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1 luglio 2014 | 12:37
Nella sala Conferenze nel Santuario di Lourdes, don Claudio Fasulo ha tenuto il primo incontro sul tema: Il combattimento della preghiera
Tra i tanti appuntamenti previsti a Lourdes anche spazi dedicati alla catechesi. Ieri sera (al Forum, sala conferenze) nel Santuario di Lourdes, don Claudio Fasulo ha tenuto il primo incontro sul tema: Il combattimento della preghiera.
Seguiranno, in questi giorni, due altre conferenze che saranno tenute da Don Marco Castagna e don Michel Rosa da Silva.
Proponiamo il testo dell’intervento di don Claudio.
Perché la preghiera è un combattimento?
Spesso possiamo incontrare qualcuno che dice «Non riesco più a pregare, ogni volta è una lotta!» Diciamolo onestamente, è veramente una sensazione comune, comune a tutti, nessuno escluso! Per nessuno la preghiera è facile anche se è una espressione naturale dello spirito umano e un’azione sostenuta dallo Spirito Santo eppure la preghiera è un vero e proprio combattimento.
Un primo elemento importante è sapere che la preghiera è un dono della grazia di Dio, ma presuppone sempre una risposta decisa e libera da parte nostra; la nostra libertà gioca sempre un ruolo importante nello scegliere se pregare o no!
La tradizione cristiana ha sempre affermato che la preghiera è fatica, è lotta.
Basta ricordare un detto di un padre del deserto: «Non vi è fatica così grande come pregare Dio. Qualsiasi opera l’uomo intraprenda, se persevera in essa, trova riposo, ma per la preghiera bisogna lottare fino all’ultimo respiro!».
Quindi, possiamo dire di essere in ottima compagnia e di non nasconderci dietro ad una ipotetica vita di preghiera perfetta.
Chi prega combatte contro se stesso: contro la stanchezza, contro la pigrizia, contro idee strane di come poter pregare in modo efficace ed efficiente, contro l’ambiente (con scuse banali come: non ci sono spazi, c’è caos, ecc.) ma combatte soprattutto contro il demonio perché la sua vittoria è allontanarci dalla preghiera, quando ci riesce ha riportato una grande vittoria che chiama automaticamente altre sue vittorie.
Piccolo esempio: la preghiera dei discepoli, in comunione con il loro Maestro, è un combattimento, ed è vegliando nella preghiera che non si entra in tentazione: vi ricordate le parole di Gesù al Getzemani ai suoi discepoli?
«Pregate per non entrare in tentazione» e poi «Perché dormite? Alzatevi e pregate per non entrare in tentazione» (Lc 22,40.46).
Allora, vediamo se stasera riusciamo a comprendere un po’ meglio questa fatica a non volerci svegliare dal torpore della non-preghiera!
Oggi siamo particolarmente sensibili al fatto che la preghiera comporta una serie di condizioni contraddette dagli attuali ritmi della vita. Ai nostri giorni è più che mai faticoso rimanere nel silenzio, che però rimane una esigenza umana, necessaria per ridare unità al proprio essere che rischia la dissipazione nell’eccesso di rumori e delle parole. E’ difficile rimanere nella solitudine (che non vuol dire isolamento!), è difficile rimanere fermi per un certo tempo in uno stesso luogo; è difficile accettare l’inattività del tempo dedicato alla preghiera. Sembra quasi una follia, nella civiltà dell’immagine e della comunicazione. Perché perdere tempo nel pregare?
A questa domanda potrebbero rispondere coloro che offrono la loro vita a Dio nella vocazione claustrale: o sono pazze oppure la preghiera può dare un vero senso alla vita! Avete mai visto delle monache di clausura insoddisfatte della loro vita? Ma invece, quante persone conoscete insoddisfatte della loro vita di non-preghiera?
Dopo aver deciso di porsi in questa condizione di silenzio interiore ed esteriore, ecco che si apre il faccia a faccia con Dio, che provoca in un certo senso uno smarrimento. Quando ci mettiamo in questa nudità di fronte a Dio, proviamo paura, diventiamo inquieti, ci vediamo vulnerabili e ancora più fragili del solito. Ma è proprio da questo abisso che può iniziare il cammino di comunicazione nella fede con il Signore: solo così sapremo trovare nel dialogo interiore con il Signore pacificazione e unità di tutta la nostra persona. Ebbene sì, ci vuole la volontà di rischiare, ma per amore si rischia sempre e Dio è amore!
Ma qual è il nucleo della preghiera?
La radice, il nucleo della preghiera è «il raccoglimento del cuore».
I momenti e le forme della preghiera sono diversi ma sono tutti ispirati dall’unico principio e filo conduttore che è l’amore.
La preghiera allora più che un combattimento è lo strumento dell’amore tra Dio e l’uomo; potremmo azzardare a dire «pregare, voce del verbo amare!»
Ogni relazione di amore profondo, e quindi la preghiera, si esprime in tre livelli:
1.Presenza reciproca:
quando si ama, la persona amata è sempre presente, giorno e notte. Si fa ogni cosa tenendo sempre presente la persona amata; le scelte sono fatte in vista di essa che diventa l’ispirazione che anima ogni momento della vita. In questo livello si situa la preghiera continua, il ricordo di Dio.
2.Dialogo:
quando due persone si amano, sentono il bisogno di parlarsi: si parla per esprimere l’apprezzamento, l’ammirazione, la fiducia, per chiedere perdono o aiuto, ecc.; si parla particolarmente per comunicare, per comprendersi, per crescere insieme e per approfondire la comunione reciproca. A questo livello, si situano la meditazione e tutte le forme di preghiere vocali o mentali di lode, di ringraziamento, ecc.
3.Comunione di cuore:
l’amore ha bisogno dei momenti forti di comunione di cuore, spesso nel silenzio di un abbraccio si dicono molte più parole. Momenti in cui non si parla, non si discute; ma si rimane in silenzio per sentire l’altro. Non ci s’interessa più dei problemi, ma della persona amata. La sua presenza dice tutto. A questo livello, si situa la contemplazione.
Affinché l’amore si appicchi e divampi nel cuore occorre una miccia e questa miccia è la preghiera, ovvero questo dialogo, a volte anche con toni accesi che suscita e provoca l’amore. Non possiamo amare ciò che non conosciamo e quanto più conosciamo una cosa buona, una cosa vera, una cosa bella tanto più l’amiamo, infatti non possiamo fare a meno di amare ciò che è buono, vero e bello.
Se la preghiera non è solo qualche atto da compiere, ma una relazione intima d’amore con il Dio vivente, essa deve abbracciare tutta la vita, animandoci in ogni momento. Per questo, i padri spirituali insistono sulla preghiera come regola di vita, e parlano della preghiera come «ricordo di Dio» e «memoria del cuore». San Gregorio di Nazianzo, arrivò a dire «è necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto si respiri» e San Giovanni Maria Vianney scrisse una preghiera che mi commuove sempre e dove traspare tutto il suo combattimento nella preghiera: «Ti amo, mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarti fino all’ultimo respiro della mia vita. Ti amo o Dio infinitamente amabile, e preferisco morire amandoti piuttosto che vivere un solo istante senza amarti. Ti amo, mio Dio, e desidero il cielo, soltanto per avere la felicità di amarti perfettamente. Mio Dio, se la mia lingua non può dire in ogni momento ti amo, voglio almeno che il mio cuore te lo ripeta ogni volta che respiro!»
Adesso vorrei fare una parentesi sul rapporto preghiera e sacramenti:
La preghiera è «una relazione viva e personale con il Dio vivo e vero» (CCC 1558), essa è il palcoscenico in cui avviene l’incontro sacramentale con Dio, ecco perché i sacramenti suppongono una vita di preghiera, cioè una relazione viva e personale con il Dio vivo e vero; un’adesione di fede e un intimo rapporto di amicizia con Gesù. Accedere ai sacramenti fuori da quest’atmosfera, da questo contesto relazionale d’amore con il Signore, è compiere un qualcosa di contraddittorio in se stesso e inefficace di grazia.
Se la nostra vita sacramentale pur essendo quantitativamente sviluppata per numero di messe, di incontri, di vita da buoni cristiani, non è però efficace di grazia di santificazione personale cioè di preghiera, si rimane sempre impantanati in una tiepida mediocrità o addirittura nel fango di una situazione statica e senza motivazione. Quante persone pur andando sempre a messa si sentono sempre aride e fredde nel loro rapporto con Dio?
Questo significa che quelle comunioni e quelle confessioni sono state fatte senza preparazione e cioè senza preghiera, senza essersi fermati prima a considerare nella fede il mistero di grazia a cui ci si stava per accostare; non ci si è fermati a disporre il nostro cuore all’incontro con Gesù Salvatore, a suscitare nel nostro cuore il desiderio di Dio, di speranza, di slancio di amore verso l’Amato Signore che a noi viene con passione d’amore in ogni sacramento.
Una pratica sacramentale anche frequente o frequentissima che non sia vissuta in un clima di preghiera e di meditazione, difficilmente potrà essere feconda di santità e di crescita nell’amore. Anzi, senza preghiera lo scivolo nella tiepidezza è pressoché inevitabile con la sua inerente mediocrità che è l’anticamera dell’abbandono dell’amore che se non cresce cala fino non considerare più Dio nella vita. Diceva Cassiano, un teologo dei primi secoli: «è più facile che si converta un peccatore incallito che un tiepido religioso.»
Ma qual è il luogo idoneo per vivere questo «combattimento»?
Gesù, subito dopo essere stato battezzato e dichiarato «il Figlio prediletto» del Padre (Mc 1,11), viene «sospinto» dallo Spirito «nel deserto per quaranta giorni, tentato da satana» (Mc 1,12-13).
Questi giorni segnano un distacco con la vita condotta sino a quel momento e si apre così la Sua missione pubblica: un tempo provvidenziale, fecondo e decisivo.
Il deserto è quindi una situazione dove l’uomo si distacca da tutto ciò che lo circonda quotidianamente e dove maggiormente può avvertire la presenza di Dio. Deserto in ebraico significa «nella parola» cioè entrare in un deserto è entrare nella parola di Dio per viverla e accoglierla così com’è!
Chi l’ha sperimentato il deserto, tipo il Sahara, ne conosce le paure, i pericoli e l’arsura della sete. E poi la sabbia che ti penetra dappertutto: nei vestiti, sulla pelle, nella bocca, negli occhi; non c’è che sabbia! Sabbia e il cocente riverbero del sole durante il giorno, seguito dal freddo gelido nella notte.
Proprio in una situazione così destabilizzante dove si prova una forte impotenza davanti alla grandezza della natura, si avverte la presenza sovrana di Dio, a poco a poco, lo Spirito ti aprirà gli occhi e ti accorgerai di trovarti a tu per tu con l’Unico che non abbandona e finalmente sentirai la sua mano che ti prende, ti solleva come su «ali di aquila» (Es 19,4)
Quanti in realtà nella preghiera non cercano il Signore, ma la soluzione dei loro problemi personali, familiari e di lavoro?
Ebbene, facendo così non si entra nel deserto ma nel proprio egoismo!
Dopo la prodigiosa liberazione dalla schiavitù d’Egitto, per quarant’anni gli Israeliti vagano nel deserto, dove dimenticano la loro condizione di schiavitù, imparano ad essere condotti da Dio, ricevono la Legge e apprendono la loro identità di popolo di Dio, di popolo scelto da Dio, da un Dio che non li ha mai abbandonati.
Lasciati quindi condurre nel deserto. E quando ti senti davvero povero, privo di tutto, boccheggiante dalla sete e dall’arsura della sabbia, quando ti accorgi che le tue risorse sono finite e non hai più via di scampo:
allora fermati! E’ il momento di gridare al cielo. Ma attendi e ascolta. Proprio nell’assenza c’è la Presenza. Proprio nel silenzio c’è la Parola. Non ti lamentare del deserto, ma accoglilo come un dono.
Nel fare questo cammino troverai degli impedimenti: eppure è un momento di grazia.
Non continuare a inseguire il sogno della terra promessa o l’approdo a qualche oasi refrigerante. Abituati a vivere nel deserto.
Senza accorgertene, il Signore, ti sta facendo crescere nella fede, nella speranza e nell’amore; prima o poi, anche il deserto finirà o, quanto meno, sarà attraversato da quei bagliori di luce che bastano a refrigerare lo spirito, a ridonare vigore e a fare balenare all’orizzonte la speranza della patria.
Nel combattimento spirituale, nel momento di deserto, la preghiera (anche con molta fatica) è il mezzo migliore e indispensabile che porta sollievo.
Infatti, nel cuore di ogni persona c’è una grande sete di Dio, come testimonia il grande sant’Agostino: «Questo soltanto io so, che il mio male è lo stare senza di te e mi trovo male non solo fuori, ma anche dentro di me e ogni ricchezza che non è il mio Dio è per me miseria».
Adesso cercherò di fare una carrellata veloce di alcune situazioni in cui è difficile pregare e che a cui, chi più, chi meno, ci siamo trovati dentro:
1.Il clima dell’ambiente ordinario di vita che spesso non aiuta perché è insensibile, ostile, sia alla preghiera personale sia a quella comunitaria. Se uno vuole pregare, deve decidere di farlo, superando questi ostacoli.
2.Le nostre ferite: le false immagini di Dio, i perdoni non dati, la paura di quello che Dio potrebbe chiedermi. Ma se dici di amare Dio perché hai paura di rispondere alla chiamata di Dio?
3.La nostra «impazienza»: troppe volte ci sembra che dopo molte preghiere non succede nulla. Non bisogna arrendersi perché il Signore ha promesso che «chi chiede, ottiene». Credo fortemente, per esperienza personale, che si impara a pregare solo se si impara a resistere e ad abbandonarsi al silenzio di Dio. Poi, in questi casi, dobbiamo fare ricorso alla fede; essa, infatti, ci assicura che il Padre ascolta sempre la nostra preghiera, perché altrimenti verrebbe meno a se stesso e alle promesse di Gesù. Se poi Dio non risponde secondo le nostre attese, dobbiamo sapere che Egli sa quando donarci ciò di cui abbiamo bisogno. Non è il caso di metterci a fare il mestiere di Dio!
4.Vi è un altro pericolo: ci stanchiamo e smettiamo di pregare. Allora, dobbiamo ricordare l’insegnamento di Gesù sulla perseveranza nella preghiera.
La perseveranza nella preghiera è utile per noi da molti punti di vista: fa maturare le virtù della fede e della speranza, fa crescere l’abbandono nelle mani del Padre, ci concede il tempo necessario per prendere coscienza delle nostre posizioni sbagliate, delle nostre fragilità e delle nostre false pretese.
Ma allora qual è la bellezza della preghiera?
La bellezza della preghiera non è tanto l’amore dell’uomo che cerca Dio, ma l’amore di Dio che cerca l’uomo. La ricerca di Dio da parte dell’uomo è soltanto una risposta alla ricerca da parte di Dio. L’urlo di Dio della Genesi corre lungo tutti i secoli: «Adamo, dove sei?» Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui. Perciò, la nostra preghiera, perfino la preghiera di domanda è paradossalmente una risposta; risposta d’amore alla sete del Figlio di Dio: Gesù!
In tale visione, la preghiera è una relazione d’amicizia.
L’amore costituisce la sua essenza.
Ora, la bellezza dell’amore che Dio offre all’uomo è che egli lo ama come uno sposo che ama la sua sposa. È l’amore sponsale che Dio offre all’uomo. Si tratta dell’amore che si dona totalmente, senza misura e gratuitamente per trasformare e unire due esseri in uno solo. Proprio per questo, la preghiera cristiana, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica è «una relazione di Alleanza tra Dio e l’uomo in Cristo» nella quale Dio si offre per invitarci a trascendere i limiti della nostra umanità per vivere la sua vita divina e per essere penetrati e posseduti totalmente da lui in una unione intima con suo Figlio, per mezzo dello Spirito Santo.
Se l’amore costituisce l’essenza della preghiera, l’esigenza fondamentale del cammino della preghiera è dire sempre più «sì» e meno «no» a Dio, imparando a fidarsi di lui, cedendo ogni cosa, anche se stessi, a Lui, per fare sempre la sua volontà, affinché egli possa disporre la nostra vita come vuole. In tale prospettiva, preghiera e vita cristiana sono inseparabili, lo stesso amore che ci attira alla preghiera, ci spinge alla vita per trasformarci in una offerta d’amore.
Molto spesso con diverse scuse si tralascia la preghiera. Si dice che non c’è tempo, che i bisogni dei fratelli sono urgenti. Ma se ci si esamina sinceramente, spesso bisogna dire che sono scuse e la verità è: «non ho voglia», «non lo desidero».
La mancanza della disposizione a pregare è un sintomo di rilassamento e di assenza di desiderio di Dio; è segno di un’anima che cerca se stessa o altre cose, ma non Dio. Perciò, il «metodo» che ci aiuta ad affrontare questa difficoltà è l’impegno di cercare Dio; nutrire e aumentare il desiderio di Dio: imparare a dire più «sì» a Dio nella vita quotidiana. Dire più si a Dio e meno all’io!
L’educazione alla preghiera è necessaria, perché, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «la preghiera non si riduce allo spontaneo manifestarsi di un impulso: è necessario anche imparare a pregare».
Concludo con una domanda: chi è il maestro che dobbiamo seguire per pregare?
Il vero Maestro che ci insegna a pregare è lo Spirito Santo. Inoltre, la preghiera è la vita con Cristo o, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, è «una relazione viva e personale con il Dio vivo e vero» (CCC 2558) e la vita si trasmette da persona a persona. Perciò, l’educazione alla preghiera non è questione di metodo o di tecnica, ma è una trasmissione vivente nella Chiesa attraverso la quale lo Spirito Santo ci insegna a pregare. E’ un dolcissimo dialogo «cuore a cuore» con Dio.
San Giovanni Maria Vianney diceva: «Non c’è bisogno di parlare molto per pregare bene, si sa che Gesù è là; apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della Sua presenza, questa è la migliore preghiera!»
Pertanto, la fisionomia di ognuno di noi è scolpita dai colpi del proprio combattimento spirituale, è scandita dalla preghiera e della propria vita di preghiera. Perché, che lo crediamo o no: «si prega come si vive perché si vive come si prega»!