Allarme Hikikomori, adolescenti in isolamento autoinflitto anche in provincia di Imperia

21 novembre 2016 | 09:21
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Allarme Hikikomori, adolescenti in isolamento autoinflitto anche in provincia di Imperia

La psicologa Elena Paracchini “Sto seguendo diversi casi”

Provincia di Imperia. Niente scuola, niente amici, niente rapporti interpersonali. La loro vita è tra le quattro mura della propria stanza, mentre tutto il resto lo chiudono fuori, lasciando il pc perennemente acceso come unico occhio sul mondo. Un isolamento sociale volontario che i giovani adolescenti si auto infliggono. Viene chiamato hikikomori – in inglese “social withdrawal” (ritiro sociale) – ed è una piaga sociale, nata in Giappone negli anni ’80 ed oggi estesa a livello planetario, che sta registrando casi anche in Provincia di Imperia. “In questo periodo sto seguendo due ragazzi, ma sul nostro territorio ce ne sono sicuramente anche altri” conferma la psicologa Elena Paracchini, specializzata in problematiche adolescenziali.

Difficile stabilire ad oggi quanti soggetti ne siano affetti in tutto il mondo, poiché i numeri sono in continua ascesa, con un’età d’esordio in drastico abbassamento, ma è certo che le statistiche di questo ‘disagio’ prettamente maschile (90%) sono da far tremare i polsi: in Giappone sarebbero un milione i casi registrati, in Italia trenta mila.

L’apatia li fagocita, portandoli prima a lasciare la scuola e poi chiudersi in camera completamente al buio, alterando  il ritmo sonno veglia, respingendo in casi estremi anche il cibo (accettato spesso solo se lasciato davanti alla porta) e rifiutando persino ogni forma di igiene, fino all’imbarbarimento. “A Milano, con l’istituto di analisi dei Codici affettivi Minotauro, in cui opero come consulente esterna, da cinque anni abbiamo aperto un consultorio gratuito per le fasce deboli, proprio per ragazzi: tra le tre tipologie di disagio adolescenziale seguite c’è anche il ritiro sociale da cui, sinceramente non è così semplice uscire”. – prosegue l’esperta.

I giovani soggetti hanno sostanzialmente paura del giudizio del mondo, nello specifico, dei loro coetanei: ne hanno vergogna, si sentono goffi, inadeguati. Sono fobici dello sguardo. Tutto scaturisce da una fragilità narcisistica che li rende bisognosi di confermare continuamente il loro Sé grandioso, di debuttare sempre con risultati e prestazioni eccellenti. Soffrendo di dismorfofobia, anche il loro corpo lo percepiscono molto distante dall’ideale corporeo più prestante e virile che avrebbero invece voluto. “Di solito sono stati bambini anche molto capaci però molto suscettibili e permalosi, che mal sopportavano le prese in giro dei compagnetti o il non riuscire a primeggiare in tutto”. Una struttura quasi sempre di tipo fobico che li porta pian piano e non scientemente ad evitare, per difesa, tutte le situazioni fobigene. “E se l’oggetto fobigeno per eccellenza è il gruppo dei pari, la scuola, che è il luogo deputato alla socializzazione, è l’ambito da evitare”. Poco a poco tutte le aree di socializzazione vengono dismesse: stop allo sport, all’oratorio, a qualsiasi invito, perfino a rispondere alla telefonata di un amico. La piattaforma virtuale diventa vitale perché permette di interagire senza corpo: un avatar di se stessi è l’unico scudo possibile per sopravvivere a quest’ansia da prestazione. Su internet giocano, socializzano, trascorrono tutte le giornate spesso diventando veri leader di gruppi e tornei; sui social rimangono inattivi ma ‘sbirciano’ volentieri per sapere cosa fanno i loro amici.

Smarrimento, impotenza, sensi di colpa e rabbia. I sentimenti che i genitori iniziano a sviluppare sono davvero molto forti “perché magari senza ancora essere riusciti ad inquadrare il problema, si rendono comunque conto che qualcosa non va”.

Allora che fare? Modalità e tempistiche d’intervento sono ovviamente dettate in base ad ogni singola storia. Sicuramente vanno evitate le maniere forti, “iniziando ad abbassare il livello di conflittualità (ad esempio staccare il computer)  che solitamente si mette in atto nella volontà di scrollare i ragazzi ma che invece li porta a peggiorare la loro chiusura nella sensazione di non essere capiti”. Si tende ormai, come anche avviene al Minotauro, a seguire l’adolescente ma anche mamma e papà: tre terapeuti per ogni famiglia “poiché – prosegue Paracchini – la mamma deve sapersi trasformare, capendo che per amarlo bene, da madre giustamente protettiva e simbiotica nei primi anni del bambino, deve poi sapersi separare da quel figlio che deve spiccare il volo verso il mondo”. Riabilitare la figura paterna diventa così fondamentale poiché, oltre che vivere meno ansiosamente rispetto alla madre, un papà col figlio parla un linguaggio più maschile, allacciando quel contatto di genere che è la vera risposta a questo disagio. Certo, non è così semplice convincere un adolescente ‘isolato’ ad uscire di casa per farsi ‘curare’ “tanto che spesso ci siamo trovati a lavorare con i genitori perché i figli non li abbiamo mai visti”. In ogni caso, è un semplicistico ed enorme errore considerare i hikikomori fannulloni o dipendenti da internet. La problematica, come s’è visto, ha radici assai più profonde.