire uomini per le navi e le imprese militari della Serenissima.
Il contemporaneo espansionismo della potente famiglia dei Del Carretto fu sancita dall’investitura concessa nel 1355 dall’imperatore Carlo IV a Giorgio Del Carretto, che entrò così in possesso della metà di Rezzo, mentre il 13 gennaio di trent’anni dopo anche il marchese Emanuele II di Clavesana decise di porsi sotto la completa protezione di Genova, alla quale cedette la metà del marchesato, cioè quanto gli restava della valle Arroscia e di Rezzo, venendone subito reinfeudato. In seguito all’arbitrato del doge Antoniotto Adorno, dal 21 marzo 1385 Rezzo rimase a metà tra lo stesso Emanuele II e Giovanni di Saluzzo, esponente di un’altra famiglia marchionale collegata ai Clavesana. Il 3 ottobre dell’anno successivo Giovanni di Saluzzo vendette quindi alla Repubblica di Genova, per poterne ricevere l’infeudazione, la sua porzione di Valle Arroscia e domini Clavesana per ventimila lire genovesi, mentre il 27 aprile 1385 anche il conte Lombardo di Ventimiglia aveva ceduto Aurigo, Cenova e Lavina alla Serenissima, ottenendone in cambio l’immediata reinfeudazione.
Nello spirito di collaborazione tra le comunità limitrofe anche Rezzo stipulò nel corso del Medioevo vari patti con località vicine per stabilire le rispettive aree di sfruttamento agricolo o pastorale del territorio. Tra questi patti si possono ricordare la convenzione fra Triora e Rezzo del 27 giugno 1271 e l’arbitrato fra Rezzo e Cenova del 13 giugno del 1264. Un altro importante trattato venne invece stipulato il 15 luglio del 1498 tra la comunità di Cenova e quella di Rezzo per l’utilizzazione delle terre adibite al pascolo nella zona sopra Agrofolletto, dove era previsto il pascolo comune, mentre la vendita di erba era riservata agli uomini di Rezzo. Un’altra vertenza, relativa allo sfruttamento dei pascoli tra Cenova e Acquetico, venne risolta con un responso emesso il 2 aprile 1472, in base al quale agli abitanti di Cenova fu riconosciuto il diritto di utilizzare per pascolo i prati situati nel territorio di Acquetico, dal colletto dell’Ausellina fino al territorio di Pornassio, ad eccezione del prato intorno alla chiesa di San Giacomo di Acquetico, fermo restando l’obbligo per gli abitanti di Cenova di pagare le tasse su quei prati che sfruttavano nella stessa misura e in modo uguale a quelli di Acquetico, con la clausola aggiuntiva che gli abitanti di Cenova non avrebbero potuto vendere o affittare i prati loro assegnati se non ad altri abitanti di Cenova o, al massimo, ad abitanti di Acquetico, pena la decadenza da ogni diritto sugli stessi. Assai rilevanti per la vita sociale e politica di Rezzo e dei paesi vicini erano inoltre gli Statuti locali, che vennero confermati dalla moglie del conte Ruggero Ventimiglia Salvatica Spinola per Cenova nel 1353 e per Lavina nel 1357, mentre, nello stesso lasso di tempo, analoghi statuti dovettero essere stati confermati anche per la comunità di Rezzo. Il testo di tali leggi prevedeva una serie di sanzioni pecuniarie per le violazioni alle norme degli Statuti, che contemplavano anche la pena capitale, generalmente però demandata al signore o a un tribunale di grado maggiore di quello locale.
Anche le magistrature e le cariche comunali erano minuziosamente regolamentate dagli Statuti, che attribuivano il massimo potere decisionale al Parlamento, ossia all’assemblea dei capifamiglia, a cui si affiancavano altri ufficiali comunali quali i consoli, i campari, gli stimatori, i contabili, i massari e il degano, ovvero il nunzio pubblico. Dopo il passaggio di Genova sotto il diretto controllo francese nel 1396, il 10 febbraio 1402 la moglie di Manuele di Clavesana Andreola ottenne l’infeudazione della metà di Rezzo, mentre il 20 marzo successivo fu Lombardo Ventimiglia a presentare e rinnovare il suo giuramento di fedeltà al Comune di Genova. Intanto si profilava una sempre maggiore spinta espansionista da parte dei Lascaris di Briga e Tenda, che miravano a consolidare ulteriormente il loro dominio nel territorio delle Alpi Marittime. In questa ottica assume particolare rilevanza la vendita, effettuata il 9 maggio 1455, con la quale Gaspare, figlio di Francesco di Ventiimiglia, cedette per 8600 lire genovesi il luogo del Maro e i propri diritti su vari paesi tra i quali Cenova e Lavina ad Onorato Lascaris, che acquisì i restanti diritti sui territori ceduti in esecuzione delle volontà testamentarie dettate da Rainaldo Ventimiglia nel 1462. Nel corso della dominazione dei Lascaris anche il territorio rezzasco poté beneficiare dell’aumento dei traffici lungo i collegamenti viari della valle, mentre rimaneva ancora vincolante il controllo centrale genovese e, per un certo periodo, anche milanese. Di tale stato di fatto è riprova concreta l’investitura di Rezzo, concessa nel 1471 dal marchese Pallavicino governatore d Genova per il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, a Gaspare di Emanuele Clavesana, che riunì i diritti acquisiti direttamente dal padre, il quale aveva comprato l’altra metà del feudo da Galeotto Del Carretto. Ormai anche Lavina e Cenova erano sicuramente sotto il dominio tendasco, mentre il 31 luglio 1488 Gio Antonio Ventimiglia otteneva dal cardinale Paolo Fregoso e dal Consiglio degli Anziani di Genova l’infeudazione di Aurigo, Cenova e Lavina per quanto questi paesi fossero allora governati da Margherita di Tenda e da suo figlio Gio Antonio. Durante la successiva guerra tra i signori di Milano e il re di Francia, l’abitato di Rezzo subì un violento saccheggio il 31 maggio del 1500 da parte di una masnada di tremila armati guidata da Pietro del Montenegro e Michele Animanegra, mentre il 18 giugno seguente i Clavesana ripresero saldamente possesso di Rezzo, approfittando della contemporanea vittoria della Francia, definitiva padrona di Genova e del Milanese.
Dopo il matrimonio di Anna Lascaris con Rainero di Savoia, figlio naturale del duca Filippo II di Savoia e la successiva politica espansionistica sabauda nel Ponente ligure, Rezzo continuava a rimanere saldamente in mano dei Clavesana, controllati da Genova, la quale concesse diverse investiture ad esponenti della famiglia nobiliare tra il 1513 e il 1529. Frattanto le buone relazioni tra i Ventimiglia e Onorato Lascaris, succeduto al padre Claudio alla guida della signoria di Tenda nel 1566, avevano indotto Giovanni e Agostino Ventimiglia a vendere il 9 novembre 1565 ad Onorato le loro porzioni di Cenova, Lavina e Montegrosso. Durante i successivi fatti d’arme tra Renata d’Urfé e Onorato marchese di Villars, sia i Clavesana di Rezzo che i Ventimiglia di Cenova e Lavina rimasero ad osservare lo sviluppo degli eventi, fino quando la stessa Renata si risolse a cedere al duca Emanuele Filiberto di Savoia i territori della contea di Tenda, compresi quindi il Maro e Prelà, con accordi stipulati il 14 e il 15 novembre del 1575, ai quali seguì, il 30 aprile dell’anno successivo, la cessione ai Savoia anche della signoria doriana di Oneglia. Quando i Savoia riuscirono infine ad assumere il controllo pure di Cenova e Lavina a scapito dei Ventimiglia, nella valle della Giara si trovarono a coesistere due forze contrapposte e sempre rivali: da una parte i Piemontesi stabilmente installati a Lavina e Cenova, e dall’altra i Clavesana, fedeli vassalli della Repubblica di Genova, a Rezzo, la cui appartenenza alla storica rivale del Ducato sabaudo avrebbe determinato l’insorgere di gravi contrasti sfociati nelle due guerre scoppiate tra Genova e i Savoia nel corso del Seicento. Intanto non cessavano dissidi e contrasti tra le varie comunità della valle per questioni di natura confinaria, soprattutto nella zona dell’Ausellina e delle Prealbe, dove si verificavano periodicamente degli sconfinamenti puntualmente denunciati dalle autorità dei paesi confinanti. Nel 1592 i consignori di Rezzo Francesco e Giovanni Battista Clavesana designarono quindi un loro congiunto, Salvaggio, come procuratore per risolvere l’annoso problema della definizione dei confini tra la comunità rezzasca e quella di Cenova, i cui abitanti avrebbero tuttavia reagito con la forza ad un tentativo di alcune squadre di uomini armati di Rezzo, che nel 1623 si erano recati a riparare le strade nella regione delle Pozzette e della Cappelletta, una zona contestata, ma facente formalmente parte del territorio della Repubblica di Genova. Nel corso della successiva guerra tra il Ducato sabaudo e la Serenissima, la valle di Rezzo venne occupata dalle truppe franco-piemontesi, ma in seguito le sorti del conflitto volsero a favore di Genova, che procedette all’occupazione dei territori del Principato di Oneglia, del Marchesato del Maro e della Contea di Prelà. Durante gli anni di occupazione genovese, che si sarebbe protratta fino al 1635, si verificò una breve unificazione del territorio dell’intera valle di Rezzo, anche se non del tutto completa per via della presenza dei Clavesana. Verso la metà del Seicento la zona rezzasca era stata intanto colpita da una grave carestia, le cui pesanti conseguenze sulla popolazione furono alleviate dai provvidenziali interventi della famiglia marchionale dei Clavesana, il cui esponente Nicolò, che rimase in carica dal 1622 al 1658, si dimostrò un abile e lungimirante governatore dal carattere indipendente che lo avrebbe portato a tentare di sottrarsi, almeno parzialmente, alla pressione genovese. Il rinnovato interessa sabaudo per la zona di frontiera contesa tra Cenova e Rezzo determinò poi una reazione da parte dei Rezzaschi, che, il 3 maggio 1670, al suono del tamburo e delle campane a martello, armati di archibugio, penetrarono nelle zone delle Pozzette, di Merlino e di Chiapparo, poco sotto Cenova, distruggendovi alcuni muri dei terreni di proprietà dei Cenoaschi. Il grave episodio venne comunque superato dallo scoppio della seconda guerra tra Genova e i Savoia, il cui esercito, al comando del conte Catalano Alfieri, occupò il 28 giugno 1672 Pieve di Teco, dove il conte annunciò di essere giunto lì per proteggere Cenova tormentata da quelli di Rezzo e promise che avrebbe ritirato i suoi uomini se si fosse pervenuti ad un autentico arbitrato sulla questione confinaria da parte di un collegio di esperti in legge dell’Università di Bologna; la proposta venne però accolta freddamente dal Senato genovese, che tergiversò con il chiaro intento di guadagnare ulteriore tempo per allestire un valido esercito da inviare nel Ponente.
La situazione si sbloccò tuttavia con l’intervento deciso delle truppe piemontesi, che, dopo aver facilmente occupato Pornassio, si diressero verso Rezzo, dove il 17 luglio del 1672, travolta la debole resistenza di circa duecento paesani, smantellarono il castello dei Clavesana e si lasciarono andare ad un violento saccheggio dell’abitato. Terminato il conflitto senza sostanziali modifiche all’assetto territoriale dei due Stati confinanti, la risoluzione dei contrasti tra Cenova e Rezzo venne affidata alla mediazione del re di Francia Luigi XIV, che, il 13 gennaio 1673, emanò un arbitrato relativo a tutte le vertenze confinarie fra Savoia e Genova, oltreché alle conseguenze della guerra appena finita, in forma di restituzioni e scambi di prigionieri. Per quanto concerneva Cenova e Rezzo, l’arbitrato stabilì che entro due mesi le vertenze avrebbero dovuto essere risolte in base a quanto deciso da un collegio di giudici italiani, in particolar modo per le zone delle Possette, Agrofoglio e fossato di Pittone, con l’inspiegabile esclusione però della strategica area di Prealba, non citata nell’arbitrato forse per le pressioni del ministro genovese presso la corte di Francia. Il conseguente e scontato rifiuto di considerare la zona di Prealba da parte del governo genovese, oltre all’impossibilità di inserire un’istanza che potesse impedire ai Rezzaschi di infastidire i Cenoaschi nel passaggio della strada di Prealba, fece sì che già nel corso dello stesso 1673 l’arbitrato rimanesse lettera morta perdendo qualsiasi efficacia pratica. I successivi decenni, caratterizzati da una serie di altri eventi bellici interessanti anche la valle di Rezzo, videro ulteriori tentativi attuati dal governo sabaudo per acquisire i territori contesi con la Repubblica di Genova, fino a quando, grazie alla mediazione francese, si giunse alla consegna al duca sabaudo dei cosiddetti «feudi imperiali», tra i quali era compreso pure Rezzo, che passò così nel 1735 sotto la giurisdizione del Regno di Sardegna. Con l’eliminazione della storica rivalità tra Genova e i Savoia nella valle rezzasca, i rapporti tra le varie comunità migliorarono sensibilmente, mentre si andava sempre più affievolendo la presenza nobiliare locale. A Rezzo, infatti, dopo la morte senza eredi maschi diretti avvenuta nel 1744 dell’ultimo Clavesana, Francesco Maria, il feudo era passato alla nipote Maria Gabriella da Passano, la cui figlia Maria Giovanna Grimaldi avrebbe sposato il nobile genovese Gio Carlo Pallavicini, dando così inizio alla breve linea del possesso del feudo rezzasco da parte dei marchesi Pallavicini. Dopo lo scoppio della guerra di successione austriaca scese in campo contro il Regno di Sardegna la Repubblica di Genova, che, timorosa di un passaggio del Marchesato di Finale ai Savoia, si schierò a fianco della Francia e della Spagna nella speranza di ottenere, in caso di vittoria, l’area onegliese e, soprattutto, i feudi imperiali da poco tempo perduti, tra cui anche quello di Rezzo. Nel corso della successiva occupazione del territorio rezzasco da parte delle truppe franco-spagnole, la comunità della valle di Rezzo dovette far fronte alle esigenze di queste truppe, in particolare francesi, che erano acquartierate nella zona, inducendo gli abitanti ad utilizzare il bosco per procurarsi legna da ardere e da costruzione per i quartieri invernali e le ridotte.
Forte dell’appoggio austriaco, il sovrano sabaudo Carlo Emanuele III riprese nel corso del 1746 i territori perduti con la stessa Genova occupata dalle truppe austriache fino al dicembre del ’47, mentre la vittoria austro-sarda dell’Assietta il 19 luglio 1747 impresse una svolta definitiva alla guerra, poi conclusa dal trattato di Aquisgrana stipulato il 18 ottobre 1748, in forza del quale il Ponente ligure venne occupato da battaglioni austro-sardi con pesanti conseguenze sulla vita delle popolazioni locali. La pace di Aquisgrana sancì inoltre la definitiva acquisizione dei feudi imperiali, tra cui anche quello di Rezzo, insieme ad altri territori padani, da parte del re di Sardegna, che venne in tal modo risarcito della forzata rinuncia al Marchesato di Finale, che sarebbe rimasto genovese.
Durante la successiva occupazione francese del territorio rezzasco, avviata in seguito alla penetrazione delle truppe rivoluzionarie in territorio ligure a partire dall’aprile del 1794, si verificò un’incontrollata sparizione e conseguente requisizione dei beni marchionali, in un clima di generale sconforto aggravato dalla diffusione di una grave epidemia di febbre che aveva mietuto vittime anche a Pieve di Teco. Dopo l’armistizio di Cherasco del 28 aprile 1796 e il ritorno del territorio onegliese e di Loano al re di Sardegna, anche nei paesi della valle di Rezzo vennero ristabiliti gli organismi amministrativi tradizionali, quasi come se nel frattempo non fosse successo nulla. La proclamazione della Repubblica Ligure nel giugno del 1797 indusse allora il marchese Pallavicini, patrizio genovese emarginato di fatto dal nuovo regime, a curare in modo più stretto i residui rapporti con la comunità di Rezzo, attraverso l’opera del Bailo notaio Federico Manfredi, il quale dovette fronteggiare vari problemi legati soprattutto al permanere del regime di occupazione francese, che, in seguito all’abdicazione del re di Sardegna Carlo Emanuele IV avvenuta l’8 dicembre del 1798, avrebbe ulteriormente consolidato il suo dominio divenuto ormai repubblicano anche per il Piemonte. Dopo un temporaneo ritorno dei Savoia nella primavera del 1800, il territorio rezzasco venne riaggregato l’anno successivo alla Repubblica Ligure, che istituì la Giurisdizione degli Ulivi estesa dal Capo Santo Spirito a Garavan, presso Mentone, all’interno della quale la valle di Rezzo fu inserita nel Cantone di Pieve di Teco. Con la fine della Repubblica Ligure e la sua unione all’Impero francese il 6 giugno 1805, Rezzo e la sua valle entrarono a far parte del Dipartimento di Montenotte, con capoluogo Savona, sotto la giurisdizione locale del circondario di Porto Maurizio e del cantone della Pieve. Sotto l’impulso del prefetto napoleonico Chabrol de Volvic furono intrapresi numerosi lavori pubblici, tra i quali la costruzione delle strade Oneglia-Ormea e Albenga-Pieve-Ormea, poi terminate dal governo sabaudo dopo la caduta di Napoleone, oltre alla realizzazione del ponte arcuato sulla Giara di Rezzo, destinato a diventare uno dei simboli del paese. Nel corso dell’età della Restaurazione si verificò una congiuntura favorevole, che portò la popolazione di Rezzo a stabilizzarsi nella seconda metà del secolo alla quota primato oscillante tra le 1200-1300 unità, mentre proseguiva la costruzione di strade, come quella che collegò Rezzo con la Oneglia-Ormea, collaudata nel 1880, alla quale seguì il collegamento con Cenova, realizzato nel primissimo Novecento, e il grande ponte di Lavina, costruito nel secondo decennio del XX secolo. Nel 1835 si consumò quindi la definitiva uscita di scena della famiglia nobiliare locale con la vendita, da parte di Ignazio Alessandro Pallavicino, dei beni da lui posseduti a Rezzo e nelle sue vicinanze al facoltoso avvocato pievese Giorgio Trucco, che acquisì anche la storica residenza marchionale situata in paese, mentre restavano al marchese alcuni diritti, quali la possibilità di intervenire nella nomina del prevosto e dei cappellani. Venticinque anni dopo, in seguito alla cessione della Divisione di Nizza alla Francia nel marzo del 1860, Rezzo, Cenova e Lavina entrarono a far parte della Provincia di Porto Maurizio.
Il 23 febbraio 1887 Rezzo, Cenova e Lavina vennero colpite dal terremoto, che non causò tuttavia vittime o feriti, ma soltanto lievi danni ad alcuni edifici pubblici e privati, per cui le autorità centrali concessero un mutuo di 31.600 lire a 26 abitanti di Lavina e 28.860 lire a 14 Rezzaschi, oltre a 5000 lire al Comune di Cenova, 6240 lire a quello di Lavina e 7000 lire a quello di Rezzo per la riparazione di edifici comunali, chiese, oratori, case canoniche e sedi di Confraternite danneggiati dal sisma. Dopo la guerra del 1915-18, nella quale caddero numerosi militari della valle rezzasca, poi ricordati dai tigli piantati nei pressi del grande santuario mariano, durante il periodo del regime fascista venne decisa dal governo, nell’ambito della generale riorganizzazione amministrativa degli enti locali, l’unione dei comuni di Cenova e Lavina con Rezzo capoluogo. Con tale provvedimento, emanato nel 1928, si pose quindi fine alla secolare frammentazione della valle di Rezzo, che era stata al centro di tante guerre e dissidi nel corso del Medioevo e dell’età moderna. Nel corso della guerra di Liberazione tutta la zona di Rezzo fu teatro di aspri e violenti scontri tra le forze nazifasciste e le formazioni partigiane, che si resero protagoniste di varie azioni tra cui la distruzione dell’ufficio accertamenti agricoli e le liste di leva del Comune di Rezzo il 6 giugno 1944, mentre il 24 giugno successivo una squadra di Tedeschi, durante un massiccio rastrellamento nel bosco di Rezzo, passò per le armi tre garibaldini e una staffetta partigiana. Un altro rastrellamento in grande stile venne effettuato dai nazisti ai primi di settembre del ’44 sempre nel bosco di Rezzo, dove furono uccisi alcuni partigiani e due civili. Da segnalare inoltre come, durante la guerra, la popolazione di Rezzo e dei paesi vicini abbia aiutato i partigiani in tutti i modi, indicando la strada agli sperduti, fornendo vitto e asilo, oltre ad occultare gruppi interi di garibaldini, che dovettero la vita alla bontà e al coraggio dei contadini della valle rezzasca.
Nei decenni successivi alla fine della guerra ripresero le tradizionali attività economiche della popolazione, dedita prevalentemente all’allevamento del bestiame e allo sfruttamento dei boschi, dove sono anche ubicate due segherie attrezzate modernamente che producono serramenta e mobili. Un’altra attività artigianale molto diffusa è quella della fabbricazione dei canestri ricavati dal pregiato legno di nocciolo locale. In sensibile ascesa è anche il settore turistico, con numerosi villeggianti che raggiungono il comprensorio rezzasco soprattutto durante la stagione estiva, con la possibilità di effettuare escursioni nel bosco di Rezzo, assai rinomato per essere il faggeto più esteso della Liguria ed essere particolarmente ricco di funghi, castagni e querce. La ricezione turistica può contare inoltre su vari ristoranti-alberghi, attrezzati per accogliere comitive anche numerose e offrire ai clienti le tipiche specialità locali, mentre la zona, grazie al suo elevato patrimonio faunistico, è meta privilegiata di numerosi cacciatori e pescatori.