Il vescovo di Genova Teodolfo donò terre a coloni sanremesi: il racconto dello storico Andrea Gandolfo

Costituirono il primo nucleo del patrimonio della chiesa genovese nel territorio matuziano
Sanremo. Il tradizionale appuntamento con la storia matuziana a cura dello storico Andrea Gandolfo questa settimana è dedicato alla donazione del vescovo di Genova Teodolfo nel marzo del 979 ad alcuni coloni sanremesi e taggesi di una serie di terre in enfiteusi, che andarono a costituire il primo nucleo del patrimonio della chiesa genovese nel territorio matuziano.
Ecco dunque il racconto dello storico Andrea Gandolfo sulla donazione del vescovo Teodolfo: «Cessato definitivamente il pericolo delle incursioni saracene, molti matuziani, lasciati i rifugi sulle montagne, ridiscesero sulla costa e iniziarono la costruzione di un nuovo centro abitato sulla cima del colle della Pigna, primo nucleo fortificato del futuro Castrum Sancti Romuli (Castello di San Romolo), il toponimo con cui sarà chiamato il primitivo borgo sanremese a partire dalla fine del X secolo. Tale toponimo si sarebbe quindi trasformato, per effetto della pronuncia locale del nome Romolo, in quello attuale di Sanremo a partire dal XIV secolo, ma tuttavia in questa sede si è preferito adottare il toponimo odierno anche per il periodo precedente, considerata la perfetta corrispondenza delle due diverse denominazioni alla stesso nucleo urbano. Il villaggio appena sorto sulla costa era costituito, nella parte esterna, da un fitto schieramento di alte case-torri, collegate con un primordiale sistema stradale tramite una serie di scale e rampe che partivano dal primo piano degli edifici. Il nucleo abitato era poi protetto da una cerchia di mura, che si potevano oltrepassare attraverso cinque grandi porte. Dal momento della sua fondazione fino alla metà del XII secolo il Castrum Sancti Romuli sarebbe rimasto soggetto all’amministrazione dei conti di Ventimiglia, la cui giurisdizione territoriale si estendeva fino al corso del torrente Armea, anche se in realtà esso si poteva considerare una diretta dipendenza del vescovo di Genova, che possedeva tutte le principali proprietà fondiarie sanremesi, usufruendo dei molti diritti e prebende che ne derivavano. Nell’ambito della generale ripresa economica e ricostituzione abitativa del comprensorio di Sanremo successiva alla fine delle incursioni saracene, si colloca anche, intorno ai primi decenni dell’XI secolo, la costruzione di una chiesa a tre navate, con lesene di tipo romanico, che rappresenta il primo assetto architettonico della futura basilica romanico-gotica di San Siro; resti del pavimento di questa primitiva costruzione sono stati infatti trovati tre metri al di sotto della pavimentazione dell’attuale basilica. La ripresa delle attività sociali ed economiche nel territorio sanremese è ulteriormente confermata dal contenuto di una serie di documenti emanati tra il 979 e il 980 dal vescovo di Genova Teodolfo, rappresentante della Curia genovese in terra sanremese e proprietario delle principali tenute agricole della zona. Tra le varie iniziative attribuite a questo presule, che era un convinto fautore del monachesimo benedettino, spicca quella di aver fondato a Genova l’abbazia di Santo Stefano, in cui radunò molti monaci benedettini, già residenti nel più antico monastero di Bobbio. Proprietà terriere dei monaci di questo cenobio sono documentate, a partire dal 1028, anche nel territorio di Sanremo, dove i frati affittavano i loro terreni a coloni locali accontentandosi di riscuotere una parte del raccolto. In particolare, nell’agosto del 1028, l’abate di Santo Stefano Eriberto concesse in affitto alcuni poderi situati nelle vicinanze del monte Colma, nell’immediato entroterra sanremese, a un gruppo di coloni della zona; oltre alla corresponsione di due polli e due cime all’anno, il canone pattuito con i coloni prevedeva la consegna all’abbazia genovese di un quarto della produzione di vino e di un settimo di quella di cereali e legumi. Nei pressi del Castello sanremese questi Benedettini genovesi costruirono anche una chiesa, alla quale era annesso un ospedale, dedicata come la casa madre a Santo Stefano e ubicata nella stessa area dove oggi sorge l’omonima chiesa; l’esistenza di questo edificio religioso è attestata per la prima volta in un documento del novembre 1069, quando un certo Vitale donò ai Benedettini una terra e metà di una vigna situate nei dintorni del Castello. Nel marzo del 1142 i Benedettini dell’abbazia di Santo Stefano avrebbero anche ottenuto dal vescovo di Albenga Ottone la conferma del diritto di riscuotere le decime nel proprio possedimento situato nel comprensorio sanremese. In seguito a questa decisione, presa dal vescovo ingauno su esortazione di papa Innocenzo II, si verificò una vera e propria riorganizzazione amministrativa dei beni ecclesiastici della curia genovese nel territorio sanremese e taggese; i beni ubicati ad est del torrente Armea, cioè nella zona taggiasca, vennero infatti affidati alla gestione dei monaci benedettini di Santo Stefano, mentre quelli a ovest continuarono ad essere amministrati in parte dalla curia genovese e in parte vennero concessi anch’essi ai Benedettini di Santo Stefano» – racconta Andrea Gandolfo.
«Tornando alle vicende del vescovo Teodolfo, questi, nel marzo del 979, persuaso forse dal notevole livello produttivo e qualitativo raggiunto dai suoi terrenti situati nel comprensorio sanremese, decise di accettare una petizione presentatagli da un gruppo di trentanove coloni locali, con la quale questi ultimi chiedevano al presule genovese la concessione in enfiteusi di due mansi, ossia vasti appezzamenti di terreno coltivabile, situati a Sanremo o nelle sue immediate vicinanze e corrispondenti alla metà circa dei possedimenti della curia genovese in quella zona. Il primo manso comprendeva un’ampia porzione di terreno collinare e montano, costituita da terre, boschi, canneti, oliveti, saliceti, campi e pascoli, con ampia disponibilità di risorse idriche; questo grande podere si estendeva dalla cima di monte Bignone a capo Pino, situato nella parte sud-occidentale del territorio sanremese, inglobando le località di Tramonti, Poggio, Gurrino, Baragallo, Biulare e Castellare, oltre alla torre di Telamone, il canale Castagnanico e il castello di Cariasco. Il secondo, confinante con il precedente e situato al di là del torrente Armea, corrispondeva alla metà circa dei terreni del vescovo genovese nel comprensorio di Taggia; la richiesta al vescovo Teodolfo per tale manso, che si spingeva fino a monte Bignone, estendendosi lungo il corso del torrente Argentina, venne avanzata, oltre che dai succitati trentanove coloni, anche da un tal Giselberto a nome proprio, della moglie e dei figli. Esso incorporava all’interno dei suoi confini, compresi tra i monti Ceppo e Bignone e le colle non più identificabili di Clemapa e Clemura, diverse località quali il castello di Campomarzio, l’antica fortificazione bizantina ubicata nei pressi di Badalucco, e il Canneto, forse la zona dell’estuario del torrente Argentina, che raggiungeva sicuramente anche il territorio dell’attuale paese di Taggia, come attesta la presenza in questo borgo della chiesa benedettina di Santa Maria del Canneto, nome sicuramente derivato dall’antico toponimo locale. Il manso situato nel territorio taggese, analogamente a quella di Sanremo, era formato da campi, canneti, oliveti, saliceti, vigne e alberi da frutta, con la possibilità di usufruire di adeguati rifornimenti idrici» – sottolinea Andrea Gandolfo.
«Nel marzo 979 dunque il vescovo Teodolfo accettò l’offerta propostagli dai trentanove coloni sanremesi, spinto dal desiderio di alleviare la miseria di questi contadini concedendo loro di coltivare le sue terre a un fitto praticamente simbolico e dall’opportunità di ricavare un modesto profitto da quei vasti terreni, che sarebbero potuti diventare in futuro particolarmente produttivi. Le condizioni dell’affitto, previste dal relativo atto notarile stipulato a Genova, erano molto simili a quelle imposte ai coloni di altre zone: si trattava di pagare un basso canone annuo in denaro, corrispondente a due soldi e cinque denari; scaduto il primo anno, i coloni dovevano inoltre versare al vescovo la nona parte del raccolto, probabilmente costituito per lo più da grano, orzo, avena, fave e ceci, mentre alla scadenza del secondo anno, i coloni ne dovevano cedere l’ottava parte, a quella del terzo invece la settima, quota che rimaneva fissa anche per gli anni successivi. Nelle altre clausole del contratto i coloni si impegnavano a impiantare sul territorio colture di lunga durata, quali fichi, ulivi, viti e alberi da frutto in genere, tra cui, con ogni probabilità, meli, peri, mandorli, noci e agrumi. Il vescovo concedeva quindi ai coloni il permesso di praticare queste colture in cambio di un pollo da ciascuno dei trentanove contadini per i primi dieci anni, mentre, trascorsi questi dieci anni, quando cioè gli alberi sarebbero stati presumibilmente nel pieno delle loro capacità produttive, il tributo da corrispondere sarebbe stato pari alla metà del raccolto. Era sancito inoltre che il contratto terminasse alla seconda generazione dei coloni, rimanendo quindi in vigore soltanto per la durata della vita dei coloni che l’avevano stipulato e dei loro figli; alla morte di un contraente poteva comunque subentrare un altro, forse della stessa famiglia, mentre era espressamente previsto che chiunque non avesse pagato il canone pattuito sarebbe stato privato del suo tratto di terreno. Non è chiaro invece a cosa corrisponda l’esca promessa dai coloni al vescovo dopo un tempo indeterminato: si potrebbe trattare, come attestato in altri documenti dell’epoca, di ghiande per i porci, o più in generale di foglie per il letame o per il letto degli animali destinati al pascolo; era infatti abitudine dei signori feudali di avvalersi, presso i loro sottoposti, del diritto di scatico, cioè la raccolta di esca, effettuata soprattutto nelle zone boschive. Per evitare poi che i terreni ceduti in enfiteusi potessero essere venduti a stranieri, il vescovo stabilì che i coloni potevano cedere i loro diritti di coltivazione soltanto a persone che risiedevano nel Castrum di Sanremo. Quest’ultima clausola evidenzia chiaramente la recondita intenzione del vescovo Teodolfo di trasformare i suoi possedimenti sanremesi in una vera e propria signoria di natura politica; certo è comunque che Teodolfo e gli altri esponenti della classe dirigente di Genova avrebbero voluto costituire una vera e propria signoria genovese attorno al Castrum Sancti Romuli, anche se, alla fine, tale ambizioso progetto venne lasciato cadere, forse per le forti resistenze di natura politica incontrate nella fase di preparazione dell’occupazione militare del territorio sanremese. Una motivazione secondaria alla base di questa clausola sembra sia stata quella di evitare il rischio che i terreni sanremesi della curia genovese finissero in mano a banditi, cioè a cittadini espulsi dalle proprietà di altri signori. Tali banditi erano infatti considerati particolarmente pericolosi per il fatto di essere persone ribelli e disobbedienti agli ordini, tanto che il signore che li avesse eventualmente accolti nelle sue tenute si inimicava profondamente quello che li aveva espulsi, e quindi accadeva che nessuno ospitava questi elementi indesiderati per non compromettere i rapporti di buon vicinato con gli altri signori della zona» – fa sapere Andrea Gandolfo.
«Nel 980 il vescovo Teodolfo emanò un’ordinanza episcopale con cui, dopo aver preso atto delle devastazioni operate dai saraceni nelle proprietà della curia genovese site nel territorio di Sanremo e Taggia e del fatto che quest’ultime erano rimaste pressoché disabitate e non rendevano più né decime né redditi, decise di affidare l’amministrazione economica dei tre quarti dei possedimenti vescovili nella zona sanremese e taggiasca, a patto che questi non venissero alienati, e la cura d’anime delle relative chiese battesimali, ai chierici cardinali della diocesi genovese; la restante quarta parte era invece data in usufrutto allo stesso presule genovese e ai suoi legittimi successori. Altre proprietà ecclesiastiche ubicate nel comprensorio sanremese vennero in seguito concesse in feudo dal vescovo di Genova ad alcuni membri del clero e notabili del luogo. Il primo che ottenne l’enfiteusi di una di queste tenute fu un certo prete Martino, padre di quattro figli, che diede origine al casato dei Premartini; successivi beneficiari di queste concessioni furono i due maggiorenti Paolo e Ricolfo, fondatori delle famiglie locali dei Paolenghi e dei Ricolfenghi, oltre a vari altri coloni della zona, assunti anch’essi con contratti livellari. I tenutari di queste proprietà sanremesi del vescovo di Genova godevano dell’esenzione dal pagamento delle decime, dei dazi e degli altri diritti feudali, che erano invece regolarmente corrisposti dagli altri coloni; gli unici obblighi a cui dovevano attenersi erano quelli di difendere i terreni loro affidati e di rimanere fedeli al vescovo genovese, al quale dovevano rendere omaggio se si fosse recato in visita pastorale a Sanremo, offrendo ospitalità e adeguate cavalcature a lui e agli altri membri della Curia. In particolare, le tre famiglie dei Premartini, dei Paolenghi e dei Ricolfenghi conseguirono rapidamente un notevole grado di ricchezza e benessere, che avrebbe permesso loro di raggiungere entro breve tempo il vertice della classe nobiliare locale» – concluse Andrea Gandolfo.