Occorre il coraggio di comprendere che siamo noi, come singoli e come comunità (ed ancora più come consacrati) ad essere un segno che testimonia una realtà “altra”
Per un cristiano resta l’immagine per eccellenza. Secondo una significativa espressione la Sindone, come un “testimone muto”, ci rimanda a qualcosa, o meglio, a Qualcuno che è il Signore della nostra vita. Il pellegrinaggio sacerdotale che giovedì scorso – guidato dal Vescovo mons. Suetta – si è recato a Torino per venerare il Sacro lino può essere considerato come un momento ricco di significato per tutta la Chiesa locale.
La presenza di molti sacerdoti e religiosi della diocesi, di alcuni diaconi e dei seminaristi – in attesa dei successivi pellegrinaggi delle prossime settimane – ci aiuta a riflettere su alcuni aspetti del nostro cammino di fede.
Vorrei farlo partendo da un episodio che è accaduto proprio durante il momento di preghiera vissuto davanti alla Sindone. In quei brevi minuti di raccoglimento qualcuno dei presenti (e non lo scrivo per fare una critica, ma proprio per proporre una breve riflessione) ha sentito il bisogno di fotografare l’immagine sacra; ed il flash ha svelato il suo desiderio di conservare il ricordo di questa esperienza forte e significativa.
Abbiamo bisogno di segni, di immagini che ci rimandino proprio a quella Immagine che vogliamo incontrare un giorno, quando si realizzerà il desiderio espresso dal salmista: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto”.
Abbiamo però anche bisogno di convertire il nostro cuore e di chiedere al Signore la grazia di saper vedere la sua Immagine nelle diverse e contrastanti immagini che passano davanti ai nostri occhi. Perché è solo la conversione dello sguardo che ci permette di vedere Colui che è il desiderio profondo del nostro cuore e di incontrarlo in ogni circostanza del nostro vivere. Sappiamo quanto questo è vero nella vita del sacerdote, chiamato a testimoniare un amore che si dona totalmente all’altro: perché in lui vede il volto di Cristo. Sempre e comunque.
La Celebrazione eucaristica nella chiesa del Corpus Domini ed il successivo pranzo al Circolo dei Lettori di Palazzo Graneri diventano, non vuole essere una forzatura, ulteriori immagini che dicono il nostro modo di essere comunità cristiana.
Se davanti alla Sindone possiamo sentire di essere toccati nel profondo da un oggetto che ha avvolto il corpo del Crocifisso e racconta la vittoria del Risorto, anche davanti alla testimonianza di una Chiesa che celebra, che vive la gioiosa fraternità siamo davanti a qualcosa che ci rimanda a Lui.
Occorre anzi il coraggio di comprendere che siamo noi, come singoli e come comunità (ed ancora più come consacrati) ad essere un segno che testimonia una realtà “altra”, che troppo spesso si proclama a parole, ma che non si traduce in vita. Se l’Uomo della Croce, di cui noi scopriamo i lineamenti in quel lenzuolo conservato a Torino, è immagine di una sofferenza dalla quale nasce la Chiesa, allora il pellegrinaggio diventa luogo e paradigma di una testimonianza che si fa icona.
“L’amore più grande”, oltre il Calvario della nostra povertà e delle mille sofferenze che siamo chiamati a vivere, ad incontrare ed alleviare, rimanda al mattino di Pasqua ed al dono dello Spirito che oggi ricordiamo, coscienti della nostra vocazione.
Accogliere il Dono che il Padre darà a coloro che con fede lo chiedono, per riconoscere Gesù come il Signore della nostra vita, per essere segno, cioè profezia incarnata (come Lui!) di quel Volto che tutti cerchiamo. Che vorremmo e vogliamo incontrare nella sua Chiesa.
(di Nuccio Garibaldi)