Da Bordighera a Edimburgo, il volo di Lara Campana: “L’Italia non aiuta la ricerca”
“Il ricercatore, per natura, è qualcuno che va all’estero, ma il problema è che dall’Italia non è che tu ci vai per arricchire il tuo curriculum, ma perché se no non mangi”
E’ una giovane scienziata con un curriculum di tutto rispetto, la bordigotta Lara Campana.
E infatti, di lei, si è accorto pure il Centre for Inflammation Research di Edimburgo, dove attualmente lavora sia come ricercatrice che in veste di docente universitario.
Tutto potrebbe far pensare che il suo sogno di fare ricerca, un sogno cullato fin da quando, ragazzina, trascorreva pure gli intervalli nei laboratori di chimica “per far sciogliere il sale”, si sia realizzato e questo la renda orgogliosa e serena. In parte è così. Ma Lara Campana non nasconde la rabbia e la frustrazione per aver dovuto lasciare il suo Paese, per aver messo una pietra sopra alla parola “ricerca” in Italia.
Lara, nata a Bordighera nel 1984, non è volata in Gran Bretagna solo per scelta, ma per necessità. “E in Italia – dichiara – Non ci voglio tornare”.
Eppure, quando il 1 gennaio 2013, un aereo l’ha portata ad Edimburgo, non è stato tutto rosa e fiori.
“Molti politici e illustri personaggi italiani ripetono spesso una frase infelice: “Sei andata all’estero, hai fatto la scelta più facile”. Ma non è così”, dice Lara Campana, prima di raccontare tutte quelle difficoltà che incontra un italiano all’estero: “Vienici a vivere all’estero, dove non sai niente. Ti rendi conto di quante cose sono dipendenti dalla tua cultura. Anche solo andare al pub: il modo in cui si offre da bere è diverso, il modo in cui ti relazioni alla gente è diverso, il modo con cui parli alla gente è diverso. Il modo con cui apri un conto in banca, le domande che devi fare per affittare una casa, i requisiti di leggi per avere una residenza: tutto è diverso. I primi mesi, quando arrivi a casa la sera, sei esausta perché hai passato una giornata a chiederti se hai fatto la cosa giusta, relazionandoti alle altre persone in una lingua che non è la tua e sperando di trovare qualcuno che ti aiuti a dare un senso a quello che stai facendo”.
Difficoltà oggettive che si uniscono al fatto, non meno importante, di ritrovarti da solo in un mondo che non è il tuo: nessun viso amico, nessuna possibilità di confrontarsi con tutte quelle persone che hanno fatto parte della tua vita fino a quel momento.
“Pensano che sia semplice”, continua nel suo sfogo, “Essere l’ultima a sapere le cose che succedono a casa tua e sentirti inutile perché sei distante”.
“Quando Renzi dice “noi faremo grande l’Italia e quelli che sono all’estero possono anche starsene dove sono perché sono quelli che hanno tradito”, mi viene da rispondere: ma perché non provi tu a venire all’estero e a vedere se è tanto facile”.
E, soprattutto, come mai non provi a capire il perché? E’ la domanda implicita che si legge nelle parole della scienziata.
Dopo essersi laureata in biotecnologie mediche e farmaceutiche all’università Vita – Salute San Raffaele di Milano, Lara ha continuato a studiare: una specialistica in biotecnologie mediche molecolari e cellulari, sempre al San Raffaele, e un dottorato in cellular and molecolar biology.
“Quest’ultimo”, spiega, “Prevedeva l’iscrizione sia all’università italiana sia alla britannica Open University (Distance Learning). Questo ha fatto sì io abbia un doppio titolo che vale sia in Italia che in Gran Bretagna”.
Una carriera universitaria brillante, che l’ha vista prima su 101 studenti richiedenti il dottorato. Ma questo non è bastato ad assicurarle un lavoro in Italia.
“Ho svolto la mia prima attività di ricerca, sul ruolo del sistema immunitario innato nella riparazione del danno muscolare, sempre al San Raffaele. Beneficiavo di una borsa ministeriale, per cui non pagavo le tasse italiane ma solo quelle UK per il dottorato, e percepivo uno stipendio adeguato, perché doveva avere minimi requisiti di retribuzione imposti dalla Gran Bretagna”, racconta, “Dopo, però, è arrivata la crisi”.
“Il San Raffaele, che era sempre stata un’isola felice anche per i fondi ricevuti dall’estero, è andato incontro ad una crisi enorme”, ricorda.
La fondazione, infatti, viene commissariata e i fondi congelati: “Gli amministratori della fondazione avevano pensato di utilizzare i fondi per acquistare cose che non c’entravano nulla con gli scopi per cui era nata”. E così jet privati e piantagioni di banane in Brasile prendono il posto della ricerca.
L’ultimo anno in Italia di Lara è un supplizio: “Nel 2012 ho cambiato tre contratti in un anno, sono rimasta due mesi e mezzo non pagata e in media ho guadagnato 800 euro al mese per pagarne 500 d’affitto in un paesino fuori Milano”, ricorda. Un incubo vero e proprio. “Studi tutta una vita e poi, una volta che hai un’idea, non puoi fare l’esperimento perché non hai neanche le provette. E’ frustrante! Le attrezzature si rompevano e dovevamo aggiustarle noi. Erano cose da pazzi”. Determinata a dimostrare che, comunque sia, fare ricerca in Italia era ancora possibile, Lara Campana trascorreva ore e ore in laboratorio: “Ero arrivata a un punto che lavoravo 12 ore al giorno, andavo anche di sabato e di domenica: vivevo per lavorare. La vita non sapevo cosa fosse”, racconta, “Ma un conto è farlo per un perché. Per me il motivo era solo uno: lo facevo aggrappandomi all’idea che la ricerca fosse sempre la mia passione”.
Oltre a problemi fisici: un esaurimento nervoso e l’anoressia – “Pesavo 39 kg” – l’Italia stava portando via a Lara anche il suo sogno: “Speravo solo che la mia passione per la ricerca tornasse e per farlo dovevo andare via”.
E così, il suo mentore, le consiglia tre destinazioni: USA, Londra o Edimburgo. Lei opta per l’ultima e passa i primi sei mesi in Scozia “come una larva, perché”, dice, “l’Italia mi aveva stremato: io ci mettevo così tanto e indietro non ci vedevo niente”.
Il problema principale dei ricercatori italiani è il fatto che vengano considerati studenti. Peggio ancora, fanno male le parole del Ministro Poletti che ha definito la ricerca “un hobby” e non un lavoro.
Alle opinioni dei politici, l’immunologa risponde con dei dati: “A biotecnologie mediche eravamo in 35, ci siamo laureati in 31. In 21 abbiamo continuato a fare ricerca. Quanti sono rimasti in Italia? Uno solo”. Perché? “Me lo chiedono spesso i miei colleghi scozzesi. Mi chiedono come sia possibile che scienziati bravi e preparati lascino tutti il loro paese e vadano a fare ricerca all’estero. “Chiedetelo ai nostri politici”, rispondo io. Perché è proprio questo il punto. Il ricercatore, per natura, è qualcuno che va all’estero: non c’è niente di male nell’andare all’estero, ma il problema è che dall’Italia non è che tu vai all’estero per arricchire il tuo curriculum e le tue conoscenze, ampliare i tuoi orizzonti. Ci vai perché non puoi mangiare con la ricerca in Italia. E quello che è ancora più drammatico è che mentre in tutti i paesi civili la ricerca è basata sullo scambio, in Italia ci vengono quattro gatti e quando si rendono conto di che cos’è scappano”.
“E poi, dopo aver studiato 22 anni della mia vita”, aggiunge, “Come faccio a stare in un paese che considera il mio lavoro un hobby?”.
Eppure l’Italia le manca, e anche tanto. Oltre che famiglia e amici, Lara sente di aver perso una cosa che “abbiamo solo in Italia e che non si trova da nessun’altra parte. Non è la pasta, non è il mandolino, non è la pizza: è la bellezza. L’Italia è intrinsecamente bella in tutto. E’ la culla della civiltà occidentale. Vai in giro per i carruggi di Bordighera Alta e sono più belli di una qualsiasi città storica qui. Gli italiani hanno il senso del bello, che gli altri non hanno. Io che al liceo ero considerata quella che si vestiva come capitava”, ride, “Qua sono la capitale del fashion”.
E di lati positivi, nonostante tutto, in Italia ce ne sono ancora: “Il sistema scolastico italiano è incomparabilmente migliore di quello britannico: io qua insegno e, delle volte, vorrei bocciarli tutti. In Italia la metà di questi non avrebbe mai finito l’università. Poi, però, noi buttiamo tutto nel cesso e tutti noi siamo all’estero a produrre ricchezza e conoscenza. La ricerca non è un hobby: è il lavoro più bello del mondo. La ricerca risponde a delle domande che prima non avevano una risposta. E’ un privilegio enorme, incredibile, che non viene valorizzato”.
Ora, ad Edimburgo, Lara Campana si occupa sempre del ruolo del sistema immunitario innato ma, diversamente da quanto faceva prima, la sua ricerca riguarda le patologie del fegato: “Studio la cirrosi e i modelli acuti di danni al fegato come l’intossicazione da paracetamolo perché, in Gran Bretagna, uno dei metodi preferiti per suicidarsi è ingurgitare tonnellate di paracetamolo”. Il suo lavoro sta già portando frutti: “Proprio recentemente abbiamo avuto degli ottimi risultati perché nella mia ricerca sono riuscita a trovare un fattore che ritarda la comparsa del danno da paracetamolo e questo potrebbe essere un grossissimo aiuto per chi ha questo tipo di danni al fegato”.
Oltre alla ricerca, anche l’insegnamento nell’università: “Ho una certificazione come insegnante universitario a livello 2 di 4, quello che qui chiamano “fellow” e che mi piacerebbe applicare per un professorato. I prossimi concorsi saranno nel 2020, quindi sto cercando di migliorare il mio curriculum nell’insegnamento. A differenza che in Italia, i concorsi qui vengono fatti in modo regolare, ogni quattro anni: chiunque può partecipare e chiunque ha le stesse chance”.
“Non come in Italia. Il nostro è un sistema malato, marcio, devi sempre dipendere dalla bontà di qualcuno o dalla conoscenza di qualcuno per arrivare ai tuoi obiettivi. E’ una cosa che io non riesco a concepire, soprattutto dopo aver abituato qui. Qui ho visto un modo diverso di gestire le cose, un modo onesto, trasparente, efficiente. E questo fa sì che tutti facciano la loro parte”, dichiara prima di elencare le problematiche del sistema italiano.
Innanzitutto la burocrazia. “Anche in Inghilterra c’è. E tanta anche. Ma è una burocrazia che è uguale per tutti: ci sono delle regole, la capisci. Tutti la capiscono. Tutti rispettano le regole, tutti. Perché le regole sono poche e sono chiare”.
Ad uccidere l’accademia italiana, oltre alla mancanza di fondi e la burocrazia è anche la presenza di “ricercatori e dinosauri che stanno in università milioni di anni in maniera improduttiva. L’accademia è uccisa da chi dice che i fondi vanno distribuiti a tutti. No! I fondi non sono per tutti, così come non lo è fare un dottorato. Se sei abbastanza bravo, te lo meriti, se no non lo fai perché diventi un costo inutile per un sistema che è già al collasso. I fondi sono pochi e vanno dati solo ed esclusivamente a chi fa ricerca internazionale competitiva e ai giovani che vogliono iniziare ad avere un loro gruppo e una loro carriera. Continueremo a creare un sistema accademico stupido perché non siamo in grado di fare selezione, perché la selezione viene vista in Italia come qualcosa di orribile perché ovviamente impedisce a chi fa nepotismo di continuare a farlo: se devi dare i soldi solo a quelli bravi non puoi più darli ai tuoi amici. E’ semplice”.
Eppure, nonostante tutte le difficoltà, c’è ancora chi in Italia riesce a fare ricerca, ma con i soldi che arrivano dall’estero. “La nazionalità delle persone che hanno ricevuto più finanziamenti esteri è italiana”, dice Lara, dati alla mano, “Il nostro ministro dell’università ha avuto il coraggio di vantarsi di questa cosa, senza pensare che più della metà di questi ricercatori, in Italia non lavorano più”.
Se decidessi di tornare, quali sarebbero le tue prospettive? Chiediamo a Lara Campana: “Potrei tornare solo a Milano: unico posto dove ti offrono possibilità concrete di fare ricerca. Non credo di avere delle brutte possibilità, in linea del tutto teorica, perché ho diverse conoscenze. Il problema in Italia è che quando torni, ti promettono tutto, ma poi non ti danno niente. Ho amici che sono tornati per motivi familiari e sono rimasti senza fondi per oltre un anno. Tante promesse: fondi vinti, dopo un concorso, che poi non sono stati erogati per oltre un anno. La legge Montalcini è una delle più grosse truffe del governo italiano ai ricercatori che volevano rientrare perché hanno erogato i fondi con un ritardo tale che, per poter sostenere la loro ricerca, gli scienziati – quelli che ci sono riusciti – hanno dovuto cercare altri finanziamenti”.
“Ecco, per tutti questi motivi – conclude – Io non voglio tornare mai più in Italia. E questa è una risposta, che quando la pronuncio, muoio ogni volta un po’”.