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Baby gang a Ventimiglia, Magliano (associazione Grazie Don Bosco): «L’indignazione più grande dovremmo rivolgerla contro noi stessi»

26 ottobre 2019 | 12:38
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Baby gang a Ventimiglia, Magliano (associazione Grazie Don Bosco): «L’indignazione più grande dovremmo rivolgerla contro noi stessi»

«Credo sia venuto il momento di smetterla di lamentarci e di tirarci su le maniche, perché mentre questi ragazzi pagano il conto della loro condotta, noi possiamo cambiare qualcosa»

Vallecrosia. La lettera aperta di Marco Magliano, dell’associazione Grazie Don Bosco, in seguito agli episodi che hanno visto protagonista una baby gang:

«Ricordo perfettamente il giorno in cui, a lezione di pedagogia della devianza, il professore ci spiegò di come essa sia radicata nell’intimità della persona, si insinui fin sotto le coperte e che, nonostante ogni sforzo e intervento, alla fine la scelta è sempre personale, se agire secondo la norma o deviare da essa è una scelta della persona.

Ora leggo sui quotidiani online e nazionali, sento al telegiornale notizie faticose da “digerire” su una baby gang che ha agito nell’ultimo periodo a Ventimiglia, derubando negozi e non solo, il tutto in una escalation che parte dal furto di una bicicletta fino a fare un bottino di 8 mila euro. Non stiamo parlando di criminali professionisti, ma di ragazzini di 14/15 anni. Giovanissimi che organizzandosi hanno dato vita un colpo dietro l’altro ad una attività che devia fortemente dalla norma. La scelta, come detto in apertura, è stata personalissima, tutta loro.

Tuttavia resto sempre un po’ turbato nel sentire o leggere queste notizie. Ciò che più manca è il domandarsi “perché”? Se la scelta è imputabile solo all’individuo, perché una persona arriva a scegliere questa strada piuttosto che un’altra? “Devono pagare per il crimine”, sacrosanto, ma una volta saldato il debito che cosa ne sarà?

Se si leggesse delle loro storie non ci sarebbero più commenti, giudizi, ma un frastornante silenzio. Ci sentiremmo tutti un po’ toccati. Avremmo un senso di nausea misto a capogiro, una vertigine per un finale che era più e più volte già annunciato e che, come non esistesse altra trama possibile, si è avverato un passaggio dopo l’altro.

Credo che l’indignazione più grande la dovremmo rivolgere solo contro noi stessi. Noi scuola che esasperati, magari, abbiamo avuto un atteggiamento più espulsivo che accogliente; noi istituzioni che legati mani e piedi a norme e bilanci non siamo stati in grado di intervenire nel modo opportuno; noi famiglia che ci siamo persi il bello dell’essere genitori e siamo diventati spettri per coloro che dovevano sentire il nostro calore; noi società “civile” che alla forza del buon vicinato abbiamo sostituito uno spirito da “appartamento” in cui non sappiamo più farci carico delle difficoltà altrui e non sappiamo più insegnare a questi ragazzi che c’è una prospettiva più alta del fare soldi e avere successo, che la piena realizzazione non è essere rispettati per ciò che si ha, ma per ciò che si è.

Abbiamo fallito ancora una volta ed è inutile lavarsi la coscienza con il “che cosa avrei potuto fare di più”, “il sistema non funziona” e altre cose del genere. In una società coesa le risposte si trovano, si costruiscono, si superano le difficoltà economiche e si ha un peso specifico maggiore grazie al quale ci si può far sentire e dire che un ragazzo dovrebbe essere una risorsa e non un problema.

Troppo spesso ci si deve occupare di emergenze, urgenze, difficoltà impellenti e troppo spesso ci si scorda di attuare interventi preventivi. Una politica di prevenzione che anche in termini economici costerebbe molto meno del dover tamponare emorragie senza fine che passano di generazione in generazione senza una via di uscita, senza prospettiva di riscatto sociale.

A questi ragazzi, dopo il processo, verrà data una messa alla prova di un po’ di mesi, qualcheduno, magari nelle situazioni più disperate, verrà anche messo in una comunità per un anno o il periodo che si riterrà più opportuno, ma una volta uscito dalla comunità che cosa succederà se non cambiano le prospettive sul territorio? Quando verrà inserito in questo territorio, il comportamento sarà il medesimo di prima. È un cambiamento strutturale quello che va pensato, un cambiamento in profondità, nelle radici del tessuto sociale. Quindi il giovane ritornato dalla comunità, alla fine della messa alla prova, avrà veramente e concretamente le possibilità per cambiare vita, altrimenti a che cosa sarà servito?

A 17 anni ho partecipato al primo corso di formazione sui DSA e già lì, situazione molto diversa da quella che mi ha spinto a scrivere, assistetti ad uno scontro tra scuola, famiglie e professionisti. Ho 31 anni la situazione non è cambiata. Tuttavia, credo, possa e debba cambiare e solo il dialogo, il posare le armi e l’aprirci al confronto ci permetterà di non lasciare questi ragazzi/famiglie da soli, educati dalla strada, in balia del budget. Ci consentirà di sfruttare le risorse del territorio, quelle umane intendo, creando una trasversalità di risposte che parta dalla scuola e arrivi al lavoro, che passi dal mondo delle associazioni e del tempo libero e dell’inclusione sociale.

Fare rete non può più essere uno slogan e poco più è un’emergenza e vanno creati rapporti di autentica collaborazione e scambio creando protocolli e strutture più agili e che possano offrire soluzioni stabili e reali. In prima persona offro, come sempre, la piena collaborazione mia e dell’associazione per elaborare progetti e strategie, vorrei poter non scrivere più queste cose, ma dire questo è il resoconto in positivo dei ragazzi che abbiamo intercettato per strada e a cui abbiamo dato una nuova prospettiva.

Concludo dicendo che credo sia venuto il momento di smetterla di lamentarci e di tirarci su le maniche, perché mentre questi ragazzi pagano il conto della loro condotta, noi possiamo cambiare qualcosa e al loro ritorno far loro trovare una società pronta per essere un trampolino verso la vera costruzione della loro vita».