Ventimiglia, dove l’Europa finisce e i sogni di Azizi e Lisimba restano sotto un ponte
“L’Italia è bellissima e gli italiani sono meravigliosi”
Ventimiglia. “Io? Voglio andare in Francia. Perché? Perché è il mio sogno”. Ha 15 anni Azizi (nome di fantasia) e vive sotto il cavalcavia della strada statale 20 insieme a tanti ragazzi come lui. Una coperta per ripararsi dal fresco della notte e qualche cartone per non dormire a terra. La sua casa è questa, sulle sponde di un fiume che scorre tra Francia e Italia, il Roja.
Azizi ha un sogno: Parigi. Una città che quando la nomina gli si illuminano gli occhi e ci mostra orgoglioso una mappa su un foglio di carta su cui sono indicati i nomi di Ventimiglia, Villatella, Castellar e Mentone. “Poi c’è Monaco”, dice con un sorriso, “E’ qui” e indica un punto della cartina su cui le linee sono tracciate con il pennarello nero.
Azizi scherza e ride quando gli diciamo che la sua mappa artigianale è meglio di quella di Google Maps.
A Ventimiglia è arrivato da solo. E’ partito dal Sudan e come i suoi nuovi amici di viaggio ha seguito una delle due rotte per arrivare a Lampedusa, dove i migranti vengono portati dopo il viaggio nel Mediterraneo. Ha pagato, come gli altri, 3mila dollari e ora è sotto un ponte ad inseguire il suo sogno.
Non sa delle Ong. Non sa dei paventati sequestri alle navi delle organizzazioni. Non sa che dietro all’arrivo di centinaia di migliaia di giovani uomini come lui c’è un business che fa arricchire pochi e impoverisce molti. Non lo sa e forse nemmeno gli interessa. Azizi non ha nulla, tranne il suo sogno di quindicenne. Altri motivi per i quali vuole andare in Francia, a Parigi, non ce ne sono. E quando cerchiamo di chiedergli di spiegare il perché di questo sogno, in aiuto ad Azizi arriva un altro ragazzo: “Ognuno ha un sogno, no?”, dice.
Poi c’è Lisimba (nome di fantasia). E’ seduto su un’altra coperta, vicino ad Azizi. E’ un po’ più grande e parla l’inglese meglio dell’amico. Anche lui è sudanese e anche lui ha un sogno: “Voglio andare in Portogallo”, dice, “Chiedimi perché”. E alla domanda poi risponde: “Perché mi piace la lingua portoghese”. A quel punto la risata è contagiosa e tra i suoi amici non manca lo stupore: “Conosci il portoghese?”, gli chiedono. “No”, risponde Lisimba, “Però mi piace”.
Lisimba e Azizi sono due delle centinaia di migranti bloccati al confine, in quella striscia di terra che a percorrerla in auto ci si impiega una manciata di minuti. Vivono tutti insieme, sotto ad un cavalcavia che, sembra quasi un paradosso, l’Italia la congiunge alla Francia, attraversando i monti. A un centinaio di metri da lì passa un treno: un altro mezzo che unisce i due paesi, ma che per i due giovani è inarrivabile. Sanno bene che la polizia francese li fermerebbe subito e li rimanderebbe in Italia. A Ventimiglia.
Un giro di notte nella città di frontiera mostra una Ventimiglia diversa. Di giorno traffico, rumore e persone indaffarate che corrono tra il lavoro, la casa, gli affetti e gli affari. Di notte, invece, la città è più silenziosa. I migranti escono dai loro nascondigli e si muovono per le vie del centro. Si incontrano in stazione e in altri luoghi, forse in attesa di un passeur.
“L’Italia è bellissima e gli italiani sono meravigliosi”, dicono in tanti. E fa riflettere che lo pensino visto che per loro, l’Italia, è un fazzoletto di terra vicino ad un fiume. Un luogo in cui ricevono cibo e assistenza, certo, ma in una condizione ben diversa da quella che per noi potrebbe essere minimamente accettabile.
“Amo l’Italia”, dice un altro ragazzo, “Ma voglio andare in Francia”. Ci hai provato? “Sì, passando per le montagne, ma la polizia mi ha preso”. “Potete fare qualcosa per noi?”, chiede Lisimba quando stiamo per salutarli. Non vuole soldi, non vuole cibo, non vuole nulla di ciò che materialmente potremmo anche dargli. Vuole raggiungere la sua meta, come gli altri che sognano Francia, Inghilterra, Germania. Quando gli diciamo che siamo giornalisti e che vogliamo raccogliere le loro storie per far in modo che l’Europa dia una risposta alla condizione disumana in cui vivono, accetta e sorride. “Forse devo chiedere al vostro presidente. Come si chiama?”, domanda.
“Perché l’Italia è bella?”, chiediamo ai sudanesi prima di lasciarli. “Perché l’Italia è Europa”, rispondono, “Non è Africa”. Un’altra domanda muore nella nostra bocca: “E l’Europa, cos’è?”. La risposta alla domanda non pronunciata rimbalza contro un muro: quello della frontiera. A Ventimiglia, dove l’Europa finisce.