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In Valle Argentina vivono due reduci della guerra di Russia: “Impossibile dimenticare quella missione di fame e miseria”

29 gennaio 2017 | 20:37
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In Valle Argentina vivono due reduci della guerra di Russia: “Impossibile dimenticare quella missione di fame e miseria”
In Valle Argentina vivono due reduci della guerra di Russia: “Impossibile dimenticare quella missione di fame e miseria”
In Valle Argentina vivono due reduci della guerra di Russia: “Impossibile dimenticare quella missione di fame e miseria”
In Valle Argentina vivono due reduci della guerra di Russia: “Impossibile dimenticare quella missione di fame e miseria”

In Russia inizia la riesumazione di cadaveri trovati in una fossa; tra questi forse anche gli eroi imperiesi

Imperia. Ogni volta che dalle finestre di casa vedono la neve ricordano quella missione di sangue in Russia. Due alpini, reduci di guerra, che facevano parte del Battaglione Pieve di Teco, vivono in Valle Argentina. I resti dei loro compagni, forse, sono in una fossa trovata a 800 chilometri da Mosca e verranno riesumati. I parenti sperano di poterli riportare a casa dopo 74 anni.

“Reduci di guerra che non dimenticano né la fame né la miseria”,  dice un soldato come loro che li conosce bene e che parlando col cronista di Riviera24 li ha voluti ricordare a margine delle commemorazioni al cimitero di Oneglia. “Anche loro volevano essere qui per onorare la memoria di chi non è mai più tornato a casa, ma – racconta – lo stato di salute non gliel’ha permesso. Sono due persone che hanno superato i 90 anni, ma la memoria non l’hanno persa e soprattutto non hanno mai dimenticato quei compagni caduti sotto i colpi di fucile del nemico che li avevano accerchiati”.

“In Patria sono rientrati il comandante del Battaglione Pieve di Teco, il maggiore Carmelo Catanoso che, dopo essere stato catturato insieme ad altri 14 ufficiali, ha potuto riabbracciare la famiglia. Con lui anche altri quattro compagni”, ha raccontato commosso il colonnello Riccardo Lanteri, presidente provinciale dell’Ana di Imperia durante la sua orazione davanti al monumento dedicato ai Caduti e Dispersi durante la campagna di Russia. Erano 13.470 tra alpini, artiglieri e genieri in totale e tra questi oltre 500 originari della provincia di Imperia.

I reduci, con orgoglio, hanno tenuto stretta la bandiera dell’Italia e vivo il ricordo dei loro compagni che non ce l’hanno fatta. Una memoria ora lasciata in eredità a figli e nipoti.Ma la speranza è dura a morire e forse, almeno i resti di quei soldati, potrebbero tornare in Patria. A circa 800 chilometri da Mosca, in una fossa comune, sono stati trovati i resti di almeno 20 mila combattenti e forse ci sono anche quelli dei compagni del “Pieve di Teco”. Da anni attendono notizie i loro figli e nipoti.

La fase di riesumazione comincerà tra qualche mese. Gli italiani potrebbero essere oltre 2mila e tra questi ci sono anche gli eroi imperiesi che erano partiti per la campagna di Russia con le forze armate alleate. Lo stato di conservazione di molti corpi, a detta dei ricercatori locali, sarebbe buono. E poi ci sarebbero tante, tantissime piastrine militari con incisi nomi bene leggibili. “Abbiamo la concreta speranza che tra questi ci possa essere sicuramente più d’uno dei nostri alpini – sottolinea Vincenzo Daprelà, presidente dell’Ana (Associazione nazionale alpini) di Imperia – restiamo in attesa di conferme. Una cosa è certa: dobbiamo assolutamente evitare che qualcuno faccia smercio di quelle piastrine che invece rappresentano un’importante testimonianza per i parenti dei nostri soldati”.

Parole che commuovono davvero e tolgono il fiato. Arrivano da una delle pagine più dolorose della nostra storia. Quello del “Pieve di Teco” è un capitolo di una battaglia di 74 anni fa, mai dimenticata. “Questa ricorrenza la dobbiamo ai 521 eroi morti e dispersi durante la ritirata dell’Armir”, dice ancora Vincenzo Daprelà.

Secondo l’elenco ufficiale dei Caduti e dei dispersi sul fronte russo, 550 giovani erano nati in provincia di Imperia (tra loro anche fanti e artiglieri). Erano alpini di Imperia che avevano in dotazione armi della Prima Guerra Mondiale, che non poteva nè competere né certamente sostenere il paragone con i fucili semiautomatici ed automatici russi, specie con la famosa pistola mitragliatrice “Spaghin” calibro 7,62, meglio nota con il nome di parabellum. Era un’arma fornita di un caricatore a tamburo rotondo capace di 72 colpi. Solo alcuni ufficiali italiani erano dotati della pistola mitragliatrice “Beretta”.

Anche l’equipaggiamento lasciava molto a desiderare. Le divise non erano di lana , ma di “lanital”, un tessuto di fibre autarchiche, materiale troppo leggero e facilmente deteriorabile, che non teneva il caldo; limitata era la distribuzione dei capi di vera lana, come mutande e calze. Ai piedi gli alpini indossavano i famosi scarponi chiodati che, passabili d’estate, divennero, durante il rigido inverno, causa di molti congelamenti. Attraverso i fori dei chiodi l’umidità penetrava all’interno e paralizzava piedi e gambe.

I continui combattimenti che li avevano visti coinvolti per aprire un varco per uscire dalla sacca che si era creata con il cedimento del fronte al Sud, erano culminati con la vittoriosa battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943. Pagina di storia indelebile che consentì ad una parte ed ai resti dell’Armir di mettersi in salvo e rientrare in Italia. Un memoriale di orrore e dolore, un filo rosso di sangue che lega il passato al presente.

Una storia quella del battaglione Pieve di Teco che deve essere conservata nella memoria come hanno fatto anche gli avversari che hanno dato pieno riconoscimento a questi valorosi soldati. Il bollettino di guerra del Comando Supremo Sovietico, n° 630 dell’8 febbraio 1943 così recita: “Soltanto il Corpo d’Armata Alpino deve ritenersi imbattuto sul suolo di Russia”.