“Quella mattina pedalai per 50 Km per raggiungere Longarone”: la tragedia del Vajont nel ricordo di un bellunese trapiantato a Bordighera

9 ottobre 2016 | 10:02
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“Quella mattina pedalai per 50 Km per raggiungere Longarone”: la tragedia del Vajont nel ricordo di un bellunese trapiantato a Bordighera

V. X. ha ancora impresso negli occhi quello che vide quel giorno: “Tornammo a casa con un vuoto, un dolore che ci siamo portati con noi per tutta la vita”

Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 un crostone di montagna si staccò dal Monte Toc e precipitò nel sottostante bacino lacustre creato dalla SADE per alimentare una centrale idroelettrica. 260 milioni di metri cubi di roccia e terra generarono lo spostamento di altrettanti metri cubi di acqua, diventata fango che, con la forza di un’onda gigantesca, rase al suolo un intero paese, Longarone, e provocò danni immensi anche ai paesini di Erto e Casso. Una tragedia che costò la vita a 1917 persone.

Lungo le sponde del lago del Vajont vennero distrutte le frazioni di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell’abitato di Erto. Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta, e risultarono profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna.

In un’epoca in cui le televisioni non erano ancora diffuse e i telefoni cellulari non erano nemmeno stati immaginati, la notizia del disastro giunse lenta nelle vallate vicine a Longarone.
V. X., all’epoca 18enne, ha ancora oggi impresso negli occhi quello che vide quel giorno di 53 anni fa. Nato a Rivamonte e trapiantato a Bordighera da molti anni, V. X. ci chiede di non scrivere il suo nome per intero: “Non voglio farmi pubblicità su una tragedia”, dice.

Quella mattina del 10 ottobre 1963 ero a scuola, facevo la quinta superiore all’istituto Follador di Agordo”, racconta, “Alle 8,30 il preside venne a dirci che eravamo liberi dalle lezioni perché a Longarone era successo un disastro: volevano dare a tutti la possibilità di andare in paese per cercare parenti o amici”.

“Io non avevo nessun conoscente a Longarone”, aggiunge, “Ma con con i miei compagni di banco non ci pensammo un attimo: inforcammo le nostre biciclette per recarci laggiù con la speranza di poter essere, nel nostro piccolo, di aiuto ai soccorsi”. Ancora non sapevano, quei giovani, che i loro occhi avrebbero visto cose che mai più avrebbero dimenticato.“Era impossibile”, ricorda V. X., “Rendersi conto di quanto grande fosse stato il disastro”.

“Pedalammo per circa 50 chilometri: questa è la distanza dal mio paese a Longarone”, racconta, “Gli ultimi dieci, da Ponte nelle Alpi a Longarone, li abbiamo percorsi sulle traversine della ferrovia perché la strada statale era bloccata. Arrivammo a Longarone e già gli Alpini erano intenti nelle operazioni di soccorso e scavo. Della ridente cittadina, crocevia economico della Valle del Piave, non rimaneva più niente e quando si dice niente non lo si dice in senso metaforico”.

Un paesaggio lunare apparve agli occhi dei giovani, i cui ricordi non sono per nulla annebbiati dalla stanchezza di una faticosa pedalata al cardiopalmo. “La nebbia di ottobre saliva dal fango che ricopriva tutto e tutti. Della chiesa di Longarone era rimasta integra solo la campana che giaceva sul presbiterio di cui si intravedeva solo il pavimento. Le rotaie della ferrovia pendevano giù dalle gallerie attorcigliate come filo di ferro. La forza dell’acqua aveva fatto uscire una mucca dalle inferriate del finestrino della stalla (il finestrino era grande circa 80 cm x 1 m). Quello che no visto quel giorno mi passa ancora oggi, dopo 53 anni, davanti agli occhi come se fosse un film dell’orrore”.

Difficile raccontare il dolore di quel momento, l’impatto con una città che città non era più. “Ho ricordato questi aneddoti che potrebbero sembrare frivoli rispetto alla tragedia”, spiega l’uomo, “Perché ancora oggi, nonostante sia passato più di mezzo secolo, faccio fatica a raccontare questa immane tragedia. Non nego di commuovermi ora come allora davanti ai documentari, ai film e alle trasmissioni che ricordano l’evento”.

“Di noi tre non ebbero bisogno per i soccorsi”, racconta V.X., “Tornammo a casa con un vuoto, un dolore che ci siamo portati con noi per tutta la vita”.

Dopo la conta dei morti e dei danni materiali, stimati in 900 miliardi di vecchie Lire, venne anche il momento delle accuse. La SADE, l’ENEL, l’azienda Montecatini e il Ministero dei Lavori Pubblici vennero ritenuti responsabili del disastro.
Già prima della costruzione della Diga si erano alzati cori di proteste, ma nulla era bastato per fermare i lavori.

“La gente sospettava che potesse accadere qualcosa”, dice V. X., “Ma non si rendeva realmente conto di quello che stava accadendo e comunque anche i più pessimisti non arrivavano ad immaginare una catastrofe simile. Anche i sindaci di Erto e Casso, che all’inizio avevano protestato, erano stati velocemente “zittiti” dalla SADE che possedeva anche il giornale più letto dalle nostre parti. L’unica che aveva avuto il coraggio di denunciare pubblicamente quello che stava accadendo era Tina Merlin, giornalista dell’Unità: ma nel Veneto “bianco” il suo era un giornale che non leggeva nessuno”. Una voce fuori dal coro, quella della Merlin, che finì per essere processata dalla SADE che provò a metterla a tacere, così come fece chi aveva tutti gli interessi di costruire la diga del Vajont.