L’omelia di Mons. Careggio in occasione della Messa di ringraziamento per Mons. Toffani
1 giugno 2014 | 15:07
“Gli anni del suo sacerdozio non sono stati infecondi, ma ricchi di realizzazioni che hanno esaltato tutte le sue doti di mente, di cuore e di pastore, sempre sollecito per il bene del gregge affidatole”
La celebrazione della Santa Messa in Ringraziamento per il Cinquantesimo di Ordinazione Sacerdotale di Mons. Umberto Toffani, Vicario Generale della Diocesi di Ventimiglia – San Remo e parroco di Santo Stefano al Mare, è stata presieduta dal Vescovo Emerito Mons. Alberto Maria Careggio.
Questo il testo integrale della sua omelia:
Oggi è un giorno di particolare festa per questa parrocchia e anch’io sono molto lieto di esser qui per celebrare un evento irripetibile: il cinquantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale di Mons. Umberto Toffani e il suo trentacinquesimo di ministero nella comunità di Santo Stefano al Mare.
Caro don Umberto, questi traguardi potevano sembrare tanto lontani quando disse il suo sì alla chiamata del Signore; quando, entrando in seminario, lasciava i suoi genitori – correva l’Anno Santo 1950 – e iniziava la sua salita verso il l’altare del Signore. Culminò nell’ordinazione sacerdotale, seppur non ancora in età canonica, il 31 maggio1964 – cinquant’anni fa esatti – in questa stessa chiesa. Ordinante era Mons. Biancheri, allora vescovo di Rimini, già rettore del seminario di Bordighera.
Cinquant’anni sono molti nella vita di un prete e non tutti vi arrivano in salute, ancora sulla breccia come lei, attorniato da una schiera di famiglie, di nipoti e amati parrocchiani che ha generato nella fede. In tutti questi anni ha avuto certamente incalcolabili soddisfazioni pastorali e, pur ammettendo le inevitabili sofferenze della paternità spirituale, il Signore le ha risparmiato quella di celebrare la ricorrenza senza considerarsi un pastor sine grege, come avviene quando scatta l’ora di ritirarsi da un ministero diretto e dover sublimare in pura spiritualità quanto di fisico è stato tolto. Ma, visto che a lei, Monsignore, piace talvolta fare dell’ironia, potrebbe anche essere utile citarle l’aforisma di Nicolás Gómez Dávila: L’efficienza dell’individuo più che una virtù è una minaccia per i suoi simili (“Tra poche parole”, Adelphi, 2007). Non è certamente così, per i suoi cari parrocchiani. Ciononostante, vive soltanto chi, rispondendo ad una chiamata, la pensa, la dice e la testimonia, senza aspettarsi particolari ringraziamenti. Comunque, lei non si è mai sottratto agl’impegni pastorali del suo sacerdozio e in un anniversario come quello di oggi è giusto ricordare che la più grande ricompensa che la onora è la certezza di essersi fatto trovare sempre pronto nel darsi senza riserve, soprattutto per i suoi parrocchiani. Lei lo ha fatto e continuerà ancora a lungo, ne sono certo.
Nel gaudio dell’odierna ricorrenza, rivive certamente gli anni delle sue decisioni radicali e totalizzanti, allontanando semmai qualche punta di rammarico per occasioni di bene perdute a causa dell’inevitabile fragilità umana. Nella forza evocatrice della memoria, con particolare commozione si susseguono gli eventi che hanno segnato i suoi “primi” cinquant’anni di ministero… Il pensiero va innanzitutto ai suoi cari genitori, in quella famiglia del passato in cui si parlava soprattutto con il linguaggio della fede e s’imparava a mettere in pratica sia le virtù cristiane, sia quelle umane: un clima certamente favorevole per lo sbocciare anche di una vocazione sacerdotale. In progressione le devono affiorare anche gli anni del suo ministero svolto come cappellano all’ospedale di Taggia, per passare quindi alle varie attività con i ragazzi e con i gruppi Scout da lei fondati, ai viaggi missionari, alle molteplici iniziative della vita parrocchiale, senza tralasciare altre mansioni di carattere diocesano. Sono qui volentieri anche per dirle sia a nome mio personale, sia dei miei predecessori, un grazie sincero, caloroso e riconoscente. Quanto mi è stata preziosa la sua disponibilità a fare il Vicario Generale, un incarico tanto difficile quanto scarso di soddisfazioni, in confronto a quelle che si ricevono per altri servizi! Ricordo la sera in cui venni da lei per formulare questa proposta. Non trovai resistenza alcuna, a condizione di non sottrarla alla sua amata parrocchia.
La gioia di vedersi oggi attorniato da tanti e tanti figli spirituali è il regalo più bello per tutta una vita consacrata al ministero, vita che le auguro ancora lunghissima, sempre ricca di soddisfazioni e in buona salute. Gli anni del suo sacerdozio non sono stati infecondi, ma ricchi di realizzazioni che hanno esaltato tutte le sue doti di mente, di cuore e di pastore, sempre sollecito per il bene del gregge affidatole. Pertanto, è giusto che i suoi fedeli oggi le si stringano attorno per dire il loro grazie, innanzitutto al Signore, quindi a lei personalmente.
Noi preti abitualmente siamo un po’ riluttanti alle feste, specie se ne siamo i principali protagonisti. Seppure spesso compiaciuti, non vorremmo cedere al tanto vituperato “trionfalismo” di cui era accusata la Chiesa in passato. Nel noto romanzo di Ignazio Silone “L’avventura di un povero cristiano” (Milano 1968), all’inizio di un interessante dialogo c’è una domanda: Hai riflettuto sul particolare – dice il mio compagno – che la Chiesa festeggia la data dell’incoronazione e non quella dell’abdicazione o della morte? Non hanno avuto torto alcuni padri conciliari ad accusarla di “trionfalismo”. Tuttavia, paventando questo fantasma, dal ’68 in poi, gli anni dell’appiattimento livellatore di ogni valore della vita, abbiamo permesso che i giovani crescessero all’insegna del “tutto dovuto” per giungere alle forme del più ingrato egoismo e della più disinvolta maleducazione. Eccezione fatta per i bambini di questa parrocchia: quanti sono quelli che ogni mattina e ogni sera dicono ancora al Signore: Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano, ecc.? Quante volte sono dovuto intervenire per richiamare la bella e grande parola imparata in famiglia: Grazie! Quand’anche oggi tutto possa sembrare dovuto, non lo sarebbe in alcun modo per il sacerdozio: chi lo pretendesse non arriverebbe alla mèta.
Papa Benedetto XVI, nell’Angelus di domenica 13 giugno 2010, a conclusione dell’Anno sacerdotale, affermava: "Il sacerdote è un dono del cuore di Cristo, un dono per la Chiesa e per il mondo. Dal cuore del Figlio di Dio traboccante di carità, scaturiscono tutti i beni della Chiesa e in modo particolare trae origine la vocazione di quegli uomini che, conquistati dal Signore Gesù, lasciano tutto per dedicarsi interamente al servizio del popolo cristiano, sull’esempio del Buon Pastore. Il sacerdote è plasmato dalla stessa carità di Cristo… Per questo sono i primi operai della civiltà dell’amore” (“Insegnamenti di Benedetto XVI”, VI – 1, 2010, p. 915).
Caro Monsignore, davvero grande oggi è la gratitudine dei suoi parrocchiani! Non ringraziano il Signore soltanto per il traguardo che ella ha raggiunto, ma anche perché lo celebra ancora in mezzo a loro come parroco. La gioia non sarebbe così intensa se fosse arrivato anche per lei il cosiddetto “meritato riposo”, previsto dalle norme canoniche. I suoi figli spirituali ne sarebbero sconsolati e per Lei la sofferenza sarebbe altrettanto grande, seppure mitigata dalle parole della Sacra Scrittura e dalla cara memoria del bene fatto e ricevuto. Tuttavia mi piace citare ancora questo pensiero di Gómez Dávila: Ricompensa che ci onori è solo la certezza di esserci fatti trovare pronti alla chiamata (“Pensieri antimoderni”, Ed. di Ar, 2008). Per noi sacerdoti la chiamata non ha che una risposta fondamentale nell’ “Eccomi”, pronunciato nel giorno della sacra ordinazione. Non solo essa ci ha assimilati all’ “eccomi” di Gesù detto al Padre, ma ci ha messi nella condizione di agire in persona Christi. San Giovanni Paolo II ai neo sacerdoti di Rio de Janeiro evidenziava come Gesù ci indentifica in tal maniera con se stesso nell’esercizio dei poteri che ci ha conferito, che la nostra personalità in certo senso sparisce davanti alla sua poiché è lui che agisce per mezzo nostro. Concludeva dicendo: Questo dono del sacerdozio, ricordatelo sempre, è un prodigio che fu realizzato in voi ma non per voi. Esso lo fu per la Chiesa, ciò che equivale a dire, per il mondo che deve essere salvato(2 luglio 1980). Ecco il prodigio della nostra “ascensione”: da povere creature quali siamo nei limiti nella nostra umanità, passiamo ad essere ministri del sacro con poteri divini. Pertanto, il nostro stare con la gente e l’essere in tutto simili agli altri, dovrebbero essere sempre considerati come l’espressione tangibile della presenza di Gesù in mezzo al suo gregge e la realizzazione completa del suo comando: Fate questo in memoria di me. In altre parole: fate come ho fatto io; non limitatevi alla celebrazione della Santa Messa, ma vivete in modo tale che chi veda voi possa vedere me; chi ascolti voi, possa ascoltare me. Quanto grande e bello è il nostro sacerdozio!
Nel concludere, vorrei formularle un augurio, certo di condividere un suo profondo desiderio: che il Signore, oggi, giornata storica per lei e per la vita di questa comunità, metta nel cuore di qualche giovane l’aspirazione di seguire Gesù sulla strada del sacerdozio o della vita consacrata. Direi di più: che qualche ragazzo possa sentire presente in se stesso la chiamata del Signore. Quanti ne ha incontrati lei, in cinquant’anni di ministero! Quanti ne ha amorevolmente portati al Signore preparandoli ai sacramenti, come mi è stato dato di vedere personalmente negli anni del mio ministero episcopale in mezzo a voi! Se questa sera, al termine di una lunga giornata, qualcuno le venisse a dire che vorrebbe anche lui rispondere sì alla chiamata del Signore, sarebbe il dono più bello e grande per il suo giubileo sacerdotale. Grazie, carissimo Monsignore. Ad multos annos!
Mons. Alberto Maria Careggio