Sanremo, ecco perché per dirigenti e dipendenti del Comune la Corte d’Appello ha confermato l’assoluzione
«Non può dirsi superata la soglia del “ragionevole dubbio” necessaria per poter pervenire ad una pronuncia di condanna»
Sanremo. «Conclusivamente, in riferimento a tutte le posizioni esaminate – e per tutti i capi di imputazione elevati ai singoli imputati ed oggetto di impugnazione – non può non rilevarsi come gli elementi acquisiti non consentano di supportare adeguatamente le censure avanzate dal pm avverso la pronuncia assolutoria del primo giudice e di superare le opposte argomentazioni difensive – che offrono una plausibile ricostruzione alternativa rispetto a quella dell’accusa – di talché non può dirsi superata la soglia del “ragionevole dubbio” necessaria per poter pervenire ad una pronuncia di condanna. Tali considerazioni valgono, a fortiori, in un giudizio, quale il presente, nel quale è richiesta, per poter ribaltare una sentenza di assoluzione impugnata dal pm, una motivazione rafforzata».
A scriverlo, nelle motivazioni della sentenza depositate oggi, è la Corte di Appello di Genova che lo scorso 21 gennaio ha confermato la sentenza di assoluzione per gli otto dipendenti del Comune di Sanremo, che erano finiti a processo (insieme ad altri colleghi) con l’accusa di truffa ai danni dello Stato e violazione della Legge Brunetta sul pubblico impiego, per l’infedele timbratura del cartellino.
Assolti in primo grado del gup Paolo Luppi, gli otto ex “furbetti” del cartellino che avevano scelto il rito abbreviato sono tornati in aula, a Genova, dopo che la Procura di Imperia aveva impugnato la sentenza. E la Corte d’Appello, ricalcando le motivazioni del giudice Luppi, ha confermato l’assoluzione, insistendo sul fatto che, tra l’altro, «per poter ribaltare una sentenza di assoluzione impugnata dal pm», è richiesta «una motivazione rafforzata», così come dice la Cassazione: «Ogni valutazione antagonista effettuata dal giudice dell’impugnazione per essere legittima deve essere caratterizzala dal serrato confronto con gli argomenti offerti dal primo giudice e dal loro persuasivo superamento».
E quindi, aggiunge il giudice d’Appello: «Tenendo conto di tali principi ermeneutici non può non ribadirsi come, nel caso in esame, gli elementi offerti dal pm a confutazione delle argomentazioni svolte dal primo giudice a fondamento della pronuncia assolutoria non possano ritenersi decisivi, a fronte delle risultanze processuali e dei rilievi avanzati dalle difese degli imputati, sì da non consentire a questa Corte di adempiere al particolare obbligo motivazionale impostogli per supportare un ribaltamento della pronuncia assolutoria oggetto di censura».
Nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, il giudice giustifica così le sanzioni disciplinari ricevute dai dipendenti pubblici: «Le condotte tenute da dirigenti e dipendenti, difformi al quadro normativo e regolamentare, sono certamente rilevanti sotto il profilo disciplinare (e giustificano pienamente le sanzioni irrogate in tale ambito in relazione alle violazioni a ciascuno di essi ascritte ed oggettivamente accertate)». Ma aggiunge: «Questa Corte ritiene peraltro, discostandosi, sul punto, dalla tesi propugnata dal pm appellante — e dal PG, che ha abbracciato l’impostazione accusatoria proposta in atto d’appello – che all’irregolarità nell’attestazione della presenza e/o nella giustificazione delle uscite per servizio del dipendente non possa conseguire direttamente ed automaticamente la prova della sua assenza (ovvero dell’ingiustificato allontanamento) dal servizio».
In pratica, secondo la Corte d’Appello non ci sarebbero prove sufficienti per dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che gli imputati abbiamo commesso i reati a loro ascritti.