Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità

23 marzo 2010 | 11:30
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Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità
Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità
Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità
Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità
Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità
Monsignor Sigalini: le norme per i presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità

Il progetto educativo dell’Azione Cattolica è questo, è conformarsi a Cristo non attraverso grandi proclami, anche liturgici, ma attraverso la vita concreta, il mondo delle relazioni e delle aspirazioni

Presbiteri che seguono l’Azione Cattolica per percorsi di santità

1.    Il vangelo esige una assimilazione globale e  progressiva per tutta la vita.
Noi sappiamo e predichiamo spesso che il vangelo va accettato tutto, senza “se” e senza “ma”. Questa energia accolta lavora all’interno dell’uomo e tende ad invadere gradualmente tutta la sua vita. Per servire questa esigenza del vangelo la prassi pastorale deve assolutamente preoccuparsi di mettere in atto tirocini severi di vita cristiana. Purtroppo crediamo che da un annuncio forte derivi un cambiamento automatico della vita, una conversione; crediamo che il diventare cristiani  sia frutto di un colpo di fulmine, di un certo automatismo. Ci manca la  consapevolezza che per vivere da cristiani occorre creare percorsi che aiutano l’annuncio a farsi carne concreta nella vita di ragazzi, giovani, adulti. Diventano necessari percorsi formativi e non sono lezioni di catechismo. Qui trova la sua ragion d’essere l’Azione Cattolica. Un convertito, con il battesimo, entra nel circuito stesso della morte e della resurrezione di Cristo applicata a lui. Dopo il battesimo sente l’effetto della distruzione del male che lo possiede e che è contro Dio, ma rimangono in lui elementi dovuti all’abitudine, alla consuetudine col male che si superano gradualmente per poter giungere a dire: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me, la vita che conduco nella carne la vivo nella fede (Gal 2,20)”. Cristo vive in me, non vivo da solo, c’è in me la vitalità di Cristo. La vita che vivo nella concretezza di ogni giorno ha una apertura al Figlio di Dio capito e sentito nel massimo del suo amore. Il Figlio che mi amò e che diede se stesso per me deve entrare nella mente, nel cuore, nelle azioni, nei progetti, nelle paure e nelle sofferenze, nelle gioie e nelle tensioni  dell’uomo di oggi. Tutta la vita deve essere compenetrata dalla fede, sempre aperta alla sua immedesimazione con Cristo. Se isoliamo una parte, questa va in cancrena. Qualunque aspetto della propria vita e della propria persona che fosse isolato dal Cristo morto e risorto risulterebbe necrotizzato. Tutti i settori dell’esistenza sono bisognosi di una purificazione e di una vitalizzazione progressiva.
L’assimilazione della fede non è rapida, ma progressiva, come una pianta robusta, una quercia che cresce. L’assimilazione a Gesù è complessa. Non si può dare un’etichetta cristologica dall’esterno, ma occorre pian piano, dall’interno, che Cristo si riveli nella fede.
L’educazione alla fede non avviene spontaneamente, ma deve essere servita da un progetto educativo, fatto di percorsi calibrati su ogni età e condizione
Il progetto educativo dell’Azione Cattolica è questo, è conformarsi a Cristo non attraverso grandi proclami, anche liturgici, ma attraverso la vita concreta, il mondo delle relazioni e delle aspirazioni, nei sogni di mondo nuovo e nelle delusioni provocate dalle fatiche e debolezze nostre, nelle scoperte di nuove forze, nuove possibilità che si percepiscono nella crescita e nella accettazione del dolore e del declino delle forze.
Il progetto per concretezza può essere riassunto in queste quattro qualità:
Forte decisione radicale per Gesù: l’interiorità, la spiritualità, la fede… Con questi ragazzi, con questi giovani, con questi adulti io prete devo continuare a mettere al centro Gesù, farli innamorare del vangelo. La pastorale nasconde ancora troppo la figura di Gesù, non lo mette al centro, lo dà per scontato. Si discute su tutto, si guarda a tutte le situazioni possibili, ma si lascia fuori Gesù. Specialisti della vita di Gesù, o meglio, innamorati di Gesù.
Costruzione di una fraternità fondata sul vangelo. E’ la scelta di Azione Cattolica di educare le persone nel tessuto di relazioni di una compagnia, un gruppo, una aggregazione, una amicizia. La forza del crescere assieme, non da isolati, ma da gente che partecipa e vive un legame di fede è fondamentale. Chi sta in AC non si fa mai i fatti suoi, ma condivide, segna il passo sul passo di tutti, trascina e  non va solo alla meta.
Ama la chiesa, questa chiesa con questi preti, con queste persone, queste tradizioni, queste difficoltà. Ne sogna una sempre più vicina al vangelo, ma la sogna dentro quella in cui vive e fa di tutto per realizzarla. Non si lega al campanile, ma si dedica a una chiesa. Non fa prevalere le appartenenze sociologiche, il giro di amici, i ricordi, i legami per le esperienze fatte, che pure sono un buon aiuto, ma continua a radicare tutto sulla Parola di Dio, nella fede.
Decide di vivere la sua vita cristiana nel territorio per annunciare e per servire. E’ missionario come tipo, come stile. E’ servo per vocazione. Vuole vivere la sua fede nel tessuto dei rapporti della quotidianità e dare al mondo il contributo della visione di fede per un futuro di giustizia e di pace per tutti. Sa impegnarsi per il bene comune. Gli interessa la vita della comunità umana e ne allarga sempre di più gli orizzonti.
Qui si concretizza e si distende tutta la capacità educativa dell’AC e la peculiare presenza del presbitero che orienta sempre ogni passo al confronto e ascolto della Parola di Dio.

2.    Il servizio quotidiano del prete all’Azione Cattolica
Questo cammino è legato all’Eucaristia. Noi possiamo essere anche pedagogisti, ma soprattutto presiediamo l’Eucaristia, diamo la grazia sacramentale del perdono, scriviamo questi doni entro un cammino umano che si apre all’insperato di Dio. Il prete in AC deve ricuperare una certa asimmetria di posizione rispetto ai laici educatori. Ha un suo ruolo insostituibile che è quello sacramentale non in senso solo e strettamente liturgico, ma nella conduzione globale della vita e delle relazioni che la caratterizzano.

Con i giovani
Il presbitero che sta coi giovani è spesso giovane lui stesso e vive in prima persona le tensioni e le domande dei giovani. Non gli è richiesto di rinnegare la sua giovinezza, ma di metterla al servizio della crescita nella fede dei suoi amici che ancora non hanno fatto scelte decisive nella vita o che vi si stanno preparando. Se sei giovane, sei anche facilitato a interpretare le nuove generazioni; sei ancora in formazione e in ricerca, ma direzionato, inserito in un contesto ecclesiale. Non ti rifugi nella atarassia dell’adulto, ma sai fare da ponte con loro; non ti metti le maschere, ma sai essere prudente… Giovani insomma, ma non giovanilisti. Il primo atteggiamento personale che devi assolutamente curare se vuoi fare della fiducia verso i giovani una scelta è di accettarti per quello che sei, non vivere in stati continui di depressione dovuti a insuccessi personali o di ruolo. Una stima verso di sé è la base della stima verso gli altri. La voglia di ricominciare  è essenziale per proporre fiducia, l’atteggiamento di ascolto completa il quadro.
Ricordo quando nel 2000 in Piazza San Pietro Giovani Paolo II ha offerto ai giovani la sua personale esperienza di fede. I giovani hanno bisogno di sentirsi raccontare la fede degli adulti, di sentire che anche noi siamo stati amati alla follia da Dio, che anche noi abbiamo dovuto sempre cercarlo tra tentativi, prove, debolezze e slanci generosi, desiderosi di essere almeno qualche volta degni del suo amore. La fede è un caso serio anche della nostra vita, non siamo i mestieranti del sacro. E’ una ricerca sempre da approfondire. Esige di non legare a se i laici, di orientarli sempre alla Chiesa e in essa a Gesù, attraverso il racconto di quanto Dio ha fatto in noi, non tanto dei nostri sforzi.

Investire nella debolezza
Tutti noi preti, giovani o adulti che siamo, dobbiamo costruirci un atteggiamento di fondo: investire nella debolezza. La figura di Gesù, la sua umanità, la condivisione della nostra debolezza, delle nostre aspirazioni, ansie, desideri, sogni, tutta la sua vicenda ci permette di trovare una strada nuova per crescere nella santità, un percorso nuovo che tenta di risvegliare nuovi linguaggi e dimensioni spirituali: la via educativa dell’investire nella debolezza. Anche nelle storie di tanti santi, patrimonio dell’Azione Cattolica, è possibile rivalutare i momenti in cui nella vita hanno conosciuto fatiche, debolezze fino al peccato. Eppure essi hanno incarnato, nella loro storia, la vita di Cristo. La loro debolezza ci testimonia che il loro impegno non sarebbe servito a nulla, se non a confermare la loro incapacità di salvarsi, senza la forza salvifica di Dio.
La capacità di osare nel chiedere tutto ai laici spesso cozza contro la nostra debolezza e mediocrità. Né l’una né l’altra possono abbassare il livello della nostra proposta. Non siamo noi il termine di confronto, ma Gesù, anche se essere testimoni convinti è una meta necessaria da vivere. Il livello della proposta che facciamo non è definito da quello che del vangelo noi possiamo vivere, altrimenti il vangelo sarebbe già scomparso dalla nostra predicazione. Siamo servitori di una Parola più grande di noi e di loro e saremo tanto noi che loro giudicati da essa. E’ tentazione anche per noi quella di annacquare il vangelo nelle nostre abitudini o magari, a seconda delle stagioni, di sentirsi chiamati a fare da Savonarola. La saggezza non è sinonimo di buon senso, del quale si può anche morire, ma di accoglienza globale, con la consapevolezza di far diventare il vangelo stile di vita e non arma di rivendicazione nei confronti degli altri o della istituzione.

La vita liturgica
La liturgia è lo spazio che spesso ci qualifica di più nella vita della comunità e della associazione. La cura di essa non è un compito esterno al presbitero, ma fa parte della sua spiritualità, fa parte della sua fede nei sacramenti, di come li vive per sé, di come sono luoghi di santità, spazi di interiorità per se stesso. Prima di essere una azione o una regia di atti esterni, è un tirocinio spirituale su di sé.  L’equilibrio che è richiesto al presbitero è di essere autentico con tutta la tensione della propria vita verso l’assunzione di una responsabilità da presbitero nei confronti dei laici. Il nostro essere preti e le attività educative formative che offriamo, l’offerta della vita sacramentale, gli spazi di presidenza della vita liturgica, la preghiera della comunità cristiana sono i luoghi della nostra santificazione; non sono altro dalla nostra vita interiore. Diventiamo santi facendo i preti, non facendo i laici. La partecipazione interiore a ciò che facciamo per gli altri è la prima strada di santità, non ce ne è un’altra che continuamente sospiriamo quando siamo impegnati nella pastorale. Se ciò non avviene, vuol dire che manca preparazione e partecipazione profonda.

3. La comunità ecclesiale
Un altro snodo è la comunione nella Chiesa. Una delle caratteristiche che vengono riconosciute all’Azione Cattolica e che la qualifica è l’amore alla chiesa. L’Azione Cattolica sceglie di educare le persone nel tessuto di relazioni di una compagnia, di un gruppo, di una aggregazione, di una amicizia inscritte nella comunità cristiana. La forza del crescere assieme, non da isolati, ma da gente che partecipa e vive un legame di fede è fondamentale. Chi sta in AC non si fa mai i fatti suoi, ma condivide, segna il passo sul passo di tutti, trascina e  non va solo alla meta. Ricordiamo che l’AC ama la chiesa, questa chiesa con questi preti, con queste persone, queste tradizioni, queste difficoltà. Ne sogna una sempre più vicina al vangelo, ma la sogna dentro quella in cui vive e fa di tutto per realizzarla. Non si lega al campanile, ma si dedica a una chiesa. Non fa prevalere le appartenenze sociologiche, il giro di amici, i ricordi, i legami per le esperienze fatte, che pure sono un buon aiuto, ma continua a radicare tutto sulla Parola di Dio, nella fede. L’AC non ha altra pastorale se non quella della chiesa della parrocchia, della diocesi. Occorre sempre creare nuovi raccordi tra  uffici pastorali e associazione. Sono una novità da circa trent’anni nella chiesa, ma non si è mai affrontato seriamente il tema. Un rapporto più stretto con i pastori a livello di progettualità pastorale è utile nelle chiese diocesane. L’AC deve essere la prima che contribuisce, condivide, fa conoscere e aiuta l’attuazione delle lettere pastorali, dei programmi diocesani. Gli assistenti di AC devono dialogare con la comunità presbiterale per variare gli orari dell’attività apostolica, per garantire nuovi tempi di presenza e di missione, per aprire spazi di corresponsabilità vera ai laici,  nella loro crescita interiore prima che nell’assolvimento del loro ruolo pastorale

4. L’AC decide di vivere la sua vita cristiana nel territorio per annunciare e per servire.
E’ quotidianamente missionaria come stile, proprio perché è associazione laicale. Le eventuali costrizioni operate spesso da noi presbiteri nei confronti dei laici a vivere in sacrestia, a parlare il parrocchialese, a circoscrivere alle attività interne la vita dei laici devono essere viste come attentati all’identità dell’associazione. Il laico di AC deve essere aiutato a vivere la sua fede nel tessuto dei rapporti della quotidianità e dare al mondo il contributo della visione di fede per un futuro di giustizia e di pace per tutti. Sa impegnarsi per il bene comune. Gli interessa la vita della comunità umana e ne allarga sempre di più gli orizzonti. Rendere l’associazione più missionaria significa aiutarla ad essere più capace di vivere e proporre percorsi sempre di santità, tenendo conto che il credente medio non è più incontrabile negli ambienti della parrocchia, non ne può fare a meno, ma si colloca altrove. Deve curare ponti tra la strada e la chiesa: è una missionarietà che continua a tenere aperta la chiesa e attento il mondo.
C’è qualcuno che forse è più capace di andare in strada ed è un bel dono di Dio, vedi per esempio le sentinelle del mattino ma occorre anche chi riesce a costruire appartenenze nuove alla comunità di grande respiro. Oggi constatiamo che molte persone ritornano alla vita di fede, a una scelta decisa e profonda di Cristo. Ma il passaggio da questo ritorno all’appartenenza a una comunità cristiana è lento, difficile, viene fatto per tentativi, per progetti, per tempi diversi da quelli di una vita di parrocchia normale. L’AC può creare questi ponti agili, fatti di amore alla chiesa e di popolare appartenenza ad essa. L’Azione Cattolica ha all’interno dei movimenti (studenti, universitari, formatori, professionisti…) che deve sviluppare di più, sostenere con più forza, aiutarli a creare questi ponti di cui si diceva sopra.
Le nostre canoniche o case parrocchiali o centri diocesani devono essere aperte, i laici devono potersi sentire a casa loro. E se ci arde in cuore qualche atteggiamento di missione più spinto, l’assistente di AC ha per primo compito quello di preparare una comunità di apostoli e non sentirsi in prima persona l’incaricato del muretto o dell’apertura verso tutti; della serie non sono io che deve andare in discoteca, o che deve girare per i pub, o che deve abitare i giardinetti, o stare nella notte dei giovani (qualche esperienza invero non guasterebbe), ma devo aiutare l’associazione ragazzi, giovani e adulti a vivere con me questa passione per il vangelo.

Riprendo dalle parole del presidente dei vescovi italiani il significato di questa affermazione o per lo meno il campo in cui deve essere incarnata: “ bisogna spingersi ancora più al largo: in quegli areopaghi vecchi e nuovi dove il mondo contemporaneo affronta questioni inedite e decisive, come la concezione della persona, l’esistenza e il fondamento di valori universali e invalicabili, la difesa e la promozione della vita, dal concepimento al suo naturale tramonto, la libertà educativa, l’importanza ineguagliabile della famiglia basata sul matrimonio, fondamento della società umana. Su questi versanti che, pur illuminati dalla fede sono accessibili alla retta ragione, i discepoli di Cristo hanno da offrire la loro convinta testimonianza e la loro rispettosa parola. Lo scopo non è altro che la fedeltà a Dio e all’uomo, per una società più umana. Per questo “il nostro atteggiamento – come diceva il Santo Padre al Convegno Ecclesiale di Verona – non dovrà mai essere quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia (…) Se sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo”.

NB.
un passo indietro nella impostazione della pastorale
Da molti anni purtroppo ogni presbitero si ritiene autorizzato a inventarsi lui la pastorale, a decidere secondo le sue mire che cosa si deve fare o non nella vita della comunità cristiana. La pastorale è del vescovo e del suo consiglio pastorale e presbiterale, non è dei singoli.
Occorre imparare a entrare in punta di piedi in ciò che ci precede e che si è generato nella chiesa particolare. Occorre ascoltare la voce dei vescovi che impostano la vita di santità delle persone. E se nel programma pastorale una associazione o un percorso è parte non secondaria della struttura o della vita di una comunità, se il vescovo la propone, non possiamo fare finta di niente e inventare noi il nostro gruppo, la nostra sequela che puntualmente cade e si scioglie con noi lasciando la chiesa nuda di apostoli e di santi.

5. Le caratteristiche dell’Azione Cattolica
1.    Sono cristiani che si mettono assieme stabilmente e liberamente per essere sempre più se stessi come battezzati nella comunità cristiana e nel mondo. Si qualificano dandosi una struttura associativa per realizzare concretamente nel vivere quotidiano, negli impegni della vita, nei doveri professionali, nelle relazioni l’essere cristiani come sta scritto nel loro nuovo DNA impresso nel Battesimo.
E’ importante sapere di far parte di una associazione stabile, con tanto di mete, relazioni, stile di vita, processi formativi, volto visibile e riconoscibile, un mettersi assieme nel nome del vangelo
2.    Hanno ricevuto il battesimo, si sono lasciati affascinare dalla giustezza e dalla bellezza del vivere il vangelo entro tessuti di relazione ampi e si danno delle regole per trasformare il fascino in una scelta calibrata, quotidiana, confrontabile, ricomponibile ad ogni età o fase della vita.
Si danno un progetto di crescita, per sè, per tutte le età della vita. Non sono assolutamente cristiani per caso, ma perchè rispondono a una chiamata, che diventa progetto di crescita.
3.    Scoprono che essere credenti nel mondo di oggi esige darsi spazi stabili di scambio di vita, di allenamento ad assumere responsabilità, di progettazione di azioni, di compagnia fraterna. Da soli si è impotenti, assieme ci si aiuta e si rende presente Dio.
Si allenano assieme ad assumere responsabilità con tirocini severi di vita aggregata. Una associazione offre spazi precisi di responsabilità verificabili, azioni non estemporanee, ma pensate entro una progettualità
4.    Vedono che molti uomini e donne cercano un senso alla vita, loro ne hanno intuito la strada per trovarlo e si organizzano, si confrontano, si attrezzano per farlo incontrare a tutti. Valutano assieme le domande che giungono a ciascuno dalla propria esistenza, dal proprio posto di lavoro, dalle relazioni umane e trovano assieme uno stile di vita altamente comunicativo della fede che vivono.
Si aiutano a vicenda a fare una lettura della realtà con i criteri del vangelo e la mettono a disposizione della chiesa e di tutti quelli che vogliono seguire Cristo
5.    Sperimentano spesso sulla propria pelle che le giovani generazioni fanno fatica a orientare la vita alle cose vere, solide, di valore; ma sanno che in tutti i giovani c’è desiderio di ideali alti. Per questo si mettono assieme per offrire alle giovani generazioni una esperienza di vita cristiana possibile; si offrono per aiutare i ragazzi a crescere entusiasti, a conoscere Gesù Cristo, a vivere da cristiani protagonisti. Sanno che i ragazzi hanno capacità impensabili di amare Dio.
Vivono con competenza la responsabilità educativa, si dedicano alle giovani generazioni, vi coinvolgono tutte le forze disponibili della famiglia, della società e della chiesa.
6.    Sanno che la Chiesa è costituita su un principio di responsabilità e decidono di collaborare strettamente, fino a modificare i propri piani, ad abbandonare le proprie priorità organizzative e decidono di collaborare con i pastori per portare assieme il peso di questa responsabilità.
Sono una forza che condivide, facilita, aiuta, dispiega il progetto pastorale della propria chiesa, prima di curarne un eventuale proprio.  
7.    Hanno capito che la vita sociale è complessa e che ha bisogno di un’anima. Solo che dare un’anima all’economia, alla vita sociale, alla cultura è impresa tipica di chi si costituisce secondo il vangelo come soggetto di scambio, di approfondimento, di aiuto, di comunione, come associazione appunto.
Per essere propositivi nei confronti della società non si può andare in ordine sparso, ma occorre camminare assieme, avere strumenti di analisi condivisi, punti di vista maturati in una storia di impegno e di vita, una tradizione; se poi c’è una storia di persone e di fatti vissuti, meglio.
8.    Si accorgono che molti ambienti vengono praticamente tagliati fuori dalla conoscenza di Gesù e si attrezzano per condividere le ansie e le gioie, le ricerche e le fatiche di ogni ambiente e portarvi la bellezza del vangelo
Oggi soprattutto che la gente si aggrega per gli spazi che abita, le finalità che coltiva, che si isola in tanti piccoli mondi, l’AC si fa struttura che si specializza per portare in questi mondi o situazioni la novità del vangelo. I movimenti hanno questo compito da vivere nel mondo, nella chiesa e nell’associazione.
9.    Decidono di servire la struttura di base della comunità cristiana, la diocesi e in essa tutte le sue componenti come la parrocchia, offrendosi per renderla sempre più abitabile, casa e scuola di comunione e di cristianesimo vivo.
Il primo servizio alla comunità cristiana è di renderla abitabile da tutti in tutti i luoghi in cui essa è presente, parrocchie diocesi, unità pastorali, privilegiando quelle di base, in cui possono stare tutti, senza particolari scelte. La chiesa non è una somma di appartenenze più o meno qualificate a gruppi o aggregazioni, ma un popolo che vi appartiene anche solo per il battesimo o per il desiderio di convertirsi.
10.    Ma soprattutto hanno capito che essere cristiani oggi lo si può in un modo solo: da santi. Decidono allora di mettere in piedi una palestra di santità, con tanto di tempi, esercizi, allenamenti, dialoghi, tirocini, allenatori, ascolti e gare. Ogni parrocchia deve avere una sua palestra, l’AC è questa palestra, ben progettata, tenuta efficiente, arricchita di vita sante, collegata alla comunione dei santi.
L’Azione Cattolica forma specialisti della santità, non della pastorale e tanto meno della sacrestia e per essa mette a disposizione  una regola di vita. L’AC fa parte della struttura di base della chiesa, per questo va promossa, come una vocazione, con grande libertà di rispondervi, quella dello Spirito.

+ Domenico Sigalini