Il Lions Club Imperia Host ha incontrato Maria Garcia, infermiera volontaria in Afghanistan

29 gennaio 2011 | 17:47
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Il Lions Club Imperia Host ha incontrato Maria Garcia, infermiera volontaria in Afghanistan

La serata è stata dedicata al professor Fernando Magrassi, recentemente scomparso

Maria Garcia è una infermiera spagnola che da 7 anni vive a Imperia e lavora presso l’ospedale del capoluogo. Il Lions Club Imperia Host l’ha incontrata, giovedì 27.01, per ascoltare la sua testimonianza sui mesi trascorsi in Afghanistan, dove ha prestato la propria opera presso due strutture ospedaliere della ONG Emergency: nel Panjshir e a Kabul.

Il dottor Franco Beghè, medico internista presso la SC di Medicina Interna dell’Ospedale di Imperia, Presidente del Lions Club Imperia Host, introducendo l’incontro ha innanzitutto ricordato il professor Fernando Magrassi recentemente scomparso: “E vorrei dedicare proprio a lui questa serata alla quale sono sicuro che, come socio Lions e come chirurgo, non avrebbe certo voluto mancare di essere presente”. Ha poi spiegato: “ I motivi che ci hanno spinto a incontrare Maria si trovano nel Codice dell’Etica Lionistica e negli Scopi del Lionismo che sanciscono di essere solidali con il prossimo mediante l’aiuto ai deboli, il soccorso ai bisognosi e la simpatia ai sofferenti e di creare e stimolare uno spirito di comprensione tra i popoli del mondo. L’esperienza di Maria propone, e condivide con il lionismo, proprio questi valori e testimonia il bene prezioso della pace in un mondo dominato dalla superficialità, dalla vanità, dal fatuo, dall’arroganza e, drammaticamente, dalla violenza e dalla guerra. E poi c’è un motivo strettamente personale: Maria ha lavorato nel mio stesso reparto e ho avuto prova della sua professionalità e umanità. E forse sono stato tra le prime persone a sapere che avrebbe fatto questa esperienza.”

Riportiamo qui alcuni dei momenti più significativi dell’incontro con Maria.

Maria, quale è stato il primo impatto con la realtà afghana?
“Quando sono atterrata a Kabul, nel caos di quella città, mi ricordo di aver guardato nel cielo e di aver visto molti aquiloni che volavano altissimi, fatti di carta e di sottili legni, che i bambini fanno volare in modo incredibile tra lo smog della città. Il giorno dopo partivo per la mia destinazione: la valle del Panjshir. Un posto bellissimo; sembrava di essere dentro ad un presepe: le case, la gente, gli asini, le mucche, le strade sterrate, il lavoro dei campi. Un paesaggio di montagne con le cime piene di neve che fanno da porta a quella splendida valle. Ma in quelle montagne non puoi mettere piede perché ci sono i resti delle mine antiuomo conosciute come “ papagalli verdi “, residui della guerra con la Russia, fabbricate da paesi come i nostri. Rischi di saltare in aria come tanti bambini che purtroppo in questi mesi sono passati tra le mie mani. Arrivavano in stato di shock, a volte neanche una lacrima, diventati uomini e donne d’un colpo: il colpo della guerra.”

Presso quali strutture ha lavorato?
“Nel Panjshir ho lavorato in un ospedale di riferimento provinciale, ma arrivavano malati anche dalle province vicine. L’ospedale è nato come centro chirurgico per le vittime della guerra e ha tre reparti chirurgici, due sale operatorie e l’unità semi-intensiva. Si fanno interventi programmati e le urgenze. Ha poi una maternità. Una delle poche vere maternità del posto gestita da donne: due ostetriche e una ginecologa internazionale e personale del posto istruito da noi. Si fanno più di trecento parti al mese con una mortalità neonatale molto bassa. Con le donne in gravidanza e le mamme cercavamo sempre di fare un programma di gestione della gravidanza e di educazione al puerperio: ma è molto difficile cambiare alcune abitudini. E poi molte di loro per arrivare all’ospedale devono fare molti chilometri e spesso a piedi. Successivamente sono andata a lavorare a Kabul. “

Tra i vostri impegni c’è anche quello di preparare personale del posto a svolgere un attività assistenziale?
“Sì. La formazione è quasi l’attività più importante del nostro lavoro: per renderli indipendenti. Una delle esperienze più belle è vedere la voglia e l’interesse che avevano a imparare qualcosa di nuovo o il perché delle cose. Come ti ringraziavano. E poi sono un popolo ospitale, ti danno il cuore; e se li rispetti, loro rispettano te. “

E a Kabul?
“Ho trascorso un mese a Kabul. L’ospedale di Emergency in Kabul ricovera solo i feriti di guerra. In media 8-9 ricoveri al giorno; ma un giorno abbiamo avuto 35 ricoveri. Ogni volta quello che più mi impressionava erano i bambini. Pastana, tre anni, ha un proiettile in testa: qualche ora di sala operatoria, 3 giorni di rianimazione. Si è salvata, se ne è andata a casa con i suoi piedini, la bocca un poco storta e un braccio meno sensibile e il suo proiettile ancora in testa. Basmaro, una bambina bellissima di 6 anni e con più di una ferita d’arma da fuoco: giocava con la sua carrozzina, mi seguiva per tutto l’ospedale, rideva e voleva sempre abbracciarmi. Ma non riuscirà mai più a camminare normalmente. E Reka, 11 anni, è distrutta da una mina: addome, gambe, braccia; non piangeva e mi guardava mentre le levavo i vestivi e cercavo di farle capire che tutto sarebbe andato bene, anche se avevo molti dubbi. Dopo due giorni di rianimazione, piena di drenaggi, con ferite da paura mi vede, mi riconosce e mi sorride. Io mi emoziono. Il giorno dopo mi regala una collana. Siamo diventate amiche. È stata poi dimessa: ma non sarà mai più la stessa bambina. E di quanti altri bambini e di quante altre persone potrei raccontare. “

Ma alla fine di tutto questo: cosa le è rimasto?
“ Mi sento diversa, sicuramente vedo il mondo in un altro modo. Ho dato tutto quello che c’era nelle mie mani, il mio tempo, le mie conoscenze e il mio cuore in tutto quello che facevo. Ma loro mi hanno insegnato tanto: apprezzare e dare valore a tutto, amare la vita, non odiare. Perché non ti puoi dimenticare il sorriso, e anche le risate, di un ragazzino amputato, che non potrà mai più correre e che ringrazia di essere vivo, di essere tra di noi. Ho imparato che la guerra fa veramente male: questa povera gente non c’entra niente e l’unico desiderio è andare avanti con le loro vite, le loro famiglie, senza avere paura.”

Lo rifarebbe?
“Sicuramente è stata una esperienza che mi ha fatto crescere professionalmente e come persona e che senz’altro ripeterei, se sarà possibile avere una nuova aspettativa. E che raccomanderei a tutti di fare”.

Maria ha risposto a quest’ultima domanda con un sorriso.

E il Presidente del Lions Club Imperia Host ha concluso: “Maria è così: impegno serio e… un sorriso!“.