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Nuovo ospedale di Taggia, il professor Serrati: «Sarebbe un grave errore non pensare a una rete territoriale forte»

Il punto di vista del primario di Neurologia di Asl1 sulle trasformazioni della sanità in provincia di Imperia

Sanremo. Il professor Carlo Serrati, primario di Neurologia clinica di Asl1, ospite dei nostri studi, affronta alcuni temi importanti: dalla trasformazione degli importanti reparti da lui diretti durante la pandemia, operazione necessaria per mantenere i presidi sul territorio, all’imminente ritorno alla normalità. Il cattedratico interpreta, infine, le difficoltà che si stanno riscontrando a convincere i sessantenni a vaccinarsi.

Carlo Serrati, tornato a Imperia dopo una esperienza decennale a Genova, parla da un punto di vista inedito, dell’ospedale di Taggia che lui preferisce chiamare “nuovo“, proprio perché, a suo parere, dovrebbe ospitare alcune eccellenze, ma senza dimenticare gli attuali presidi da trasformarsi in ospedali di comunità e non da chiudere.

«La suddivisione tra gli ospedali di Sanremo e Imperia, con il “Borea” dedicato alla patologia infettiva – spiega Serrati –  ha fatto si che Imperia fosse dedicata  al trattamento dell’ictus e delle patologie neurologiche acute. E’ stata una scelta vincente e questo è stato possibile, grazie alla collaborazione di tutti i colleghi. A Sanremo, la neurologia ha mantenuto un’attività di consulenza e dal 1° gennaio siamo ritornati a fare ambulatorio, tutti i giorni per 6 ore. Dal 1° di settembre partiremo con l’attività di day hospital, immaginando che questa polarizzazione tra Imperia e Sanremo debba trasformarsi, cioè dobbiamo distribuire le forze e caratterizzare i percorsi. A Imperia si è lavorato molto bene, direi in termini di qualità e questo lo devono dire i pazienti, ma lo dicono anche i numeri. L’anno scorso abbiamo ricoverato circa 800 persone Abbiamo avuto 3 casi di covid che abbiamo prontamente isolato e abbiamo ricoverato più di 500 persone per ictus. In più c’è stata la conversione di alcuni letti all’interno dedicati alla continuità terapeutica».

Cosa ha scoperchiato, cosa ha fatto mergere, per quanto riguarda la nostra sanità e in particolare in provincia di Imperia la pandemia?

«C’è un aspetto che è diventato quasi oggetto  metafisico, una ossessione politica che è il tema del territorio. Presentato così il territorio è un concetto vuoto e, in realtà, deve essere riempito. Ciò vuol dire una rete di connessioni che aiuti i medici di medicina generale a fare meglio il loro lavoro, magari, immagino io, riducendo un po’ di attività burocratica con la possibilità di dedicarsi di più direttamente ai pazienti. E poi anche l’individuazione di figure sussidiarie che si integrano con strutture come potrebbe essere l’ospedale di comunità. Strutture intermedie che non necessitano di una nuova logistica ma che rappresentano la conversione di aree in blocchi di 18/20 letti dove prendono posto pazienti che possono essere ricoverati per patologie intermedie.Vuol dire che io che non devo più stare in ospedale, ma non posso ancora tornare a casa  trovo un luogo intermedio di assistenza ad alta gestione infermieristica, dove attendo il mio recupero opportunamente assistito. Diciamo una struttura cerniera tra la casa il territorio».

L’ospedale unico o ospedale nuovo, come si colloca in questo contesto?

«Preferisco il termine nuovo perché unico restituisce la sensazione di qualche cosa che spunta improvvisamente con il deserto intorno. Sarebbe un errore gravissimo pensare all’ospedale nuovo, che sia a Taggia o in un altro post poco importa, l’importante è che sia ragionevolmente bilanciato dal punto di vista della logistica, pensare a un ospedale non connesso con una rete territoriale forte. Gli ospedali di comunità, per esempio, potrebbero essere il rinforzo delle attività dei medici di medicina generale e di altre figure. Penso, per esempio all’ infermiere di comunità. Pensiamo ai paesini dell’entroterra, come possiamo pretendere che una persona da Molini di Triora debba venire all’ospedale nuovo per un intervento che può essere addirittura erogato sul posto. Quindi, per me, ospedale nuovo vuol dire ripensare completamente l’organizzazione dell’assistenza e questo ce l’ha fatto anche capire anche il covid».

 

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