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Accendere un fiammifero vale più che maledire l’oscurità

31 maggio 2015 | 15:00
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Accendere un fiammifero vale più che maledire l’oscurità

<< Pronti sempre a rispondere della speranza che è in voi>> (1Pt 3,15)

Affermava Bernardo di Chartres (filosofo e grande grammatico del XII secolo): “Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti”.

Oggi, più che mai, dobbiamo riscoprire l’umiltà di sentirci parte di una realtà che non siamo stati noi a creare dal nulla, ma che ci viene consegnata da chi ci ha preceduti, per arricchirla e riconsegnarla a nostra volta. Ma bisognerebbe chiedersi cosa ci hanno consegnato le generazioni precedenti. La verità, la libertà, la coscienza, la fede, sono categorie che sembrano aver perso un significato oggettivo. L’uomo del Terzo Millennio spesso fonda il suo pensiero su opinioni, ritenute gelosamente personali, e non avverte il desiderio di confrontarsi con una riflessione sostenuta da argomentazioni valide, frutto di un solido cammino di ricerca. L’aggancio con il passato, con la tradizione, è ritenuto superfluo, come se ogni individuo possedesse già tutto il necessario, tutte le risposte e le certezze. Sappiamo benissimo che questo non è vero e mai come nella nostra società, le fragilità, le insicurezze, la mancanza di riferimenti forti, sono diventate minacce sempre più presenti e pericolose. Piuttosto che accodarci ai profeti di sventura, però, dovremmo interrogarci su come si possa ancora parlare di speranza all’uomo contemporaneo. Interessanti spunti di riflessione scaturiscono dalla seconda enciclica di Benedetto XVI, Spe salvi. Andando un po’ controcorrente, dato che ormai si cita solo Papa Francesco, ritengo opportuno non dimenticare la ricchezza di questo contributo del papato precedente. L’enciclica si inserisce perfettamente nel percorso ecclesiale, che a partire dalla Gaudium et spes, si rivolge all’uomo per offrirgli una speranza che abbia un fondamento valido.

Il Papa inizia la sua trattazione affermando che la speranza nasce con Cristo. Cita un’affermazione di san Paolo, il quale, scrivendo agli Efesini, ricorda loro che prima dell’incontro con Gesù Cristo i pagani erano “senza speranza e senza Dio nel mondo” (Ef 2, 12). Certamente prima del cristianesimo c’erano divinità, anzi forse ce n’erano perfino troppe, ma la religione pagana ellenistica e romana era decaduta a mera religione di Stato, i cui riti erano celebrati stancamente da funzionari stipendiati, senza una vera partecipazione popolare.

Il Papa parla espressamente di “religione di Stato” (n.5), ricordando come la ragione della filosofia greca era una forza capace di costruire ma anche di distruggere e di corrodere. Di costruire, quando si trovava di fronte a una religione forte e solida come il cristianesimo. Ma anche di corrodere una religione intellettualmente debole, com’era quella pagana. “Il razionalismo filosofico aveva confinato gli dèi nel campo dell’irreale” (n. 5); il mito della religione classica “aveva perso la sua credibilità”; la religione romana “si era sclerotizzata in semplice cerimoniale”. Benedetto XVI cita san Gregorio di Nazianzo (330-390) per ricordare che “nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell’astrologia, perché ormai le stelle giravano secondo l’orbita determinata da Cristo”(n.5).

Il cristianesimo delle origini si rivolgeva a tutto il popolo ma auspicava anche “conversioni nei ceti aristocratici e colti” (n. 5). Questa capacità dei primi cristiani di attirare convertiti di diversi ceti è illustrata dal Pontefice con un riferimento iconografico ai sarcofaghi dei primi secoli. “La figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore” (n. 6).

Per le persone colte Gesù rappresentava il vero filosofo, che a differenza dei ciarlatani non esibiva la sua maestria come capacità di sostenere a turno una tesi e il suo contrario, ma mostrava la Verità. Ai poveri e agli oppressi, Gesù si presentava come il vero pastore che non solo difende le pecore dai lupi ma perfino cammina con il suo gregge sulla “via che passa per la valle della morte” (n.6), che Lui aveva affrontato e sconfitto. Precisa, quindi, Benedetto XVI, che proprio con Gesù Cristo nasce la speranza nella storia. Tale speranza, continua l’Enciclica, è stata attaccata nella storia moderna dell’Europa e dell’Occidente, attraverso i passaggi della Riforma protestante, dell’Illuminismo e del Comunismo. Con Lutero la fede si colora di due dimensioni: il volontarismo e il soggettivismo.

Afferma Benedetto XVI: “non è che la fede […] venga semplicemente negata, ma viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo” (n.17). Naturalmente quando la fede diventa protagonista della sfera privata, la realtà pubblica viene offerta al miglior offerente. Quando gli altri si accorgono che la piazza pubblica è libera, la occupano con l’Illuminismo, che mostra il suo aspetto più eclatante con la Rivoluzione francese. Alla bandiera della scienza si affianca anche quella della libertà: ma libertà è un termine dai molteplici significati, che si presta agli inganni.

Non si tratta di una libertà per la verità ma di una libertà dal limite, dai vincoli della fede e della stessa vita politica come allora la si concepiva, una libertà che portava in sé un sinistro “potenziale rivoluzionario di un’enorme forza esplosiva” (n. 18). Al punto che rimane come prospettiva soltanto il nichilismo; non la speranza, ma la disperazione. Altro attacco alla speranza è il marxismo. Per Marx il regno di Dio sulla Terra s’instaura non grazie alla scienza, ma grazie alla politica: “ Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica” (n. 20).

C’è però in Marx un “errore fondamentale” (n. 21), e insieme una vera e propria menzogna. La sua teoria si presenta come pensata per la Nuova Gerusalemme del comunismo, sulla cui via la dittatura del proletariato doveva essere solo uno stadio intermedio e transitorio. Ma del marxismo, che ci promette concretezza mentre accusa le religioni di essere vaghe, si può affermare precisamente che “non dica nulla” (n.21) di questo regno di Dio senza Dio sulla terra e finisce per parlare solo della dittatura del proletariato.

Infatti, ormai questa cosiddetta “«fase intermedia» la conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante” (n.21).

Il Papa non afferma affatto che la scienza e la politica siano realtà inutili e dannose, lo diventano soltanto quando pensano di potere instaurare paradisi in Terra e regni di Dio intramondani. “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa” (n. 24). Benedetto XVI descrive la crisi dell’Europa e dell’Occidente, ma non lo fa per convocarci a un funerale. Vuole invece mostrare come, quando si tocca il fondo, nasce anche la possibilità di risalire e riemergere. Ma dal fondo del processo rivoluzionario moderno sorge anche per gli stessi cristiani il dovere di un’autocritica.

Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno” (n. 22). Il dramma è più complesso di una semplice divisione fra noi e loro, fra le ideologie della modernità che hanno demolito la speranza e i cristiani che hanno tentato di conservarla. La restaurazione rimane ancora oggi possibile, purché non ci si limiti a lamentarsi e si ricordi, ancora con Benedetto XVI, che “accendere un fiammifero vale più che maledire l’oscurità”.

(di Anna Rosaria Gioeni – Teologa)