La storia del paese di Montegrosso Pian Latte, il racconto dello storico Andrea Gandolfo

Antico dominio dei signori di Garessio e poi, per molti secoli, sotto la giurisdizione della Repubblica di Genova
Imperia. Il tradizionale appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo questa settimana è dedicato alla storia del paese di Montegrosso Pian Latte, in alta valle Arroscia, antico dominio dei signori di Garessio e poi, per molti secoli, sotto la giurisdizione della Repubblica di Genova:
“Il borgo di Montegrosso Pian Latte sorge in posizione dominante sul versante orografico sinistro dell’alta valle Arroscia all’altitudine di 721 metri sul livello del mare; rappresenta quindi un centro di crinale, situato ai piedi del Monte Monega (1882 metri), originato lungo l’antica direttrice itineraria che proviene dal passo di Pian del Latte e circondato in basso da fasce con vigneti e in alto da castagneti e pascoli. All’altitudine di 1274 metri è ubicata invece la caratteristica borgata alpestre di Case Fascei, mentre un’altra malga si trova nelle praterie di Pian del Latte.
L’abitato, dal tipico carattere rustico e montano, presenta un tessuto edilizio molto compatto che evidenzia gli aspetti dominanti dei principali centri montani nella Liguria di Ponente, come i paesi di Briga e Tenda in Val Roia e quelli di Triora, Corte e Andagna in alta Valle Argentina, a cui corrisponde sia l’uso di coperture tipicamente «forti» sia una maggiore e più capillare diffusione della classica struttura lignea delle abitazioni. Il paese deve il suo nome e la sua importanza nei secoli scorsi al movimento di transumanza stagionale del bestiame bovino, che si sviluppò nell’entroterra della Liguria occidentale dalla Val Roia alle valli albenganesi nel periodo medievale, quando era regolato da numerose convenzioni stipulate tra i vari centri alpini interessati dal fenomeno. Il toponimo, attestato dal 1207 come Montem Grossum, doveva presumibilmente indicare un territorio di tipo montano destinato all’alpeggio, di particolari proporzioni e importanza per tutta la zona.
L’epiteto Pian Latte, che si riferisce propriamente al contiguo passo montano dalla cui direttrice – come suaccennato – si sviluppò anticamente il paese attuale, ed è citato come Planum Lactis nelle fonti medievali, costituisce un ulteriore ed esplicito richiamo alla diffusa pratica dell’allevamento. Il territorio montegrossino risulta abitato fin dall’epoca protostorica, come documentano i reperti rinvenuti nella vicina grotta della Cornarèa, frequentata da gruppi di pastori dalla fine dell’età del Bronzo. Nel periodo preromano la zona di Montegrosso fu popolata da una tribù montana degli Ingauni, mentre, secondo altri, l’alta Valle Arroscia sarebbe stata frequentata da tribù di Liguri Montani, gli antichi abitatori dell’entroterra della Riviera di Ponente.
Nel corso della successiva età romana il territorio dell’odierna Montegrosso Pian Latte, destinato prevalentemente a bosco o a pascolo, venne ceduto ad una famiglia patrizia romana, il cui capo assunse il ruolo di affittuario dell’intera zona, concedendo l’utilizzo agricolo dei fondi di sua proprietà a subaffittuari, definiti con il termine di coloni, i quali, a partire dalla fine del IV secolo d.C., si sarebbero uniti indissolubilmente per legge alla terra che avevano preso in subaffitto, con facoltà di trasmettere ai propri discendenti il possesso dei loro terreni, mentre al conduttore delle tenute spettava la riscossione di un compenso in prodotti della terra da parte dei dipendenti, di fatto obbligati a coltivare i poderi loro assegnati dai rispettivi affittuari.
L’istituto del colonato lasciò un segno profondo nel costume della popolazione dell’alta valle Arroscia, rappresentando concretamente il momento di più alta diffusione della «romanizzazione» nell’ambiente sociale e economico valligiano senza peraltro scalfire del tutto il radicato patrimonio culturale dell’età preromana.
Caduto l’Impero romano d’Occidente nel 476, la zona di Montegrosso fu interessata dal fenomeno delle incursioni barbariche, mentre la popolazione locale si andava in modo graduale convertendo alla religione cristiana grazie all’opera evangelizzatrice della Chiesa albenganese, che gestiva in alta Valle Arroscia numerosi poderi, fondi agricoli e case, donati dai patrizi romani alla Chiesa romana o alla diocesi ingauna e ai monasteri, che avevano suddiviso tali proprietà in quattro parti ripartite equamente tra le autorità ecclesiastiche e i più indigenti, mentre la coltivazione dei fondi patrimoniali rimaneva affidata ai coloni, ai nativi del luogo e agli schiavi. Il territorio montegrossino passò quindi sotto la dominazione dei Bizantini, che lo inclusero nel corso del VII secolo nella Provincia Maritima Italorum, che comprendeva tutta la fascia costiera ligure e il relativo entroterra tra Luni e Ventimiglia, includendo anche la zona dell’alta Valle Arroscia e dell’alto Tanaro.
Successivamente il borgo passò sotto la dominazione dei Longobardi. Nel corso del IX e X secolo il comprensorio dell’alta valle Arroscia fu investito dalle violente scorribande dei Saraceni, che dalla costa dovettero raggiungere anche l’entroterra, dove saccheggiarono e devastarono vari paesi, tra i quali forse anche Montegrosso. Nella seconda metà del X secolo l’alta Arroscia era stata aggregata alla Marca Arduinica, passando successivamente sotto la giurisdizione del marchese Bonifacio Del Vasto, il quale, dopo aver sposato la figlia della contessa Adelaide di Susa, estese i suoi domini ai possedimenti arduinici situati a ponente del Tanaro, e in particolare a quelli ubicati nel Comitato di Albenga, tra i quali figuravano pure Montegrosso e gli altri centri dell’alta Valle Arroscia.
In questo periodo il paese di Montegrosso, insieme a quello di Mendatica, entrò a far parte della Castellania di Cosio, passata nel frattempo sotto il dominio di Robaldo di Garessio, che il 26 maggio 1207 aveva sottoscritto una convenzione con Tenda per la delimitazione delle rispettive aree destinate allo sfruttamento di boschi, pascoli e acque montane, mentre sedici giorni prima era stato stretto un patto anche con gli uomini di Pornassio e Ottano, in forza del quale fu raggiunto un compromesso tra le parti in merito ai territori contesi in località Alpi di Döwa, che furono equamente suddivisi tra gli abitanti di Pornassio e Ottano e quelli di Montegrosso, Mendatica e Cosio.
Nel 1233 Montegrosso fu uno dei borghi che si riunirono per formare Pieve di Teco; due anni dopo, il 15 febbraio 1235, il marchese di Clavesana e di Savona Manuele Del Carretto concesse l’investitura su Montegrosso, Mendatica e Cosio a Oddone di Garessio e a suo fratello Robaldo. Nel corso della dominazione dei marchesi di Clavesana anche Montegrosso subì un notevole ampliamento del suo centro abitato. Il 13 gennaio 1262 si registrò un importante accordo tra i Clavesana, i consignori di Garessio ed altri feudatari di Albenga per la soluzione pacifica e consensuale di tutte le liti, controversie, discordie, guerre, danni e ingiurie che si erano fatti vicendevolmente.
Nel gennaio del 1274 Montegrosso, Mendatica e Cosio passarono sotto il dominio del Comune di Genova, che il 18 febbraio 1289 investì Guglielmo di Garessio della torre, degli altri edifici e delle mura del castello di Cosio, il quale, insieme agli centri della omonima castellania, entrò a far parte integrante del territorio genovese. Il 4 febbraio 1297 furono invece emendati gli Statuti della Castellania di Cosio, Mendatica e Montegrosso al fine di regolare minuziosamente la vita politica, sociale ed economica del comprensorio attraverso una serie di norme di natura patrimoniale, relative soprattutto ai furti, a disposizioni di natura agricola, concernenti le coltivazioni e i pascoli, a norme di natura civica, a disposizioni di natura giudiziaria, sua civile che criminale e a norme atte a regolare la vita religiosa e liturgica del borgo, inerenti in particolare battesimi, sante messe, funerali e giuramenti.
Nel periodo medievale il sistema amministrativo della castellania di Cosio aveva come organo decisionale supremo il Parlamento, formato da tutti gli uomini della castellania e delegato soprattutto a tutelare i beni della comunità, mentre l’altro importante organo decisionale era costituito dal Consiglio, formato da venticinque consiglieri per Cosio, sedici per Mendatica e undici per Montegrosso. Rimaneva però assai spinoso il problema dell’utilizzo dei terreni alpini relativo ai pascoli e ai boschi, suscitando gravi dissidi tra i paesi della castellania cosiese fino a quando, dopo lunghe trattative, non venne raggiunto un accordo firmato il 1° giugno 1360 in località Costa Rossa dai procuratori delle tre comunità di Montegrosso, Cosio e Mendatica, che suddivisero i territori comuni in cinque parti assegnate in maniera proporzionale ai tre comuni per la durata di dieci anni, poi rinnovata per altri dieci anni il 2 giugno 1376.
La sempre maggiore collaborazione tra i tre paesi trovò quindi il suo sbocco naturale nella convocazione di un «Parlamento generale» delle tre comunità, che si riunì per la prima volta il 29 aprile 1388 in località Costa Rossa, dove i delegati dei tre borghi si promisero solennemente di non concedere ad estranei diritti di alcun genere su beni comuni, la cui eventuale cessione a favore di forestieri sarebbe potuta avvenire soltanto dietro esplicita autorizzazione del Parlamento generale. In passato i rapporti tra il comune di Cosio e la comunità di Montegrosso erano stati tuttavia alquanto tesi, come attestato tra l’altro dalle proteste avanzate dai Montegrossini il 1° dicembre 1343 contro una «grida» emanata dal podestà di Cosio sulla macinazione, mentre il 18 luglio 1360 gli arbitri eletti di comune accordo da Cosio e Montegrosso determinarono quali beni dovessero essere soggetti alla decima in favore del comune di Cosio.
L’11 ottobre 1361 i deputati delle due comunità procedettero quindi alla divisione dell’alpe di Pisio, mentre un’altra controversia sarebbe stata risolta con sentenza pronunciata il 26 aprile 1373 dal luogotenente dei nobili Corradino e Opezzino della Lengueglia, signori di Cosio. Il 24 giugno 1447 venne infine risolta, grazie all’intervento del doge di Genova Campofregoso, la vertenza relativa ai possedimenti situati oltre l’Arroscia, denominati planum Borniae, la ferrea, la Ceponea e l’Alpixella. La successiva dissoluzione della castellania di Cosio avrebbe determinato il sorgere di lotte secolari tra le tre comunità in merito al possesso e allo sfruttamento di pascoli, prati, boschi e orti, tra cui soprattutto le ancise, ossia gli orti e le vigne dei Cosiesi situate nel territorio di Montegrosso, dove erano anche una ferriera, un mulino e forse i più antichi vigneti di vino Ormeasco della valle, che le disposizioni statutarie allora vigenti avevano attribuito in proprietà temporanea a coloro che vi lavoravano in modo stabile e duraturo.
Il 20 febbraio 1424 il cancelliere genovese Nicolò di Camogli, su incarico di Luciano Spinola, investito a sua volta dal Senato di Genova della definizione della controversia tra i Ventimiglia e i Lengueglia, assegnò ai legittimi successori dei signori Giacomino e Bonifacio della Lengueglia Cosio, la villa di Mendatica con la metà di Montegrosso, di Borghetto di Mendatica e della Bastita dei Gaibizi (detta volgarmente “a Rocca da Bastia”), mentre ai Conti di Ventimiglia venne attribuita l’altra metà di Montegrosso, del Borghetto e della Bastia. Il 13 giugno 1449 i rappresentanti di Montegrosso, Cosio e Mendatica prestarono quindi solenne giuramento di fedeltà alla Repubblica di Genova, che estese così il suo dominio a tutta l’alta Valle Arroscia. I possedimenti dei Ventimiglia passarono intanto verso il 1460 nelle mani di Onorato I di Tenda, al quale successe il figlio Giovanni Antonio Lascaris, la cui unica figlia, Anna, si sposò nel 1501 con Renato Filiberto di Savoia, dal quale ebbe due figli, Claudio e Onorato II.
Alla morte di Claudio, divenuto nel frattempo conte di Tenda, i suoi beni passarono alla figlia Renata nel 1566, mentre entrava in scena anche il duca Emanuele Filiberto di Savoia, che stipulò un’intesa con la figlia di Onorato II Enrichetta, la quale gli cedette il 10 aprile 1575 il contado di Tenda e la signoria del Maro, seguita pochi mesi dopo pure da Renata, che il 15 e 16 novembre 1575 cedette al duca sabaudo le sue signorie sulle valli del Maro, su Pietralata, Oneglia, Pornassio, Carpasio e altri paesi già appartenenti alla contea di Ventimiglia. Il 16 aprile dell’anno successivo Emanuele Filiberto acquistò da Gian Gerolamo Doria anche la valle di Oneglia, che nel 1580 il duca eresse alla dignità di Principato.
Durante la successiva guerra tra la Repubblica di Genova e i Savoia, scoppiata nel 1625 per il possesso del Marchesato di Zuccarello, il paese di Montegrosso venne completamente distrutto dai Piemontesi il 28 febbraio 1627, forse in seguito ad atti di ostilità compiuti dalla popolazione nei confronti del governo sabaudo o a qualche offesa ai danni dell’esercito piemontese, che incendiò anche il paese di Borghetto, che non sarebbe più risorto a differenza di Montegrosso che venne successivamente ricostruito. Dopo oltre un secolo e mezzo di relativa pace, la zona di Montegrosso divenne nuovamente teatro di aspri combattimenti a partire dal 1793 tra le forze dell’esercito rivoluzionario francese e quelle austro-piemontesi, che si lasciarono andare a rapine, perquisizioni di bestiame e abusi di ogni tipo ai danni della popolazione montegrossina.
Dopo gli anni della Repubblica Ligure, Montegrosso venne annesso all’Impero francese nel 1805 entrando a far parte, insieme a Cosio e Mendatica, del circondario di Porto Maurizio. Caduto l’Impero napoleonico, il paese fu aggregato al Regno di Sardegna con il resto della Liguria nel 1815, passando sotto la giurisdizione della Divisione di Nizza fino al 1860, quando, ceduto il Nizzardo alla Francia, il borgo venne inglobato nella provincia di Porto Maurizio.
Uscito praticamente senza conseguenze dal terremoto del 23 febbraio 1887, che causò soltanto lievi danni ad alcuni edifici senza provocare vittime, Montegrosso ebbe diversi caduti nel corso della prima guerra mondiale. Dopo l’avvento del fascismo, nel 1924 il paese venne aggregato a quelli di Cosio e Mendatica in un Comune unico, che però, a causa dell’incremento del debito che raggiunse un livello ormai di fatto insostenibile, fu sciolto l’anno successivo su richiesta delle autorità di Montegrosso e Mendatica, le quali ottennero così la separazione da Cosio per andare a formare un Comune unico per conto proprio. Nel corso della successiva guerra di Liberazione la zona di Montegrosso fu al centro di scontri armati tra partigiani e Tedeschi, che si fermarono in modo sporadico nel paese per qualche giorno nei mesi di settembre, novembre e dicembre del 1944, mentre a partire dal settembre ’44 iniziò la sua attività il CLN locale, che avrebbe attivamene collaborato con le forze partigiane operanti nella zona.
Nell’agosto del ’44 un gruppo di partigiani, guidati da Giuseppe Arimondo di Alassio, si era intanto scontrato con una pattuglia di Tedeschi a Pian Latte, dove lo stesso Arimondo rimase ferito, mentre il 7 dicembre successivo un reparto tedesco, informato della presenza in paese di alcuni partigiani, circondò all’alba Montegrosso, facendo fuoco contro sette garibaldini, che vennero fatti prigionieri tranne uno, lo studente universitario Francesco Paganesi, il quale, tentata la fuga, rimase mortalmente colpito al capo da una raffica di mitra in località Vignai. Il capitano tedesco ordinò quindi all’arciprete di Montegrosso don Giacomo Leone di far seppellire il caduto alla chetichella, mentre i sei garibaldini catturati non vennero fucilati perché l’informatrice «Daniela», agente del Servizio Informazioni Militari, intervenuta presso il Comando tedesco di Pieve di Teco, aveva ricevuto la promessa che i sei sarebbero stati internati in un campo di concentramento in Germania.
Dopo questi drammatici episodi il borgo visse altri momenti di tensione negli ultimi mesi del conflitto, senza tuttavia che si verificassero nuovi spargimenti di sangue fino alla Liberazione. Nel secondo dopoguerra il paese, che ha riacquistato l’autonomia comunale il 28 dicembre 1949, ha vissuto un periodo di ripresa delle sue tradizionali attività economiche basate sulla viticoltura, l’agricoltura, praticata ormai solo per soddisfare i bisogni familiari, la distillazione della lavanda e l’allevamento del bestiame nei pascoli circostanti l’abitato come quello di Case Fascei, dove si svolge ancor oggi l’alpeggio estivo; da segnalare anche la presenza della sorgente di Santa Vittoria, che alimenta l’omonima industria di acque minerali, mentre parte della popolazione attiva si reca a lavorare fuori del territorio comunale, soprattutto nelle località rivierasche. In notevole crescita è pure il settore turistico, che può avvalersi di una ricezione basata su due ristoranti-albergo in grado di offrire un’ampia scelta di piatti tipici e vino dolcetto di produzione locale.
Di grande interesse turistico sono anche le numerose escursioni che si possono effettuare nei dintorni del paese, come ai «Tecci», a 1300 metri di altitudine, dove sono ancora presenti le baite a pietra a secco raggiungibili da una strada fiancheggiante la pineta di Sant’Antonio, che prosegue tra boschi di faggi e noccioleti fino al piccolo Santuario della Madonna dei Monti con splendida veduta panoramica sull’intera vallata e sullo sfondo le Alpi Marittime. Dai Tecci si può arrivare fino alla vetta del Monte Monega che sovrasta i vasti pascoli di Pian del Latte, mentre dalla cascata del Gayetto si stacca uno strapiombo di oltre cinquanta metri, che è formato dal torrente Bastia, un affluente dell’Arroscia. Seguendo la mulattiera che parte da ponente del paese si raggiunge prima la Cappella di San Lorenzo, seminascosta tra il folto dei castagneti e poi la Ca’ Longa, antico penitenziario della Repubblica di Genova, ormai ridotta ad un ammasso di grosse pietre”.