Il testo dell’Omelia di Monsignor Careggio: “Non temere piccolo gregge”

“E’ maturata nel presbiterio la sensibilità di dare al Giovedì Santo una dimensione di fraternità per la comune partecipazione al sacerdozio, caratterizzato dai due riti significativi: la Messa del Crisma del mattino e quella in Cena Domini alla sera”
NON TEMERE PICCOLO GREGGE
Messa Crismale
Ventimiglia, Cattedrale, 1 aprile 2010
Ogni anno ci ritroviamo in questa Cattedrale per la Messa crismale, così denominata per la benedizione degli Oli santi e del Crisma. È l’incontro più importante che facciamo durante l’anno e sarebbe troppo poco motivarlo soltanto per una lodevole ragione liturgica che chiede, nella celebrazione dei sacramenti, di usare oli benedetti e consacrati nell’anno. E’ andata maturando, sempre più, nel presbiterio la sensibilità di dare al Giovedì Santo una dimensione di fraternità per la comune partecipazione al sacerdozio, caratterizzato dai due riti significativi: la Messa del Crisma del mattino e quella in Cena Domini alla sera.
L’Anno Sacerdotale che stiamo celebrando costituisce una preziosa occasione in più per approfondire il valore del nostro sacerdozio. L’invito ci viene da San Paolo che ricorda al giovane Timoteo l’impegno: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani » (1 Tim 4,14).
Potremmo forse trovare inopportuno un simile invito. Timoteo non poteva essersi intiepidito dopo essere stato convertito da San Paolo. Aveva in lui uno straordinario maestro il quale, partendo da Efeso, aveva affidato la comunità al suo giovane vicario con dei compiti molto delicati: combattere gli eretici e curare l’organizzazione e la vita della comunità stessa.
Gli eretici, di cui si parla nella lettera, sono della peggior specie. Orgogliosi, presuntuosi e avidi di denaro, abbandonate le “salutari parole di Gesù Cristo”, portavano scompiglio e divisione, tanto da essere considerati strumenti di Satana. Di tutto questo, comunque, Timoteo non si deve troppo turbare. Stando alle raccomandazioni di Paolo, deve invece “non trascurare il dono ricevuto con l’imposizione delle mani”, allenarsi nella fede più che nel fisico, utile a poco; porre la speranza nel Dio vivente che è il Salvatore di tutti (cfr. 1 Tim 4, 8 – 16).
Nella Lettera di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno sacerdotale, si legge: « Tale anno … vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi» (16 giugno 2009).
Il rinnovamento di cui parla il Papa non mira, in questo caso, alle strutture ecclesiastiche, alle programmazioni pastorali, alle risposte di tipo sociale e politico che dovremmo pur considerare, ma ad una forma di rigenerazione per ritornare allo stato d’inizio del nostro sacerdozio.
L’apostolo Paolo ricorda, al suo discepolo e collaboratore, il “dono” della grazia ricevuto nell’atto della sua investitura mediante l’imposizione delle mani. Quello è il momento in cui è designato come l’uomo eletto dallo Spirito di Dio. In quanto tale, riceve un dono permanente che va messo a profitto a vantaggio della comunità.
L’imposizione delle mani, lo sappiamo, è il segno con cui lo Spirito di Dio si è impossessato di noi, facendoci partecipi della sua vita e infondendoci poteri divini. Ma con ciò ci ha anche detto: “Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue” (Cfr. Benedetto XVI, Omelia alla Messa Crismale 13, aprile 2006). Se tu mi appartieni, devi anche fidarti di me: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». (2 Cor 12,9).
Non rifletteremo mai abbastanza su questo gesto che, raggiungendo l’intimo del nostro essere, ne ha sostanzialmente cambiato la natura, tanto da poter noi operare “in persona Christi”. In vista di questa misteriosa trasformazione, anche le nostre mani sono state consacrate, unte col sacro Crisma, segno dello Spirito Santo e della sua forza, perché potessero essere per sempre strumento della misericordia divina, capacità di dono e strumento di elevazione del mondo a Dio.
Allenarsi nella fede. La fede, lo sappiamo, è una virtù infusa da Dio nel momento del Battesimo. Rimanere fedeli al nostro sacerdozio è qualcosa in più. Richiede una costante attenzione a Gesù, per poter superare i momenti di tiepidezza, di scoraggiamento, come pure le tentazioni di abbandono o i ripiegamenti scontrosi e malsani del nostro egoismo.
La figura del Curato d’Ars, che ci viene proposta, vale in quanto egli è stato un modello di vita sacerdotale, immagine vivente di Gesù col quale lui si è costantemente confrontato. Aveva una fede straordinaria nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, nell’efficacia dell’amore infinito di Dio verso i peccatori, nel valore della sofferenza e della croce. Diceva di Gesù: “Voilà notre seul modèle! Ecco il nostro unico modello!». Proclamava beato colui che avesse Gesù come guida, modello e amico: «Heureuse l’âme qui a pris Jésus-Christ pour son guide, son modèle et son bien-aimé”. Questa “beatitudine”, se è importante per tutti, lo è in modo particolare per noi, sacerdoti e anime consacrate.
Di fronte alle grandi difficoltà che dobbiamo oggi affrontare in tutti i campi, mi ha sempre colpito il tema della debolezza di Paolo a raffronto con la potenza di Dio. Rileggiamo il passaggio della 2 Lettera ai Corinzi: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto:”Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanto quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 7-10).
Mentre la sapienza del mondo si vanta della grandezza, quella cristiana si vanta della debolezza. Non bisogna pensare ad una specie di masochismo psicologico o spirituale, ma al grande segreto di potenza manifestato e dato nella Pasqua di Cristo. Questo modo del Signore di muoversi e rivelarsi è estremamente consolante tanto nella povertà della nostra vicenda personale, quanto negl’insuccessi pastorali, nell’ostilità di un contesto sociale che lotta contro la Chiesa ed i suoi ministri, quando non addirittura contro Dio stesso, in maniera sfacciata e provocatoria. Ripeteva il Curato d’Ars: «Le démon laisse bien tranquilles les mauvais chrétiens, personne ne s’occupe d’eux, mais ceux qui font le bien, il suscite contre eux mille calomnies, mille outrages. Il demonio lascia tranquilli i cattivi cristiani ; non s’interessa di loro, ma sucita calunnie e oltraggi contro coloro che fanno il bene» (Esprits 236). Satana, dunque, non rimane inoperoso e gl’inganni con cui opera sono sempre più insidiosi ed allettanti.
Di fronte alle tentazioni diaboliche, Gesù antepone ai criteri umani l’unico criterio autentico: la santità, ossia l’obbedienza e la conformità con la volontà di Dio, fondamento del nostro essere. «Anche questo – affermava Benedetto XVI all’inizio della Quaresima – è un insegnamento fondamentale per noi: se portiamo nella mente e nel cuore la Parola di Dio, se questa entra nella nostra vita, se abbiamo fiducia in Dio, possiamo respingere ogni genere di inganno del Tentatore» (Angelus, 21 febbraio 2010).
La speranza nel Dio vivente, il Salvatore di tutti, è il terzo ed ultimo richiamo di San Paolo a Timoteo (cfr. 1 Tim 4, 8 – 16).
Non c’è credente, tanto più se sacerdote, che non si ritenga bisognoso della grazia del Signore e non desideri far risplendere, nella sua realtà, povera e ferita, l’abbandono alla potenza salvifica. Non si tratta solo di sopportare umilmente le prove, ma di coglierle e di viverle come occasioni preziose del dono di Dio, per completare in noi ciò che manca alla passione di Cristo “a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). Questa “ambizione” da capogiro sarebbe quasi blasfema, se non fosse uscita dal cuore ardente di un apostolo, Paolo. La cosa più preziosa rimane quel “vantarsi delle debolezze”. Nel momento della prova, il sacerdote deve sentirsi rinfrancato in quanto dimora in lui la potenza di Cristo: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).
Ho parlato all’inizio del contesto sociale in cui Timoteo era stato chiamato ad operare. Gli “strumenti di Satana”, come l’Apostolo aveva definito gli eretici del suo tempo, oggi si sono moltiplicati a dismisura, seminando stragi nel mondo intero. Le deviazioni sul piano morale e le eresie sul piano del pensiero costituiscono ormai il tessuto di una società che ha perso i riferimenti fondamentali della vita: sono dappertutto e non soltanto, come oggi qualcuno pensa, all’interno della Chiesa! Ogni visione anche positiva del mondo non può che confrontarsi con una mentalità che, avendo eliminato il concetto di peccato, si è sfilacciata e pervertita. Oltre ai profondi mutamenti sociali e culturali, il “fumo di satana”, per usare un’espressione di Paolo VI, sta avvolgendo sempre più il mondo e sono evidenti le conseguenze malefiche del disordine morale.
In un’omelia per l’ordinazione di diaconi, Benedetto XVI non esitava di affermare: «Il “mondo” è una mentalità, una maniera di pensare e di vivere che può inquinare anche la Chiesa, e di fatto la inquina, e dunque richiede costante vigilanza e purificazione. Finché Dio non si sarà pienamente manifestato, anche i suoi figli non sono ancora pienamente “simili a Lui” (1 Gv 3,2). Siamo “nel” mondo, e rischiamo di essere anche “del” mondo. E di fatto a volte lo siamo” (Omelia, 3 maggio 2009).
Col peccato, che il curato d’Ars definiva “le bourreau du Bon Dieu et l’assassin de l’âme, il boia di Dio e l’assassino delle anime” (Fr. Athanase, P. O. 805), la nostra pastorale ha a che fare ogni giorno. Il male è dentro e fuori la Chiesa. Come convertire i cuori induriti? Come ridare ai nostri cristiani la vita della grazia? Come risanare le “strutture di peccato”, di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis (n. 36)? Non vi sembri semplicistico se dico che la risposta è nel possesso di una passione pastorale che attinge il suo dinamismo da un intenso amore per Gesù e per le anime. Ogni consolazione ed ogni fiducia scaturiscono, infatti, da una certezza che San Paolo condivide con tutta la comunità di Filippi quando scrive: «Dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e amore. È Dio, infatti, che suscita il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (Fil 2,12-13).
Benedetto XVI, durante una catechesi sul Curato d’Ars, disse: «Riuscì a toccare il cuore della gente non in forza delle proprie doti umane, né facendo leva esclusivamente su un pur lodevole impegno della volontà; conquistò le anime, anche le più refrattarie, comunicando loro ciò che intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo. Fu “innamorato” di Cristo, e il vero segreto del suo successo pastorale è stato l’amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio» (Udienza generale, 5 agosto 2009).
Rinnoviamo oggi lo slancio del nostro primo giorno, quello dell’ordinazione, ed affidiamoci con fiducia all’amore infinito di Gesù che ha vinto il mondo e continua ripetere: “Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro darvi il suo regno” (Lc 12,32). Infine, come in una predica ebbe a dire il Santo Curato, cerchiamo l’amicizia con il Signore Dio e troveremo la nostra la gioia: «Cherchez l’amitié du Bon Dieu et vous aurez trouvé votre bonheur» (Sermons «Amour de Dieu», III, 181).