Green pass, vaccini e indennizzi. La parola agli esperti
Due le reazioni gravi in provincia di Imperia dall’inizio della campagna vaccinale
Sanremo. Per prima la tragica morte della giovane Camilla Canepa, diciottenne di Sestri Levante deceduta lo scorso 10 giugno dopo aver ricevuto la prima dose di AstraZeneca. Pochi giorni fa, il caso di un suo coetaneo sanremese, volontario di una pubblica assistenza, ricoverato tuttora in Neurologia a Imperia per l’insorgere della sindrome di Guillain-Barré. Infine un altro uomo di Riva Ligure, ultra sessantenne, affetto dalla stessa sindrome invalidante post-vaccino e morto per le complicazioni legate alla malattia. Sono rari, rarissimi (in provincia di Imperia meno di 1 ogni 150 mila somministrazioni secondo i dati di Asl1) i casi di reazioni avverse gravi.
Notizie che scuotono sia i favorevoli che i contrari all’imponente campagna vaccinale in atto. Il sottosegretario alla Salute Andrea Costa, in visita a Sanremo giovedì scorso, aveva chiarito che «quando è possibile stabilire il nesso causale, è giusto che lo Stato si assuma i costi e le conseguenze degli effetti indesiderati. Per questo in Italia c’è già una legge che tutela i cittadini». Una misura di civiltà, necessaria per dimostrare la presenza nello Stato nei momenti più difficili. Per capire meglio quali sono i diritti dei pazienti che hanno prestato il consenso informato, sottoponendosi volontariamente al vaccino per il coronavirus, abbiamo voluto porre alcune domande all’avvocato sanremese Edilio Grappiolo, contitolare di Forum Srl Sta, prima società tra avvocati costituita in Provincia di Imperia che si occupa da 17 anni di risarcimento del danno derivante da colpa medica.
Dall’avvio della vaccinazione di massa e globale che oggi ci interessa, sono in moltissimi a chiedersi se, in caso di effetti dannosi subiti a seguito della somministrazione del vaccino contro il Covid-19, si può ottenere un risarcimento.
«Preliminarmente, è opportuno chiarire la differenza tra risarcimento e indennizzo: il risarcimento è il ristoro che consegue ad un atto illecito, quindi ad un’ipotesi di responsabilità civile, che scaturisce da una condotta che la legge vieta e punisce. L’indennizzo è previsto invece in quei casi in cui un danno non viene causato da una condotta illecita, quindi non vi sarebbe alcun obbligo di risarcire i pregiudizi creati, ma la legge, che consente o addirittura impone quel comportamento, cagionante in quel caso un danno, ritiene opportuno che il soggetto leso riceva comunque una somma, per porre rimedio ad una situazione ingiusta. Il riferimento normativo è rappresentato dall’articolo 1.1 della Legge 210/1992, con cui il legislatore stabilisce che “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”».
Quindi le vaccinazioni non obbligatorie, anche se raccomandate, come quella da Covid-19, in caso di eventi avversi non danno diritto ad alcun indennizzo?
«Questo dice effettivamente la norma, però il tema dell’ingiustizia, stabilito per le sole vaccinazioni obbligatorie, è stato sollevato qualche anno fa davanti alla Corte Costituzionale, adita dalla Corte di Cassazione, che a sua volta aveva sollevato dubbi di costituzionalità della legge in questione, nella parte in cui non prevede che il diritto all’indennizzo spetti anche a soggetti che abbiano subito lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa di una vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata».
E la Corte Costituzionale che cosa ha deciso?
«I dubbi erano legittimi, anche alla luce di sentenze precedenti, in cui la Consulta ha assimilato le vaccinazioni obbligatorie alle vaccinazioni raccomandate, in quanto “...In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo, cioè la tutela della salute (anche) collettiva. In presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie….“. Alla luce di questa giurisprudenza, la vaccinazione anti-Covid, pur non obbligatoria se non per il personale sanitario, ma fortemente raccomandata per tutta la popolazione, legittima il riconoscimento di un indennizzo in caso di danni permanenti sulla salute».
La campagna vaccinale contro il Covid ha comportato anche il susseguirsi di moduli per il consenso, ed altri allegati informativi sugli effetti dei diversi vaccini somministrati che hanno creato non poca confusione.
«Per fortuna negli anni la giurisprudenza ha chiarito il significato di questo concetto. La Suprema Corte ha definito l’ampiezza del concetto di “consenso informato”, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico. Esso impone che quest’ultimo fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare, o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità ed eventuali conseguenze, sia pure infrequenti, col solo limite dei rischi imprevedibili, ovvero degli esiti anomali, al limite del caso fortuito, che, una volta realizzatisi, verrebbero comunque ad interrompere il necessario nesso di casualità tra l’intervento e l’evento lesivo, e quindi escluderebbero la responsabilità del medico».
La domanda che sorge spontanea, per quanto riguarda il Covid, è quindi la seguente: se si firma il modulo del consenso alla vaccinazione e il vaccino crea problemi alla salute, a chi ci si deve rivolgere per avere un risarcimento?
«La Cassazione proprio di recente ha avuto modo di chiarire, in relazione ad un farmaco che ha creato problemi di salute ad un paziente, che il produttore è responsabile se il bugiardino presenta un contenuto generico, che non consente al consumatore di essere consapevole dei rischi a cui va incontro, e quindi di decidere a ragion veduta se correrli o meno. Non è quindi sempre lo Stato a dover risarcire. In ogni caso, le questioni legate alla pandemia ed al risarcimento dei danni derivanti dalla vaccinazione, o da altre questioni ricollegabili alla gestione della pandemia, al momento sono ancora scarse. Saranno quindi i tribunali, come sempre, a segnare un sentiero in materia, perché immersi, più delle istituzioni, nella realtà quotidiana dei cittadini».
Qual è l’opinione dei costituzionalisti sulla legittimità dell’obbligo vaccinale?
«Il tema dell’obbligo vaccinale presenta profili di particolare complessità, in quanto va ad interessare fondamentali valori e diritti costituzionali, tra i quali il diritto alla salute, di cui all’articolo 32 della Costituzione, ed il dovere di solidarietà sociale, previsto dall’articolo 2. Premesso che il trattamento sanitario obbligatorio può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente in maniera rilevante sullo stato di salute di colui che ad esso è assoggettato, occorre effettuare un necessario bilanciamento tra la minimizzazione dei rischi e la massimizzazione dei vantaggi, mediante l’individuazione di una soglia di pericolo accettabile, da compiersi sulla base di una completa e accreditata letteratura medico scientifica.
Nel caso della pandemia di Covid-19, con riferimento al vaccino, non sono state ancora accertate le reazioni avverse e le complicanze derivanti dalla somministrazione dello stesso, stante il ridotto lasso temporale della sua diffusione Alla stregua dell’articolo 32 della Costituzione, la salute non è solo oggetto di un diritto individuale, inteso come diritto alla cura e diritto di non curarsi, ma anche un interesse della collettività. Al riguardo la Corte Costituzionale con sentenza n. 307/1990, ha precisato che “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione, se il trattamento sia diretto a migliorare o a preservare lo Stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo, che inerisce al diritto di ciascuno alla salute, in quanto diritto fondamentale”.
Ed ancora la Corte Costituzionale, con sentenza n. 218/1994, ha stabilito che la tutela della salute implica anche il “dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno a trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri”.La Corte costituzionale, infine, con la sentenza n. 268/2017, “ha stabilito che gli obblighi di vaccinazioni obbligatorie possono essere considerati necessari in una società democratica”.
Questa ricostruzione dell’obbligo vaccinale “controbilanciato”, incontra il consenso della maggioranza dei costituzionalisti, tra i quali voglio ricordare Sabino Cassese, già presidente emerito della Consulta, che recentemente ha affermato: “Suggerisco brevi corsi sulla storia d’Italia, per ricordare a tutti i dubitanti che obblighi vaccinali sono stati disposti già nel 1939, nel 1963, nel 1966, nel 1991 e nel 2017; che le persone in età pediatrica, da 0 a 16 anni, sono già soggetti ad un obbligo vaccinale. Quest’obbligo riguarda ben 10 vaccinazioni. Inoltre, vi sono anche sanzioni: sanzioni pecuniarie e di segnalazione alle Procure presso i tribunali dei minorenni. Infine, malattie una volta epidemiche, come la poliomielite e il morbillo, sono state quasi completamente sradicate, non solo in Italia, grazie a vaccinazioni obbligatorie, fatte a tappeto, perché solo la copertura vaccinale a tappeto può assicurare quell’interesse della collettività di cui parla la Costituzione”».
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Green pass sì, green pass no. Una forma indiretta di obbligo vaccinale sembrerebbe già esserci: la famosa certificazione verde è ormai necessaria in tutta Italia (altri Paesi europei ci stanno prendendo d’esempio), per lavorare e partecipare alla vita sociale. Cinema, teatri, bar e ristoranti la richiedono. Per non parlare della scuola e delle università. Di fatto per vivere un’esistenza completa il vaccino è requisito imprescindibile, se non ci si vuole sottoporre a un tampone ogni 48 ore. Sulla legittimità del green pass abbiamo interpellato un altro fine giurista sanremese, docente di diritto Costituzionale all’Università di Genova.
Professoressa, partiamo da cosa dice la Corte costituzionale a proposito di indennizzi?
«La Corte costituzionale nella sentenza 118 del 2020 (Redattore Zanon) ed in altre pronunce in punto di indennizzo ha chiarito che: «In presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli” per cui anche se il vaccino non è obbligatorio l’indennizzo, nel caso, va comunque riconosciuto».
Green passe e obbligo vaccinale. Lei da che parte sta?
«Quale incentivo al vaccino o al tampone, il green pass è una “spinta gentile” del legislatore perché non coercitiva, ma ispirata alle forme premiali tipiche del gioco. Ad ogni modo, se questo è il quadro, ben si comprende la delicatezza del profilo sanzionatorio (e dei relativi controlli) in quei casi in cui la sanzione viene erogata in forza non di un obbligo (vaccinale) legislativamente sancito, ma della sola mancata esibizione di una certificazione di natura amministrativa (quale è il green pass) che, in via generale, chiunque potrebbe anche per svariati motivi non richiedere e non avere (pur essendo vaccinato).
Cercando di approssimarci ad una prospettiva più giuridica e quindi inevitabilmente più formale, non è senza significato che lo stesso Consiglio d’Europa in una Risoluzione dello scorso gennaio, abbia invitato gli Stati a garantire che le scelte individuali in materia vaccinale non conducano ad “alcuna forma di discriminazione o svantaggio”, sottolineando, altresì, che eventuali certificazioni vaccinali dovrebbero avere solo lo scopo di monitoraggio. Dal canto suo, poi, il legislatore dell’Unione Europea ha affermato che il “certificato covid digitale europeo” non ha carattere autorizzatorio (a differenza, ad esempio, della patente di guida che autorizza a guidare), dal momento che l’individuo non deve essere “affrancato” da restrizioni delle proprie libertà individuali, ma semmai agevolato nel loro godimento nel periodo pandemico (così, ad esempio, esentando chi circola nell’UE dalle prescrizioni di quarantena).
Ciò conduce ad un ultimo ma non meno importante profilo: quello che tocca tutti ma ancor più direttamente e per più tempo gli stessi nativi digitali. Ovvero quale sia, cioè, la governance politica del green pass e la relativa infrastruttura tecnologica, trattandosi di aspetti che, al di là delle rilevanti ricadute sulla tutela di diritti fondamentali (legati, in particolare, alla sfera della privacy), hanno anche un fondamentale impatto sul futuro tecnologico globale. Al momento quello che si può dire è che la filosofia – e tecnologia – sottesa ad un siffatto strumento è diversa rispetto a quella che presidiava la App Immuni (progettata, peraltro, si ricorderà, quando ancora non v’era la disponibilità dei vaccini). Lì, infatti, il “core” del sistema era allocato negli Stati Uniti (in una infrastruttura gestita dalle big companies Apple e Google). Ora, invece, con D.P.C.M. del giugno scorso, il Governo ha investito sulla progettazione, implementazione, gestione ed evoluzione di una “Piattaforma nazionale-DGC”, per cui quanto immesso nel sistema dovrebbe beneficiare dell’elevato livello di tutela garantito in seno all’Unione europea.
E con ciò veniamo al punctum dolens della situazione. La grande assente di tutto questo risulta essere proprio l’Unione europea, apparsa carente di competenze non solo legislative ma addirittura tecnologiche in materia, rischiando così di farsi essa stessa mera spettatrice di una partita che è andata e va altrove svolgendosi. Cosa tanto più negativa, ci pare, per chi condivide l’idea che solo un “Unione digitale” avrebbe la capacità di fare da contrappeso democratico al solidificarsi di monopoli tecnologici su scala globale, è, quindi, l’urgenza di poter contare su di una piattaforma comune, solida e capillarmente diffusa».