L’olio simbolo della Liguria

16 gennaio 2014 | 22:08
Share0
L’olio simbolo della Liguria

Da una produzione medioevale piuttosto modesta si passò all’industria olearia dei tempi d’oro, con la diffusione delle giare che provenivano da una fabbrica di Antibes, mentre più tardi si utilizzarono giare toscane

L’ulivo, cantato da Giovanni Boine, è per la Liguria una leggenda. Secondo Strabone gli antichi liguri importavano l’olio da altre regioni, ma tradizioni successive riportano che la pianta dell’ulivo era già coltivata anche in questa terra da epoche immemori. L’ulivo, che è tra le specie arboree più coltivate nel bacino del Mediterraneo, sembra confondere le proprie origini storiche con il mito, avendo anche valenze religiose (ad Atene, ad esempio, la nascita dell’ulivo è legata al culto di Pallade Atena, la Minerva latina, e analoghi contorni si ritrovano in Palestina e in Mesopotamia). Di recente sembra farsi strada la tesi che l’ulivo sia stato introdotto nell’arco intero del Mediterraneo e in Nord Africa dai monti a sud del Caucaso, territori in cui sarebbe stata individuata anche l’inizio della coltivazione della vigna (l’odierna Georgia, ma anche gli altipiani iranici e le coste del Mar Nero, avrebbero maturato le prime esperienze dell’olio e del vino, come si narra anche nelle Argonautiche, poema che, insieme all’Iliade celebra le gesta collettive dell’Ellade). In Liguria, in epoca romana, l’ulivo non era certo una risorsa così marginale come si era pensato in un primo momento e almeno del Ponente romano si ricordano virtù agricole anche in campo olivicolo, specialmente negli Orti Porciani, in Costa Balenae e in Costa Pompeia (gli odierni territori tra Taggia, Riva Ligure, Santo Stefano al Mare, Pompeiana, Castellaro). Non trova riscontro l’ipotesi che l’ulivo conosciuto nella nostra regione sia stato importato dai Crociati liguri. La tradizione più autentica è, invece, quella che siano stati i monaci benedettini ad introdurre l’attività olivicola modena, con lo sviluppo della "taggiasca" e a migliorare quella precedente, in prevalenza fondata su olio di ulivi selvatici. Grandi organizzatori, i monaci si insediarono sull’isola del Tino, sulla Gallinara di fronte ad Albenga, e a Portofino. La "taggiasca", che deve il nome ai vivai impiantati a Taggia e in seguito estesi da Nizza a Capo Mele e
dintorni. Sempre i monaci insegnarono ai contadini liguri l’arte di terrazzare le montagne con i muri a secco (maxei) per creare le cosiddette "fasce".

Da una produzione medioevale piuttosto modesta si passò all’industria olearia dei tempi d’oro, con la diffusione delle giare che
provenivano da una fabbrica di Antibes, mentre più tardi si utilizzarono giare toscane. Con la prima guerra mondiale venne assestato un colpo assaiduro alle colture dell’olivo a causa del ricorso al taglio del legname a fini bellici. La macchia riprese il sopravvento con danno all’ecosistema. Dopo la seconda guerra mondiale, si assistette ad una certa ripresa dei condizioni dei mercati internazionali di questo nuovo Millennio e la crescita della concorrenza impongono un ripensamento del mondo olivicolo anche al fine di non smarrire i contenuti originari della civiltà dell’ulivo in Liguria. L’interesse per olio extravergine d’oliva e della dieta mediterranea (quella ligure risulta particolarmente sobria, sana e intrigante), infatti, possono fare di questa terra un testimonial di un’insperata ripresa della nostra economia.

Pierluigi Casalino