L’inquisizione e la colpa di essere donna, l’«affare» delle streghe di Sanremo

L’ossessione sessuofobica che nel Medioevo perseguitò più di 20mila donne non macchiò solo la vicina Triora
Sanremo. La caccia alle streghe, l’inquisizione, la colpa di essere donna. In Sanremo 500 Secoli il concittadino Giuseppe (Pipin) Ferrari racconta di un «misterioso affare» che coinvolse sei «femmine» accusate di «eresie stregonesche». Un saggio breve, dal titolo Le streghe assolte con formula dubbia, che a partire dagli atti del notaio Cherubino Ardissone denuncia quanto quell’ossessione sessuofobica che tra il 1300 e il 1600 perseguitò più di ventimila donne condannandole al rogo macchiò non solo la vicina Triora ma l’intero territorio.
Perché pur non trovando “fidanzate del diavolo” artefici di pestilenze o carestie né, tanto meno, erboriste avvezze alle arti magiche o levatrici affamate di bambini, anche il caso delle streghe di Sanremo trova inizio nella misoginia gravante sull’ideologia cattolica e sul becero popolino da cui scaturì il grande processo a cui il paese della Valle Argentina deve la sua fama.
Secondo quanto riporta Ferrari, infatti, nel 1447 all’autorità giunsero denunce anonime che muovevano il sospetto di stregoneria su alcuni cittadini. Il doge Giano di Campofregoso affidò al cugino carnale Pietro – a Sanremo per assumere la qualifica e il potere di capitano generale della Repubblica – l’incarico di individuare i nomi di questi «incogniti denunciatori», i quali non potevano essere altro che «femmine», poiché con «le femmine occorreva stare sempre all’occhio».
Un’opinione condivisa anche dal prete Antonio Guigliero, a cui Campofregoso si rivolge per avere maggiori dettagli, e che timoroso «di tirarsi addosso qualche pericolosa maledizione» da parte «delle presunte responsabili […] delle eresie stregonesche», si limitò a dire quel poco che gli conveniva. Ovvero, che «le autrici delle famose lettere anonime» erano state alcune «femmine».
Non cavando un ragno da un buco, il capitano, che «aveva voglia di spiccare in fretta l’affare, che punto gli piaceva perché era superstizioso», scelse allora alla cieca sei donne fra le «maggiormente indiziate», le imbarcò sulla sua galea e le mando al Tribunale di Genova. Qui iniziarono duri interrogatori che furono affidati a uno specialista in scienze occulte, un arcigno e spietato inquisitore, il vescovo Caffariota Pellegro Canfora.
Accusate di eresie, di pratiche diaboliche, di incantesimi, di venefici, le sei donne furono così messe alla tortura. Ma come spesso accadeva allora, non confessarono. Il processo fu molto rapido e, incredibilmente, si risolse con la sentenzia che «le sei inquisite erano vittime innocenti di calunniose denunce da parte di alcune beghine infatuate da eccessivi scrupoli religiosi capeggiate da un ignorantissimo prete a nome Martino Vicari, un individuo gretto e velenoso quant’altri mai».
Le imputate furono assolte dopo giorni di intollerabile dolore e sofferenza, mentre «le delatrici restarono in ombra, fin quando due di esse, in punto di morte, non confessarono i nomi delle altre, le quali a distanza di anni dovettero accollarsi le spese del processo e vedersi messe al bando dai concittadini, al punto di preferire togliersi di mezzo, emigrando in altre regioni».
Nonostante l’assoluzione, tornate a Sanremo, le «innocenti streghe» non riuscirono a smacchiarsi di quella colpa che era stata l’ora mossa. E quando «passavano per via, tutti se le segnavano col dito facendosi il segno della croce. Dai oggi, dai domani, finirono anch’esse per andarsene una dopo l’altra fuori dai piedi, tanto più che, per ordine del vicario generale della Serenissima Galeoto Rato, erano sottoposte a un editto di interdizione, che vietava loro di farsi vedere per strada nottetempo, di accostarsi ai Santi Sacramenti senza autorizzazione dell’autorità ecclesiastica e di uscire fuori dalle mura della città. L’assoluzione c’era stata ma, come si direbbe adesso, in forma dubitativa, come dire per insufficienza di prove, per tanto il dubbio della loro reità continuava a sussistere in permanenza radicato in quanti le avevano in uggia o per un motivo o per l’altro».