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Gli muore il padre per Covid all’ospedale di Sanremo: «Riorganizzare il pronto soccorso»

8 giugno 2020 | 16:17
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Gli muore il padre per Covid all’ospedale di Sanremo: «Riorganizzare il pronto soccorso»

«Non vi è umanità nei trattamenti. Deve esserci una figura responsabile che controlli costantemente il modo di operare del personale e che intervenga immediatamente, anche con un licenziamento nei casi estremi»

Sanremo. Un lettore, Andrea Luzzi, ci ha scritto per raccontare la sua personale esperienza al pronto soccorso della Città dei Fiori: «Siete mai andati al pronto soccorso di Sanremo? Io sì e purtroppo più volte. Ho aspettato fino ad ora a scrivere perché mi sembrava giusto non andare ad agitare le acque in un momento di piena emergenza com’è stato questo periodo che copre marzo, aprile e maggio 2020. Ho aspettato, proprio per poter segnalare, per poter raccontare, per poter sottolineare quello che succede al pronto soccorso di Sanremo».

Il padre del signor Luzzi è morto all’ospedale di Sanremo a causa del coronavirus dopo aver passato un’odissea al pronto soccorso: «Io ho un papà che è stato colpito dal Covid-19. A metà febbraio mio padre e mia madre si sono sentiti male, febbre, stanchezza e tutti i sintomi che derivavano da questo maledetto virus. In quei momenti si sentiva dire che girava nel mondo, in Cina e che poi fosse arrivato in Lombardia, ma qui nella provincia di Imperia ancora non vi era segno. Cosa fanno i miei genitori, vanno a farsi visitare dal medico di famiglia, che purtroppo neanche li degna di uno sguardo, per cui tornano a casa nella speranza che questa influenza passi. Dopo una settimana i miei stanno sempre male, deboli e doloranti, cosa faccio? Chiamo il medico di famiglia chiedendogli di venire a casa per una visita di controllo, visto che loro, di 85 e 83 anni, erano debilitati e non se la sentivano di uscire. La risposta del medico è stata insofferente: visto la mole di lavoro che aveva, gli dava fastidio dover venire a casa, ma dopo mie insistenze mi comunicò che sarebbe passato nel pomeriggio.

Esito della visita: “blocco psicologico”, dovevamo incitarli ad alzarsi ed a mangiare perché si stavano lasciando andare. Io mi sono fidato, me lo dice un dottore dopo una visita, cosa devo fare, ed allora giù a spronarli ad alzarsi, a mangiare, a farli camminare, ho ancora in mente lo sguardo di mio padre che mi diceva: “non ce la faccio più”, “non riesco a mangiare” e noi sempre lì a farlo camminare ed a farlo mangiare insistendo per il suo bene, e lui che mi chiedeva “ma quando mi passa” ed io per rassicurarlo gli rispondevo che doveva avere pazienza ancora una decina di giorni e sarebbe tornato il papà, il nonno e di il marito di sempre. Non era una bugia, io ci credevo, ma mi dovetti ricredere alcuni giorni dopo e cioè il 4 marzo.

Andando a casa dei miei genitori, prima di recarmi al lavoro, per accertarmi del loro stato di salute, trovai mio padre che non riusciva più ad alzarsi dal letto neanche con il nostro aiuto, non riusciva più a parlare, non riusciva a deglutire. Non potevo far altro che chiamare i soccorsi, che in men che non si dica arrivarono a casa; penso fossero quelli della Croce Verde di Arma di Taggia, che con il loro modo di fare gentile, amorevole e sopratutto umano, tranquillizzarono mio padre parlandogli, accarezzandolo e trattandolo come una persona in uno stato di difficoltà, non come un numero o un peso per loro. A questo punto si entra nell’inferno per i pazienti e nel purgatorio per i parenti e cioè arriviamo al pronto soccorso di Sanremo. Era il 4 marzo 2020 ore 9-9,15. L’inizio della fine.

Certo in ospedale ci sono tanti, anzi tantissimi operatori, infermieri e dottori che fanno bene il loro lavoro, ma penso che non li abbiano messi al pronto soccorso perché lì ne ho visti pochi. Al nostro arrivo mi ritrovo all’accettazione con mio padre in barella che non riusciva a respirare ed io a dover, giustamente, rispondere alle domande di una, credo infermiera, che mi chiedeva che medicine prendesse mio papà. Io purtroppo non ero a conoscenza del nome delle medicine perché, non vivendo con lui, era mia madre che gliele somministrava, allora l’infermiera guardandomi sbatté la cartella sulla sua scrivania dicendomi “ed allora cosa siete venuti a fare!!!” .

Devo dire che io a quel punto ho fatto finta di niente perché il mio principale obiettivo era che mio padre fosse visitato e curato anche se avrei voluto risponderle a tono, ma, trattenendomi, ho telefonato a mia madre e mi sono fatto dare i nomi delle medicine. Non contenta, la suddetta infermiera ha iniziato a cercare con l’ago la vena nel polso di mio padre, e non trovandola girava e rigirava quell’ago nella carne. Mio padre gemeva dal dolore ed io cercavo di calmarlo accarezzandolo finché la signora sbottò: “va beh non la trovo, ci penserà qualcun’altro”. A quel punto mio padre fu portato nello stanzone del pronto soccorso insieme agli altri pazienti e lasciato lì. Lui nello stanzone e noi, io e mio fratello, fuori ad aspettare.

Nella sala d’aspetto l’eccellente organizzazione ospedaliera ha giustamente messo due signore alle quali i parenti dei pazienti si devono rivolgere per avere informazioni sui propri cari e, teoricamente, queste signore si recano nello stanzone ed escono con notizie fresche. Questa è la teoria, ma la pratica è ben diversa, provate ad andarci e per quello che ho visto io, passandoci ore ed ore in attesa, loro passano il tempo a portare il caffè agli infermieri/dottori, mangiucchiare dolcetti che qualcuno ha loro portato, discutere con i parenti minacciandoli di chiamare la polizia al minimo segno di insofferenza. Ad un marito che è arrivato per avere notizie della moglie dopo 24 ore che era al pronto soccorso, hanno detto malamente di avere pazienza. Pazienza, ma come? Una persona non sa più niente da 24 ore della propria moglie, di un proprio caro, della persona che ama e con la quale ha passato tutta la vita insieme e deve avere pazienza! Ma un parente vede sparire un proprio famigliare e deve aspettare ore ed ore per sapere se è ancora vivo e cosa gli stanno facendo? No, mi dispiace, questo non è giusto, l’ospedale deve, e sottolineo deve, tenere costantemente informati i parenti sul decorso del ricovero perché così facendo una persona si tranquillizza ed aspetta con più fiducia e speranza.

Le due signore, quando uno chiede di poter entrare per stare accanto al proprio caro, si infastidiscono e indicano un cartello recante il regolamento/diritto del malato, dicendo che c’è scritto che per agevolare le cure i parenti devono stare fuori. Io nelle lunghe ore di attesa ho letto questo regolamento e vi è scritto che il malato, sopratutto sopra una certa età, credo i 75 anni, non ricordo bene, ha il diritto di avere una persona accanto. Bene, io ero lì, da molte ore senza avere notizie, cercando di sapere cosa avesse mio padre, se era stato curato, se stava meglio, ma niente di niente, nessuna risposta, allora cercando conforto ho finalmente trovato telefonicamente un amico che lavora in ospedale che ha chiamato in reparto ed ha mandato un dottore. Erano le 16. Erano passare 7 ore e mio padre, di anni 85, è stato ben 7 ore su un lettino del pronto soccorso senza essere visitato da un medico. Non aggiungo altro.

Alle 16 mi chiamano perché era arrivato finalmente il dottore per visitarlo e così bontà loro mi fanno entrare. Penso che il medico non abbia nemmeno guardato in faccia mio padre, ha guardato la cartella clinica ed ha deciso che era ora di fargli le lastre ai polmoni ed un elettrocardiogramma. Era ora; qualcosa si muove; e così nuovamente mi hanno sbattuto fuori ad aspettare. Dopo qualche ora mi chiamano chiedendomi di stare vicino al letto di mio padre perché si agitava e voleva strapparsi la maschera dell’ossigeno, ora finalmente ero lì, lo potevo vedere, accudire, ascoltare; lui con la mia presenza, e dopo con quella di mio fratello, era calmo e tranquillo e quel gesto che gli infermieri scambiavano come volersi togliere la maschera dell’ossigeno era solo il gesto che mio padre faceva per farsi il segno della croce, sì il segno della croce, perché in quei momenti di sofferenza ed abbandono lui pregava.

Io ero lì, vedevo tutti i pazienti che erano nello stanzone, ed è proprio per quello che dico che era un inferno, perché queste persone non vengono accudite come esseri umani, ma come numeri senza volto, sono nel letto mezzi nudi alla mercé di tutti, chi vuole passi pure di lì e vede delle persone in mutande, o peggio con il pannolone. Parliamo tanto di privacy, ma qui manca proprio il diritto alla dignità umana, per non parlare di quelli che si lamentano e vengono costantemente ignorati delle infermiere, chiedono l’acqua, chiedono di poter andare in bagno, di avere un sollievo per il loro dolore, mentre il personale ospedaliero non li guarda, li ignora, se non quando il lamento diventa troppo insistente. Per esempio io sono andato dal bancone per poter chiedere al personale se potevo bagnare le labbra a mio padre, ma dopo 5 minuti (di orologio) in piedi davanti a loro senza che mi considerassero alzando lo sguardo sono tornato vicino a mio papà.

Vogliamo parlare delle persone che devono essere visitate e che vengono fatte spogliare in stanze aperte dove chiunque le può vedere? No, questo non è giusto, non vi è umanità in quei trattamenti, il personale ospedaliero presente ha completamente perso il senso di umanità che dovrebbe esserci sempre. Si potrebbe pensare che fosse un momento di concitazione visto che si iniziava a parlare di Covid-19, no, non è così, perché un mese prima ho portato mia madre sempre lì, a causa di una fibrillazione cardiaca, e, dopo aver visto gli stessi atteggiamenti freddi, distaccati per non dire infastiditi del personale, ho dovuto lasciare mia mamma tutta la notte al pronto soccorso con una flebo che le permettesse di regolarizzare il suo battito, ma peccato che l’ago fosse stato messo male e non era in vena, per cui quando mia madre lo ha fatto notare all’infermiera di turno, la stessa invece che preoccuparsene e vedere di sistemarlo bene, lo ha schiacciato procurandole un forte dolore. Risultato: al mattino successivo vedo mia madre dolorante con un braccio gonfio più del doppio del normale. Flebite. Per non parlare del fatto che le misurano la glicemia nello stesso braccio dove le stanno facendo una flebo di acqua e zucchero per cui i risultati sembrano completamente sbagliati. Per continuare con il fatto che l’infermiera le misura la pressione, ad una signora dolorante con un braccio gonfio, ed invece che controllare il risultato se ne va a chiacchierare per poi tornare e ripeterglielo ben tre volte. Per cui, non venitemi a dire che c’era un periodo di urgenza, no, non lo accetto. Il gonfiore passò dopo circa un mese.

Torniamo a mio papà, io alla sera alle 20,15 l’ho salutato promettendogli di tornare al mattino. Al mattino io ero lì, ma lui era stato portato nel reparto malattie infettive, sospetto Covid, e da lì purtroppo non l’ho più visto né sentito se non in una bara 20 giorni dopo. Cosa sia successo in quei 20 giorni non lo so e capisco che questo virus sia stato una dannazione per tutti, come sia stato trattato, non lo voglio neanche sapere, preferisco immaginare che non abbia sofferto, anche se immagino che trovarsi soli, sofferenti in una stanza con solo la vista degli addetti coperti da protezioni totali non sarà stato tranquillizzante, ma ciò non ha più importanza.

Tutto questo racconto è solamente per chiedere a chi ha la possibilità di intervenire e di riorganizzare il reparto, perché se un infermiere non è portato non deve essere a contatto con il malato; se uno lavora in ospedale solo per lo stipendio, mi dispiace, ma ha sbagliato tutto; se un dottore non si informa delle condizioni del paziente se non attraverso la scheda clinica senza neanche rivolgergli una parola, senza guardarlo negli occhi, che scenda immediatamente dal suo pulpito sul quale si è messo, non è un dio, ha sbagliato tutto. Deve esserci una figura responsabile che controlli costantemente il modo di operare del personale e che intervenga immediatamente, anche con un licenziamento nei casi estremi.

Le persone malate hanno una loro dignità da difendere. Mio padre è morto il 24 marzo 2020, sicuramente sarebbe stato inevitabile, ma non voglio che per superficialità succeda ad altri, e che il trattamento che ho visto sia la normalità. Ciao papà, e come ci hai detto tu… Saluti» – racconta Andrea Luzzi.