Psicologia dell’abitare: quando le case hanno un’anima

13 maggio 2016 | 09:24
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Psicologia dell’abitare: quando le case hanno un’anima

La città vive attraverso un microcosmo di “interni abitativi” che sanno regalare e trasformare positivamente la psicologia di chi la abita. Gli interni diventano così un baluardo, una difesa contro l’omologazione dei luoghi senza identità , senza relazioni e senza storia

Immaginare una casa, un’architettura, un luogo urbano. Credo sia uno dei pensieri più creativi ed espressione totale del rapporto tra il territorio e l’uomo. Pensieri e azioni che condizionano le persone che abitano i luoghi, li vivono, li osservano in una commistione che porta il linguaggio dell’abitare sempre più verso la ricerca di benessere psico fisico. L’architettura organizza gli spazi, la psicologia studia i processi mentali legati alle emozioni.

Un interno/esterno legato al nostro ambiente progettato e vissuto, influenzando il nostro comportamento attraverso l’organizzazione interna e la distribuzione, colori, arredi. Una città, un quartiere, la casa. Pensiamo a come il vivere in una bella città, un bel quartiere, una bella casa possa influenzare in maniera positiva la nostra qualità e il nostro stile di vita.

Richard Rogers in un suo aforisma scrive “Non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente”. La globalizzazione assume contorni sempre più definiti e restrittivi, all’interno del quale siamo tutti uguali e omologati, legati a spazi di aggregazione e comuni uguali in ogni parte. Supermercati, grandi magazzini, catene di distribuzione alimentare, ristoranti, franchising il tutto assume unicità progettuale, stessi colori, stesse texture, stesse sensazioni. Sono luoghi senza anima.

Possiamo quindi pensare che la casa o il luogo dove lavoriamo, o gli edifici in generale, dove passiamo quasi il 90% della nostra vita siano un luogo così fortemente spersonalizzato e omologato? Lo spazio ha una forte influenza sulle persone, sia psicologica che emotiva, ecco quindi che i luoghi del nostro vivere diventano oggetto di cambiamenti che l’uomo apporta ai propri bisogni e scopi, adattandoli al proprio modo di pensare ed essere, rispondendo alla domanda che molto spesso, taluni, dimenticano di porsi quando pensano e realizzano progetti che non rispecchiano la psicologia di chi poi la casa la deve vivere. Avremo quindi, forse, case bellissime non vissute.

L’interpretazione del progettista deve partire da un approccio psicologico della persona, del nucleo famigliare, le esigenze legate agli aspetti psicologici che aprire e chiudere spazi, dare o meno luce e aria, usare un colore invece di un altro, possono variare mutando i significati degli spazi interni. Spazi interni che vengono vissuti in differenti modi, anche e sopratutto psicologici, basti pensare a come la zona “giorno” sia più una zona di rappresentanza del nostro “io”, dove anche gli oggetti assumono una rappresentazione simbolica del nostro essere, al contrario degli ambienti dedicati alla cura della persona, dove, anche solo chiudendo la porta, restiamo soli con noi stessi, anche in modo terapeutico.

Quando ristrutturiamo una casa o il luogo di lavoro, non poniamo altro che le basi di un lavoro profondo e inconscio che ci porta a desiderare di vivere in modo diverso e sempre più legato alla persona i luoghi della nostra vita. La città vive attraverso un microcosmo di “interni abitativi” che sanno regalare e trasformare positivamente la psicologia di chi la abita. Gli interni diventano così un baluardo, una difesa contro l’omologazione dei luoghi senza identità , senza relazioni e senza storia. Mi piace quando passeggio per la città guardare le finestre delle abitazioni e pensare che in ognuna di esse si svolge una vita, si raccontano storie, si vivono emozioni. La città e le sue storie. Un interno abitativo. Luoghi e non luoghi. La nostra vita.

Paolo Tonelli

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