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Una toccante testimonianza da Haiti: parla un volontario dei Padri Camilliani

1 marzo 2010 | 13:09
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Una toccante testimonianza da Haiti: parla un volontario dei Padri Camilliani

Tra macerie e miseria la dignità del popolo haitiano.

Ho soggiornato solamente una settimana a Port au Prince e dopo aver girato in lungo e in largo la capitale ho visto macerie ovunque. L’80 per cento delle costruzioni è drasticamente crollato o comunque inagibile e pericolante. La gente ha negli occhi ancora il terrore vissuto quel 12 gennaio: tutti i sopravvissuti si sono accampati davanti alle macerie delle proprie abitazioni, utilizzando nylon e teli per ripararsi un po’ dalle piogge ormai imminenti e dall’abbondante rugiada mattutina. Molti si erano rifugiati sotto i portici delle case pericolanti e, in seguito alle frequenti scosse di assestamento, diversi sono deceduti per qualche crollo improvviso. La gente ha paura, tutti dormono all’addiaccio e i mass media locali alimentano questo terrore, minacciando un’altra grave scossa di terremoto. Ad un mese di distanza dalla tragedia, percorrendo la città distrutta, si ha l’impressione che il terremoto sia appena avvenuto: il danno è tale che i soccorsi quasi non si notano e oltretutto diversi gruppi di soccorso stanno già smontando i campi, perché l’onda di emergenza sta finendo. Camminando si vedono solo ruderi e si sente ancora forte l’odore di cadaveri. In tutta la città ho visto solo due escavatori, la maggioranza dei morti è ancora sotto i detriti dove soltanto i cani riescono ad intrufolarsi per sbranarli. La gente ha solo le proprie mani per scavare e ricostruire, ma non ha più forze. Oltre alle case, anche ospedali, scuole, uffici, negozi, banche sono devastati, quindi sono sfumate anche quelle poche possibilità di lavorare che c’erano prima: ad Haiti è crollato tutto! Solo la fede è rimasta. Ad un mese esatto dalla tragedia, gli Haitiani si sono riuniti, per tre giorni di fila, nella chiesa della nostra missione e nelle piazze di tutta la capitale, per lodare e ringraziare il Signore, cantando e danzando, con addosso i vestiti più belli e puliti che avevano. Non domandano a Dio perché ha lasciato morire tanta gente, si domandano, invece, perché Dio li ha salvati. Si sentono amati perché sono sopravvissuti e questo dà loro la forza di ricominciare. Io, conoscendo già la situazione prima, sono andato laggiù senza speranza alcuna, e paradossalmente sono stati proprio loro a dare grande speranza a me. Gli Haitiani mi hanno consolato!
La nostra missione ha strutturalmente resistito, anche se il terremoto ha causato molte crepe e gli arredamenti sono tutti da riparare. I primi giorni i medici hanno dovuto far fronte a centinaia di operazioni cercando i ferri chirurgici e le medicine in mezzo a tutte le apparecchiature ribaltate e ammucchiate sui pavimenti allagati, a causa dei tubi rotti. Proprio quando ogni secondo era vitale, si faticava a trovare gli strumenti adatti. Attualmente le varie attività sono state ripristinate e il nostro ospedale sta riprendendo il suo completo funzionamento; anche i container inviati dall’Italia giungono intatti alla missione.
Per ora i nostri seminaristi dormono ancora nelle tende e quando sono in casa, appena sentono una scossa, scappano fuori in silenzio e tornano, poi, con gli occhi in lacrime: sono traumatizzati perché ricordano le urla dei loro amici e compagni che hanno dovuto lasciare morire sotto le macerie, proprio lì sotto i loro piedi, per l’impossibilità di scavare a mani nude.
Non ha bisogno di commenti poi il fatto che il direttore di un nostro orfanotrofio in Port au Prince, pochi minuti prima della grande scossa, senza saperne il motivo, è corso dentro il fabbricato urlando a tutti i bambini di uscire fuori: il fabbricato è crollato completamente e i 60 bambini sono salvi.
Nella missione, inoltre, ho avuto modo di conoscere molti superstiti: Ozim, un ragazzo di 16 anni, amputato al braccio e alla gamba sinistra. Viveva nella miseria e il suo unico sogno e sollievo era giocare a calcio. Isabelle, 14 anni, ha perso la famiglia ed è rimasta da sola con il piccolo Wilson, frutto di una violenza subita; ora non può neppure allattare suo figlio, perché fisiologicamente è troppo giovane.
Anche i nostri bambini del foyer Betlhéme sono tutti salvi: pur essendo accuditi e nutriti, la loro è una vita difficile. Essi sentono un grande bisogno di affetto: ti si avvicinano, ti prendono la mano e se la passano sulla guancia, poi chiudendo gli occhi, abbozzano un sorriso, immaginando che sia la mano della loro mamma. Sono stati abbandonati solo perché la loro invalidità è ritenuta una maledizione voodoo.
Questo è un po’ il quadro che ho fotografato ad Haiti. Ora nella mente mi risuona forte una domanda: se quella gente si interroga sul perché Dio li ha benedetti così tanto da lasciarli in vita, io che vivo qui in Italia, cosa dovrei pensare sull’amore che Dio ha per me?
Non mi resta che unirmi alle lodi e alle preghiere degli Haitiani.
18 -02- 2010 Francesco