Non chiudere la porta in faccia: un richiamo, alcune considerazioni in chiusura dell’Anno della Fede

24 novembre 2013 | 16:15
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Non chiudere la porta in faccia: un richiamo, alcune considerazioni in chiusura dell’Anno della Fede

Le prospettive per un piano Pastorale in chiusura dell’Anno della Fede ed all’inizio del nuovo Anno Liturgico

Oggi pomeriggio è stata pubblicata la lettera pastorale di Mons. Alberto Maria Careggio. Il titolo è "Non chiudere la  porta in faccia" e vuole essere un richiamo ad alcune considerazioni in chiusura dell’Anno della Fede. Sono tre i punti della vita pastorale richiamati. La catechesi, la predicazione durante la Celebrazione dell’Eucaristia e la Nuova Evangelizzazione. Questo documento vuole essere un invito a non lasciare il Cristo fuori dalla nostra vita perché troppo incentrati su di noi. La Fede non si esaurisce con la conclusione dell’anno dedicato a questa virtù cardinale, ma è un cammino che accompagna tutta l’esistenza.

Non chiudere la porta in faccia
Considerazioni sul finire dell’Anno della Fede
Prospettive per un Piano Pastorale

Avrebbe tutto il sapore di vedersi chiudere la porta in faccia se si affermasse che l’Anno della Fede sia concluso.
Sotto l’aspetto formale, il 24 novembre termina effettivamente un anno caratterizzato da intense riflessioni e  celebrazioni sul tema fondamentale della vita cristiana, ma sotto quello sostanziale non si può affatto dire: “Adesso basta parlare di fede e discorriamo d’altro!”. Dobbiamo pensare che l’impegno profuso dall’11 ottobre dell’anno scorso, giorno della solenne apertura, a tutt’oggi avrebbe dovuto irrobustire le nostre energie tanto da essere diventati davvero capaci di condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo dell’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che dona la vita in pienezza.
Questo era l’intento di Papa Benedetto XVI nell’indire l’Anno della Fede e rimane certamente l’obiettivo del suo successore, Papa Francesco.
Non so dire se ne siamo diventati “capaci”, ma certamente se ne avverte sempre più l’urgenza.
Basti considerare che, da una recente statistica dell’ISTAT, nella nostra Liguria il 46% delle persone dai 18 ai 35 anni ha dichiarato di non aver partecipato mai a riti religiosi. Ci supera sotto quest’aspetto solo la Toscana con il 47 %.
Tralasciando le varie articolazioni dell’indagine, ossia le varie declinazioni sul sesso degli intervistati, sulle varie età, sul grado di cultura e dell’ambiente sociale in cui essi vivono, i dati riferiti sono di per sé molto preoccupanti, considerando che la media italiana di coloro che soffrono il cosiddetto “fumo delle candele” è solo del 29 per cento.
Toscana e Liguria sono, dunque, le due Regioni più scristianizzate d’Italia.
È un primato che non ci fa onore e dovrebbe far sussultare specialmente i sacerdoti e quindi tutti gli altri fedeli, in modo particolare gli aderenti alle varie Aggregazioni ecclesiali. Non si tiri sempre fuori la solita storia che siamo in una zona turistica, di confine, che subiamo l’influsso negativo delle idee d’oltralpe, comunque, accanto al male, vi è pur sempre anche il bene.
Nessuno lo nega.
Tuttavia, se di fronte ad un “ammalato terminale” si dicesse che, nonostante tutto, “può ancora correre”, lascio a voi fare il debito commento.
Peggio sarebbe se questa idiozia venisse da qualche sanitario che, volendo minimizzare lo stato patologico del paziente, non ne vedesse la gravità. Non si possono guarire tutte le malattie soltanto con un po’ di aspirina; ma noi, tanto sacerdoti, quanto laici, rischiamo di fare proprio così nel nostro ministero, quando sottovalutiamo la reale situazione delle nostre parrocchie e della Diocesi.
Per rimanere fedeli a Gesù Cristo, è doveroso ricordare sempre che l’Anno della Fede equivale all’ “oggi” di Dio: Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il vostro cuore… (Sal 94). Ne deriva che, parlando di “Piano pastorale per il 2013-2014”, indico tre importanti obiettivi.

Primo: Curare meglio la catechesi dei fanciulli, dei giovani e degli adulti.

Nella parrocchia il primo responsabile di questo settore è il Parroco. Ogni tentativo di affidare solo alle famiglie il ruolo principale della catechesi, in Italia è stato quasi ovunque un fallimento e le sperimentazioni non hanno dato risultati soddisfacenti.
La logica vuole che i figli, per le materie profane, si mandino a scuola e, possibilmente, presso bravi insegnanti. Altrettanto andrebbe detto per quanto riguarda la formazione e la pratica della fede cristiana, specie quando la famiglia sia poco praticante o, peggio, offra una deplorevole contro testimonianza ai figli: Nemo dat quod non habet!
È ovvio, tuttavia, che la famiglia abbia un ruolo fondamentale nella formazione dei figli; se questo vale per ogni aspetto educativo, a maggior ragione vale per la vita cristiana.
Rimane, quindi, valido quanto si legge nel documento conciliare Gravissimum educationis: I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, hanno l’obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e i principali educatori di essa.
Questa funzione educativa è tanto importante che, se manca, a stento può essere supplita. Tocca infatti ai genitori creare quell’ambiente familiare vivificato dall’amore e dalla pietà verso Dio e verso gli uomini, che favorisca l’educazione completa dei figli in senso personale e sociale.
La famiglia, dunque, è la prima scuola delle virtù sociali, delle quali hanno bisogno tutte le società. Ma soprattutto nella famiglia cristiana, arricchita della grazia e della missione del matrimonio-sacramento, i figli fin dalla più tenera età devono essere educati a percepire il senso di Dio e a venerarlo e ad amare il prossimo secondo la fede che hanno ricevuto. (Cfr. n°3)
Nessuno vuole mettere in dubbio la verità di queste affermazioni conciliari, ma rimane l’interrogativo: quante sono le famiglie di oggi capaci di eseguire il compito che la Chiesa le riconosce? Specialmente nel settore della catechesi, l’appoggiarsi del tutto sui genitori (come avviene in taluni casi) limitandosi, al massimo, a degli incontri sporadici con loro, può essere molto comodo per il Parroco, ma il più delle volte è anche molto rischioso.
Per quanto si riferisce ai doveri del Parroco, il can. 528 del Codice di Diritto Canonico menziona espressamente l’omelia e l’istruzione catechetica, la promozione di iniziative che diffondano lo spirito evangelico in ogni ambito della vita umana. La formazione cattolica dei fanciulli e dei giovani è l’impegno affinché, con la ordinata collaborazione dei fedeli laici, il Vangelo possa raggiungere quelli che hanno abbandonato la pratica religiosa o non professano la vera fede.
Nel settore della catechesi, il Parroco, come avviene quasi dappertutto, può essere coadiuvato da fedeli laici che abbiano la dovuta  preparazione, secondo la retta dottrina, e conducano una coerente vita cristiana. Va sempre salvato l’obbligo del  Parroco all’incontro personale con i ragazzi.
Il beato Giovanni XXIII scriveva: È di somma importanza che il clero  ovunque ed in ogni tempo sia fedele al suo dovere d’insegnare. “Qui giova – diceva a tal proposito San Pio X – a  questo solo tendere e su questo solo insistere, che cioè ogni sacerdote non è tenuto da nessun altro ufficio più  grave, né è obbligato da nessun altro vincolo più stretto” (Lett. Enc. Sacerdotii Nostri primordia).
Sul Parroco, dunque, in virtù della carità pastorale, grava il dovere di esercitare attenta e premurosa sorveglianza, oltre che  l’incoraggiamento su tutti e singoli i collaboratori. Se così fosse davvero, il Vescovo sarebbe molto più sereno di  fronte al sacramento della Confermazione conferito il più delle volte a ragazzini, buoni sì, ma sprovveduti proprio in  tutto.
Su questi orientamenti l’Ufficio Diocesano per la Catechesi si è già attivato nel voler offrire ai Parroci il  suo qualificato sostegno per una seria formazione dei catechisti, con un’attenzione particolare alle piccole  parrocchie che possono avere maggiori difficoltà.

Secondo: Curare la predicazione.

È un peccato grave accostarsi all’ambone per la liturgia della parola senza essersi preparati innanzitutto con la preghiera, quindi con uno studio a largo raggio, che permetta di esporre con chiarezza e precisione il pensiero di  Gesù, la morale cattolica e l’insegnamento del Magistero ecclesiastico.
Non guasterebbe per nulla se il sacerdote dimostrasse anche di essere attento ai reali problemi della vita, partecipando tanto alle gioie, quanto ai dolori, alle fatiche e alle speranze della sua gente. Quando le omelie sono piacevoli e interessanti rendono ancora più viva l’attenzione dei fedeli.
Se occorre pensare come persone dotte, il parlare dovrà essere, invece, come la gente comune, capace di cogliere sempre la coerenza tra la parola proclamata e la vita testimoniata.
Se è vero che poeta nascitur, orator fit, il servizio alla Parola richiede pure un costante esercizio nella pronuncia. La voce non deve essere stentorea, ma neppure impercettibile; deve essere chiara e sostenuta, possibilmente piacevole.
È necessario presentare i contenuti con un linguaggio appropriato, mai banale; quindi occorre mirare alla chiarezza, alla concisione, facendo attenzione anche alla gestualità che non deve essere teatrale ma espressiva, contenuta ed efficace perché si parla anche con il corpo.
Il risultato pratico di quanto sopra detto sarà completo quando i Parroci metteranno anche più attenzione alla formazione dei Lettori. Spesso li trovo impreparati, cantilenanti, affrettati, con pronunce non chiare, incapaci di interpretare le pause indicate dalla punteggiatura. La percezione che ne deriva è quella che, nonostante la loro encomiabile buona volontà, lasciati a se stessi, non abbiano neppure colto il senso del testo. Non si deve affidare la Parola di Dio a chicchessia.
Parroci, siate esigenti e sempre rispettosi della Parola di Dio. Il cardinale Martini riconosceva che l’omelia “è forse il modo più difficile con cui la Chiesa opera con la Scrittura”.
Un’ultima attenzione va portata sui mezzi di amplificazione che devono essere adeguati e non desueti. Pensate anche alle persone più anziane, indebolite nell’udito. Chi ascolta non deve fare fatica e neppure essere raggiunto da una voce sgradevole e fastidiosa. La liturgia è senza dubbio il punto più opportuno nella trasmissione della fede.
Domandiamoci spesso perché siano così poche le presenze alle nostre Messe. Ci saranno pure delle ragioni e delle lacune da parte nostra. Sforziamoci, dunque, a rendere vero quanto Papa Benedetto ha scritto nella Porta Fidei: La porta della fede che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi.
È possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma.
Facciamo in modo che con le nostre possibili trascuratezze non si chiuda la porta in faccia alla gente che desidera sempre un messaggio di speranza e una Parola che salva.

Terzo: Nuova evangelizzazione.

Molto si è scritto su questa cosiddetta “Nuova evangelizzazione”. Dopo il famigerato sessantotto e sotto l’impulso acceleratore di molti fattori, la nostra società è notevolmente cambiata.
Tanto ai sacerdoti, quanto ai vari operatori pastorali si richiede, pertanto, uno sforzo particolare di adeguamento nell’annuncio del Vangelo per evitare che il patrimonio spirituale e morale, che per secoli ha alimentato la nostra gente, vada totalmente disperso sotto l’impatto di molteplici processi e della secolarizzazione diffusa ovunque.
Bisogna risvegliare il trascendente, il senso del sacro che tutti, in qualche modo, portano dentro. Per molti si tratta di risvegliare il Battesimo che è rimasto un fatto secondario e insignificante. In tutti si tratta di riscoprire e incontrare Gesù Cristo. Questa è la nuova evangelizzazione che per ben ventisette anni è stata l’obiettivo principale del ministero pontificio del beato Giovanni Paolo II.
Sulle orme di Paolo VI, egli sintetizzando il concetto di “Nuova evangelizzazione” nell’Esortazione post sinodale Christifideles laici, scriveva: Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo.
Benedetto XVI nella Lettera apostolica "Ubicumque et semper" sottolineava con ragione l’opportunità di offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione.
Si potrà discutere a lungo sul senso dell’espressione “nuova evangelizzazione”. Chiedersi se l’aggettivo determini il contenuto, ha una sua ragionevolezza, ma non intacca la realtà. Il fatto che la si chiami “nuova” sta ad indicare la condizione e le modalità in cui essa avviene. Qualcuno potrebbe insinuare che decidersi per questa evangelizzazione equivarrebbe a giudicare l’azione pastorale, svolta in precedenza dalla Chiesa, come fallimentare per la negligenza posta o per la scarsa credibilità offerta dai suoi uomini.
A questa obiezione, Mons. Rino Fisichella, Presidente del Consiglio Pontificio per la Nuova Evangelizzazione, risponde: Anche questa considerazione non è priva di una sua plausibilità, ma si ferma al fenomeno sociologico preso nella sua frammentarietà, senza considerare che la Chiesa nel mondo presenta tratti di santità costante e di testimonianze credibili che ancora ai nostri giorni sono segnate con il dono della vita. Il martirio di molti cristiani non è diverso da quello offerto nel corso dei secoli della nostra storia, eppure è veramente nuovo perché provoca gli uomini del nostro tempo spesso indifferenti a riflettere sul senso della vita e sul dono della fede (Oss. Rom., 21 gennaio 2013).
Meritano di essere particolarmente sottolineati e richiamati i tre aspetti evidenziati da Benedetto XVI nel testo sopra citato.

1 – Offrire “risposte adeguate”.

Quando si smarrisce la ricerca del genuino senso dell’esistenza, allora è giusto parlare di nuova evangelizzazione. Essa si pone come vera provocazione a prendere sul serio la vita per orientarla verso un senso compiuto e definitivo che trova unico riscontro nella persona di Gesù di Nazareth.
Lui, il rivelatore del Padre e sua rivelazione storica, è il Vangelo che ancora oggi annunciamo come risposta all’interrogativo che inquieta gli uomini da sempre. Mettersi al servizio dell’uomo per comprendere l’ansia che lo muove e proporre una via d’uscita che gli dia serenità e gioia è quanto si raccoglie nella bella notizia che la Chiesa annuncia.

2 – Nuovo slancio missionario.

Bisogna superare alcune difficoltà che nel corso dei decenni si sono presentate, pensando che l’annuncio esplicito non fosse più necessario, ma fosse sufficiente la semplice testimonianza di vita, dimenticando che la fede si trasmette anche con la parola. Paolo VI, ai pellegrini presenti nell’udienza generale del 31 maggio 1967, ribadiva la necessità di trasmettere la dottrina che ci salva.
La fede ha bisogno del maestro. Cioè d’un insegnamento e di uno studio.
Se non si riesce a stabilire un rapporto normale e sufficiente tra il maestro della fede e il discepolo, la fede o non nasce o non resiste nel cuore e nella vita del discepolo. Fides ex auditu, la fede deriva dalla ascoltazione, dice l’Apostolo (Rom. 10, 17). L’insegnamento religioso è indispensabile; tante volte si ripete questo principio; bisogna prenderlo sul serio.

3 – Impulsi diversi di evangelizzazione.

A seconda della molteplicità dei carismi, variano le metodologie che non dovranno mai essere in contrapposizione l’una con l’altra, ma complementari nell’unità del progetto comune che la Chiesa intende perseguire con l’evangelizzazione.
Per quanto paradossale possa sembrare, si preferisce imporre la propria opinione piuttosto che indirizzare l’ascoltatore verso la ricerca della verità. L’esigenza di un linguaggio nuovo, in grado di farsi comprendere dagli uomini di oggi, è una necessità da cui non si può prescindere, soprattutto per il linguaggio religioso così improntato a una specificità tale da risultare spesso incomprensibile ai più.
Aprire la “gabbia del linguaggio” per favorire una comunicazione più efficace e feconda è un impegno concreto perché l’evangelizzazione sia realmente nuova.
Se, per esempio, uscissimo in una espressione come questa anamnesi prolettica del pleroma, penso che nessuno dei nostri fedeli
arriverebbe a capire che con quella locuzione si vuole indicare la virtù della Speranza.
Mi piace ancora riportare qui una riflessione di S. E. Mons. Rino Fisichella, fatta in un incontro con i responsabili della nuova evangelizzazione.
Voler ricorrere – disse – a una definizione esaustiva di un’evangelizzazione rischia di far dimenticare la ricchezza e la complessità della sua natura; … dobbiamo ripeterci senza troppa retorica che l’opera di evangelizzazione … non può essere fatta solo in modo decorativo, ma andando all’essenziale, partendo sempre dalla persona e dal suo desiderio di Dio.
La nuova evangelizzazione, dunque, richiede la capacità di saper dare ragione della propria fede, mostrando Gesù Cristo, il Figlio di Dio, unico Salvatore dell’umanità.
Nella misura in cui saremo capaci di questo, potremo offrire al nostro contemporaneo la risposta che attende. … Guardare al futuro con la certezza della speranza è ciò che consente di non rimanere rinchiusi, né in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato, né di cedere all’utopia, perché ammaliati da ipotesi che non possono avere riscontro.
La fede impegna nell’oggi che viviamo, per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura; a noi cristiani, tuttavia, questo non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione, ma renderebbe vana la Pentecoste (Aula del Sinodo, 15 ottobre 2011).

In conclusione                                                                            

In una parrocchia il pastore proprio della comunità è il Parroco (Can. 519).
A questi spetta di mettere in atto le iniziative per raggiungere gli obiettivi sopra richiamati. Oltre il coinvolgimento del Consiglio Pastorale parrocchiale, è sempre più necessario e collaborare all’interno dello stesso Vicariato.
Inoltre, è saggezza e molto consigliabile mettersi in rete con le comunità confinanti, essendo ormai questa prassi sempre più consolidata in moltissime diocesi da molti decenni e una necessità urgente anche nella nostra Diocesi.
Questo comporta, necessariamente, un’apertura di pensiero e un cambio di mentalità da parte di tutti, dapprima del sacerdote, quindi delle comunità le quali vanno sempre sollecitate ad allargare lo sguardo dei propri confini, spesso ristretti ed esclusivi.
I sacerdoti più anziani ricordano ancora le guerre tra parrocchie limitrofe, scatenate da una parte per i “diritti di stola”, dall’altra per gli ostinati particolarismi che si pensavano minacciati dai vicini.
Era inevitabile entrare in pesanti contese, col tempo diventate folclore locale, ma sempre segno di una contrapposizione scandalosa e incomprensibile dai lontani. Ora la pastorale deve riscoprire le strade e gli stili dell’annuncio evangelico della salvezza, per non allontanare i giovani i quali fuggono da una fede proposta in modo convenzionale.
Invero, non è il tradizionalismo a precisare il contenuto della fede, bensì la fede stessa, tanto da determinare anche il mezzo espressivo a seconda dei soggetti, delle esigenze e dei tempi. Non possiamo dar loro torto: quanto più i giovani sono concreti e smaliziati, sfacciati e in atteggiamento di sfida verso gli adulti, tanto più sono anche sensibili ad un annuncio autentico, sincero, fatto in modo non scontato, con amore e tanta pazienza.
Ogni nostra buona parola e ogni buon esempio porteranno alla fine il loro effetto positivo. Soprattutto nella pastorale ordinaria, dunque, non si dimentichi che le style c’est l’homme. Soprattutto la “pastorale ordinaria della strada” richiede sacerdoti generosi, convinti, propositivi, coraggiosi e desiderosi di spendere la loro vita per gli altri, pronti ad aprire a chiunque bussi alla porta del loro cuore.
La vera evangelizzazione deve rivolgersi ai bisogni spirituali e materiali concreti dell’uomo di oggi, cosa ben più importante di qualsiasi iniziativa, per quanto perfetta sul piano organizzativo. Dunque, quanto più sarà presente quest’attenzione all’uomo, tanto più sarà pure visibile il beneficio che ne deriva.
Non sarà mai un chiudere la porta della fede in faccia alla nostra gente. Impegniamoci a lavorare per la diffusione della fede, nella consapevolezza che l’agire di Dio in noi è primario e fondamentale.
Con il suo aiuto, i suoi doni di grazia e il suo invito alla comunione, Egli previene sempre l’agire dell’uomo, orientandolo ad accogliere il bene e a viverlo.
Su questa certezza deve basarsi ogni ministero, se vuole essere efficace e sorgente di gioiosa speranza.

Ventimiglia – San Remo, 30 settembre 2013
Nella Memoria di San Girolamo
+ Alberto Maria Careggio Vescovo